ALLA FINE SI GUARISCE DALLA FINE DI UN AMORE

E’ il volto tuo che ho disegnato
chino per terra io l’ho dipinto:
ho usato il nero per i tuoi occhi
e bianca sabbia per la tua pelle
Quando la pioggia l’avrà lavato
e i tuoi colori confuso,
e quando il vento sarà passato
sarò alla fine guarito.

E’ il volto tuo che ho disegnato,
mi son seduto ed ho aspettato:
ho usato il nero per i capelli
e rossa sabbia per la tua bocca.
Verrà la pioggia e lo laverà,
confonderà i tuoi colori,
e quando il vento sarà passato
sarò alla fine guarito.

Colori di Angelo Branduardi

Questa canzone di Angelo Branduardi è una metafora di come dovrebbe essere un percorso di guarigione dalla fine di un amore.
All’inizio bisogna dar spazio ai ricordi, al dolore, alla rabbia non tentare di rimuoverli. Più si dà spazio a tali sentimenti come Branduardi riporta nella canzone e prima arriverà il tempo ad attenuare man mano tutto fino ad una graduale scomparsa, per quanto doloroso possa essere veder cancellare tutto, e si potrà dire di essere guariti.

Roberto Cavaliere 

IL CERVELLO HA LE RISORSE PER SUPERARE IL MAL D’AMORE

Uno studio pubblicato sulla rivista Review of general psychology e condotto dagli studiosi della Saint Louis university che hanno esaminato la letteratura scientifica sull’argomento focalizzando l’attenzione proprio sui processi che portano alla rottura di una relazione e all’inizio di un’altra, ha portato alla conclusione che esista un meccanismo nel cervello di ciascuno di noi ci aiuta a reagire e a tirarci fuori dai momenti bui e dalle situazioni tumultuose.

«Ciò suggerisce che ci si riprende. Il dolore andrà via col tempo e ci sarà una luce alla fine del tunnel» – spiega Brian Boutwell autore dello studio. I motivi che portano alla fine di una relazione, secondo gli studiosi, possono essere svariati e soprattutto diversi tra uomini e donne.

Per l’uomo generalmente sono da attribuire prevalentemente e un’infedeltà fisica della propria partner, mentre per le donne ad un’infedeltà sentimentale, emotiva, anche se ci sono dei casi in cui le ragioni possono essere comuni ad entrambi i sessi.

«Ad esempio a volte uomini e donne interrompono una relazione per la stessa ragione, perché nessuno dei due tollera la crudeltà da parte del partner» – aggiunge Boutwell. Ma quando si fa la scelta di lasciarsi alle spalle un rapporto ciò che accade è simile a una disintossicazione dalla droga, che non a casa per capire meglio alcuni meccanismi hanno studiato proprio le scansioni cerebrali di chi faceva uso di cocaina e di chi ha smesso. Si attivano altre aree del cervello rispetto a quando si è nel pieno di una storia d’amore e sono proprio queste nuove aree che ci predispongono, con il tempo, ad aprire il cuore ad un nuovo partner.

«Inizialmente – dice ancora Boutwell – a prevalere potrebbe essere il vecchio partner e il tentativo di riconquistare il suo affetto, tuttavia se il meccanismo si mette in funzione il cervello degli individui agisce per correggere certe emozioni e comportamenti, aprendo la strada per essere attratti da nuovi compagni e dare vita nuove relazioni».

SCELGO ME e LA FUGA VERSO ALTROVE

Tratto dalla discussione del forum “scelgo me!” (forum “fine di un amore”)

Autore: v_veronica07

Sezione: Messaggi di Speranza

Selezione a cura di Carlotta Onali

 

Ciao a tutti,
è la prima volta che scrivo anche se conosco questo forum da oltre un anno. La mia relazione a distanza si è appena conclusa (anche se temo che non fosse mai iniziata…). Ho 38 anni e sin da piccola un unico romantico sogno…una mia famiglia! Durante lo svolgersi della mia esistenza ho accumulato esperienze che erano il riflesso della mia convinzione interna:l’obiettivo di una famiglia è per me impossibile. Non ne sono capace. Ed ho fatto di tutto per dimostrarmelo. Unicamente attratta da uomini sfuggenti, indifferenti, immaturi, incapaci di dare. A 27 anni mi sono resa conto, dopo la lettura del libro della Norwood, di essere affetta da dipendenza affettiva. Segue psicoterapia di 5 anni con una psicologa e di altri 3 anni con psichiatra…ambedue utili a livello di acquisizione di consapevolezza ma nulla di più. Con enormi difficoltà, abitando in una piccola provincia del sud dove l’amore che fa soffrire è assolutamente normale, creo un gruppo per donne con dip affettiva che ha breve vita dato che era composto da solo 4 donne peraltro neanche molto motivate.
E quindi veniamo alla mia ultima “storia”. Lo conosco in chat oltre un anno fa. Fu subito passione. Lui separato, 2 figli e appena uscito da una storia di 2 anni. Mi convinco che è affidabile nonostante sia fantastico quando stiamo insieme ma scompaia non appena ritorna nella sua città. Poi dopo un mese, alla vigilia della nostra prima lunga vacanza insieme, mi lascia per tornare con la sua ex. Decido di non sentirlo più. Dopo 2 mesi torna da me dichiarando di avermi sempre pensato e che vorrebbe stare con me “seriamente”. L’idillio dura 2 mesi durante i quali si rifiuta di farmi conoscere i suoi figli, perchè da troppo poco tempo si è lasciato con la sua ex e mi nasconde a sua sorella ….sembriamo amanti clandestini. Infine non si fa sentire…lo sorprendo a chattare con altre e lo lascio. Il tutto con enorme dolore. Mi fa sentire rifiutata, la mattina mi sveglio (se riesco ad addormentarmi) con una forte ansia. Trascorre l’intero inverno e a giugno ricompare dichiarando di non volere storie al momento e raccontandomi che negli scorsi mesi era ritornato per la terza volta con la sua ex facendo in tempo a firmare un compromesso per l’acquisto di una casa in cui vivere con lei, poi per una sfuriata di lei si sono lasciati. Io sono molto fredda e distaccata e più lo sono e più mi corre dietro fino ad offrirmi una crociera insieme a titolo risarcimento danni per la vacanza che l’anno prima non avevamo mai fatto. Non senza titubanze accetto. Solito film lui è presente e affettuoso finchè siamo insieme, sempre che non senta da parte mia alcuna richiesta, e appena distanti diventa irraggiungibile. Al ritorno dalla crociera mi confessa di essere un pò malinconico perchè ricorda solo i momenti più belli trascorsi con la sua ex e che gli fa bene sentirla per ricordarsi l’impossibilità della loro relazione. Mi sento usata e glielo dico. Lui afferma che ho equivocato. Di nascosto guardo i messaggi sul suo cell e scopro che manda gli stessi sms a me alla sua ex e ad altre 2 donne. Dopo un meraviglioso weekend trascorso insieme, con lui amorevole come non mai, lo ritrovo in chat. Nel suo profilo ha messo una foto in cui eravamo insieme naturalmente epurata della mia immagine. Uso questo ultimo dolore per trovare la forza di troncare e scompaio per un paio di giorni. Mi manda un sms in cui mi dice che suo padre è molto grave ed è ricoverato in ospedale. Lo chiamo, gli sono vicina. Lo rassicuro, gli dò tutto il mio calore. Il giorno dopo (oggi) lui di nuovo in chat, con quella foto. Gli faccio presente che mi ha dato un dispiacere mettendo proprio quella foto. Non mi risponde.
Fine del terzo atto BASTA!
E ci vuole coraggio e forza per non rispondere alle sue richieste di aiuto e scegliere per una volta ME.
Scegliere l’immancabile vuoto, i sensi di colpa, l’ansia, la solitudine e l’inferno che conosco bene. Ma rimane poco tempo ed il mio sogno da realizzare e una battaglia tutta mia da combattere …quella contro la vocina interna che dice “non ce la fai, non è per te”
Chiudo con una frase che ho letto oggi “Dì a te stesso dapprima che vuoi essere; poi fa di conseguenza ciò che devi fare” Epitteto.
Un grazie a tutti per l”ascolto”

v_veronica07

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Tratto dalla discussione del forum

“La fuga verso “Altrove” ovvero mi presento”

Autore: Skara

Sezione: Messaggi di Speranza

Selezione a cura di Carlotta Onali

Dopo aver interagito un poco con voi, aver letto moltissimo, mi sono resa conto di non essermi presentata, ma di aver lasciato qua e là qualche orma sulla mia storia.

Famiglia difficile la mia, povera di tutto, soldi, affetto, cultura, una crescita con nonna e zia dai due anni ai dodici, del prima nulla si sa per certo le versioni sono discordanti, due anni fino ai 14 con dei genitori ricomparsi dal nulla, violenza e abuso pane quotidiano, nasce la fuga verso “altrove”, da casa con l’aiuto di un assistente sociale e il rientro ad una vita più serena, pare tutto vada bene studio, mi diplomo, mi laureo, trovo un lavoro stabile, ma nel frattempo passano gli anni e a 38 dopo l’ennesima ricaduta in una storia “persa” già in partenza, l’inizio della terapia che mi ha condotto fino a voi.

Apparentemente tutto scorre, c’è il lavoro, il mutuo, ma nel frattempo ho traslocato 14 volte, cambiato 7 città, perchè “altrove” ovvero io, neppure sapeva di fuggire, pensava solo di essere una dinamica donna nell’era della flessibilità, invece era sempre una fuga, dai rapporti, tre storie importanti in 40 anni di vita, tutte segnate, a vederle ora dopo due anni di analisi, dall’infattibilità di ognuna.

“Altrove” ha scoperto alla non piccola età di 40 anni che ha sempre avuto paura delle relazioni, che dentro le riecheggiano o come abbandoni o come violenza, quindi o si evitano scegliendo accuratamente persone complesse, ad incastro mirabilante con le proprie nevrosi, uno molto grande da fanciulla, un peter pan da adulta, uno sposato nella maturità, o peggio scelte in modo da far risuonare quella corda mai ricucita della ferita antica.

Vivo così la mia duplicità adesso, consapevole che il mio funzionamento adattivo e sociale è buono, il mio mondo affettivo un deserto, che anche io ho contribuito a creare. Cosa farò di questa consapevolezza non so, forse le emozioni ed i sentimenti non si riallineeranno mai con il pensiero, però ora scatta la campanella d’allarme, e tolto il carro armato con cui ho superato senza dubbio difficili traguardi, finalmente sento che ho anche un anima, piena di bellezza e desolazione, che trema e palpita, ho scoperto cosa voglia dire sentirsi, sentire se stessi.

E poi ho scoperto voi, tanti, diversi, vivi.

Una carezza

Skara

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

IL RESTO E’ NELLE NOSTRE MANI

Tratto dalla discussione del forum “….il resto è nelle nostre mani….” (forum “fine di un amore”)

Autore: Dana

Sezione: Messaggi di Speranza

Selezione a cura di Carlotta Onali

 

Ciao amici miei,
ogni tanto sento la voglia di scrivervi, non so bene perché e, a volte, non so neanche bene cosa… Così, spesso, decido di lasciar perdere e mi limito a leggervi. Ma oggi no. Oggi ho il cuore in subbuglio e, anche se mi appresto a scrivere in modo sconclusionato, ho deciso di non reprimere quest’impulso e lasciare che le mie dita si muovano su questa tastiera sull’onda dell’emozione più che del pensiero.

Sono innamorata. Ecco. L’ho detto. Semplice e conciso. L’amore ha bussato di nuovo alla mia porta. Ed è magnifico…

Conosci un ragazzo, inizi a parlarci, a frequentarlo, il rapporto si stringe, diventa un’amicizia “molto speciale” (cerchi di chiamarla così…o almeno ci provi) e poi….e poi non te lo sai spiegare perché le regole dell’attrazione funzionano in maniera a noi sconosciuta, ma smetti di pensare a lui come all’amico speciale. Non sai bene come e quando è successo, sai solo che ora lui è la prima persona a cui pensi al mattino e l’ultima che ti accompagna mentre sei lì lì per abbandonarti al sonno.

Iniziare una storia è una bella sensazione. E’ sempre così…beh, sì dai…altrimenti non la inizieresti proprio… Ma scoprirsi innamorati è un colpo al cuore. Sarà che l’ultima volta che mi sono sentita così avevo 17 anni…ma avevo dimenticato cosa volesse dire il passaggio dal “mi piace” al “sono innamorata di lui”…cosa volesse dire ammetterlo a sé stessi…..ma soprattutto dirlo A LUI.
Fare uscire quelle parole dopo che per giorni hanno vagato tra la mente e il cuore, provocando strane fitte allo stomaco…è stato un momento che non dimenticherò mai.

Stavolta è successo ad un’età e dopo la fine di un’esperienza che mi hanno consentito di vedere le cose in un’ottica diversa. Più consapevole. Ho detto per la prima volta “ti amo” da adolescente… quando pensavo ingenuamente che ogni cotta era amore. Poi con quel ragazzo sono stata 11 anni. Non so se quel primo “ti amo” fosse la misura dei miei reali sentimenti di allora. So solo che negli anni il sentimento è cresciuto e si è consolidato e che quelle due parole hanno avuto un senso per molto molto tempo. Poi quella storia è finita e per un attimo ho persino pensato che, se è vero che l’Amore, quello con la A maiuscola, è così raro, se è vero che lo provi una volta, se ti va bene, e che a qualcuno non è dato di provarlo mai…beh, per un attimo ho pensato che allora mi ero giocata la mia occasione….che il destino non mi avrebbe concesso una seconda possibilità. Perché avrebbe dovuto?

Questi pensieri li ho condivisi un po’ con voi quando sono approdata su questo forum e mai avrei pensato che dopo 7 mesi avrei potuto scrivere un post come quello che sto scrivendo oggi.
Perché vi dico tutto questo? Principalmente perché ho voglia di condividermi, e poi perché tra le righe dei messaggi che leggo si nasconde troppo spesso una mancanza di fiducia nel domani. Mancanza di fiducia che mi apparteneva qualche mese fa e che, ricordo bene, era una delle principali fonti di sofferenza.

La fine della mia relazione, alla luce delle riflessioni che ne sono seguite, era imminente e inevitabile. Non me n’ero accorta perché ero “distratta” dalla convinzione che dopo 11 anni i giochi erano fatti. Avevo trovato il vero amore, avevo un progetto di vita, avevo delle ambizioni, avevo delle certezze. Certezze che qualunque cosa potesse succedere il nostro essere “una coppia” non sarebbe mai stato messo in discussione. Quanto mi sbagliavo… E non lo dico con rimpianto o rammarico. Lo dico semplicemente constatando che nulla viene da sé, nulla è immutabile, nulla è prevedibile, nulla è immune…La mia sofferenza di allora, l’ho compreso più tardi, era legata, sì, alla perdita dell’uomo che amavo…ma soprattutto al fallimento di un progetto, al fatto che ero impreparata a veder cambiare il mio mondo, la mia certissima e rassicurante realtà.
Ecco il perché dei miei tentativi estenuanti di recupero… Ma poi mi sono arresa all’evidenza dei fatti: non si può costringere qualcuno ad amarci. Nel momento stesso in cui ho capito che dovevo andare avanti con la mia vita ho smesso di pensare alla possibilità di un suo ritorno e cominciato a pensare al come e al perché eravamo arrivati a quel punto, per poter ricominciare la mia vita con una nuova consapevolezza….per poter fare tesoro dell’esperienza e dare un senso a tutto quel dolore.
Risultato? Tutta colpa mia come voleva farmi credere? No. Responsabilità condivise. Ognuno ha fatto il suo e le cose sono andate così. Amen. L’importante è imparare dai propri errori.

Un’amica mi ha detto: “l’atto d’amore più grande che ha fatto nei tuoi confronti è stato lasciarti. Con lui vivevi al di sotto delle tue potenzialità”. Sul momento ci sono rimasta di sasso. Poi dal nulla, quando meno me l’aspettavo, la vita mi ha regalato qualcosa per cui essere di nuovo felice…e pensando a tante lacrime versate, l’unica cosa che mi viene da fare ora è sorridere. Ho smesso di aspettare il suo ritorno e questo mi ha permesso di vedere al di là del mio naso quello che di bello stava per succedere. Gli sono andata incontro, sono andata incontro alla vita, e ora sono felice. Ora le parole della mia amica suonano chiare, cristalline. Ho recuperato me stessa e mi sto esprimendo senza vincoli avendo di fronte una persona che non fa altro che accogliermi e donarsi.

Si chiama amore? Non so, probabilmente lo è…..io l’ho chiamato così. Ma dare un’etichetta a quello che provo è l’ultima cosa che mi interessa. E’ sicuramente libertà, è condivisione, è supporto, è emozione, è attrazione, è fiducia, è impegno, è speranza, è amicizia, è vicinanza, è contatto, è promessa….è VITA!!!

Volevo condividere tutto questo con voi, miei compagni di viaggio, perché, al di là dell’ormai acquisita consapevolezza che niente va dato per scontato, l’altra lezione che ho imparato da quello che mi è successo è che solo alla morte non c’è rimedio. IL RESTO E’ NELLE NOSTRE MANI.

Un abbraccio sincero

Dana

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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PET THERAPY

Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perso in modo estremamente pericoloso il sano intelletto animale: vedono in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice. 
(Friedrich Nietzsche)

Sostituire un’amore con un’animale? No, certamente. Ma un’animale ci può sicuramente aiutare all’interno di una relazione in crisi, di una dipendenza affettiva, di fronte alla fine di un amore. Ci allevia il dolore, è una delle tante strategie autoteraputiche che ci aiuta. In grego tecnico si chiama Pet Therapy. Ma parliamone più dettagliatamente.

La Pet Therapy nasce in America nel 1953 ad opera dello psichiatra Boris Levinson che constatò che mentre assisteva un bambino autistico, quest’ultimo relazionando col suo cane, traeva maggior giovamento dalle sedute terapeutiche. Ma le prime e vere terapie con animali risalgono alla fine degli anni ’70 quando Turk proponeva ai malati mentali di migliorare il loro autocontrollo anche attraverso il prendersi cura degli animali.

Dopo questi studi ne sono seguiti tantissimi altri che hanno dimostrato che gli animali domestici, e non solo, oltre ad essere amici dell’uomo possono anche diventare una medicina per integrare le terapie classiche per la cura di soggetti con patologie di carattere psicologico e comportamentale.

Entrando nello specifico, oggi, con l’espressione Pet Therapy o quella italiana di “terapia per mezzo degli animali” si indicano tutti quegli interventi di tipo educativo, ricreativo e/o terapeutico condotti con animali , finalizzati a migliorare la qualità della vita. Per cui non più applicazioni solo terapeutiche ma anche educative e ricreative. Questi interventi di Pet Therapy possono essere condotti in differenti contesti sia da professionisti che da volontari, adeguatamente formati, con animali che hanno determinate caratteritiche.

E ‘importante puntualizzare che la Pet Therapy non è una terapia da effettuare in sostituzione di altre forme di terapia, ma unitamente ad esse.Essa và calibrata a seconda della persona, del paziente e della patologia da curare.Ciò perché tale terapia non è adatta per ogni persona e per tutte le patologie.In generale, si devono tenere presenti non solo le aspettative, la personalità e la patologia del paziente, ma anche le naturali propensioni dell’operatore e dell’animale.

Ad esempio la Pet Therapy non è consigliabile quando le persone che non sono in grado di prendersi cura di altri esseri viventi, a causa delle loro condizioni psicofisiche, o soprattutto quando ci si tende a comportarsi in modo molto possessivo nei confronti dell’animale.

E’ inoltre sconsigliabile quando c’è la presenza di problematiche oggettive come deficit del sistema immunitario; persone con gravi disturbi psichiatrici che si manifestano con la violenza, fobie specifiche nei confronti degli animali, allergie.

Gli obiettivi possono essere di vario tipo, soprattutto cognitivi e psicologici:

  • aumento dell’ attenzione
  • miglioramento dell’autostima
  • riduzione dell’ansia
  • riduzione del senso di solitudine
  • maggiore padronanza di concetti come taglia, colore, ecc.
  • stimolazione della partecipazione ad attività di gruppo e alle interazioni con gli altri.

I meccanismi fondamentali d’azione della pet therapy sono:

  • Di tipo comunicativo. Lo stile comunicativo uomo-animale, fondandosi su un linguaggio molto semplice, con ripetizioni frequenti, tono crescente e interrogativo, presentando similitudini con quello che le madri utilizzano con i loro bambini, produce un effetto rassicurante, sia in chi parla, sia in chi ascolta. Inoltre, l’animale non potendo valutare, contraddire, correggere le affermazioni della persona, permette di essere più spontanei, meno ansiosi, senza il timore del giudizio altrui. Oltre ad essere ricca di elementi della comunicazione non verbale quali tatto, vista, olfatto.
  • Di tipo ludico. Il gioco e il divertimento che s’instaura con gli animali soprattutto cani e gatti. Con tutti gli effetti positivi per il nostro benessere psicofisico dovuti al gioco, al divertimento ed alle risate, sempre più difficile trovare nelle relazioni fra umani.
  • Di tipo interattivo . La presenza di un animale, spesso, può essere motivo di conversazione con altre persone costituendo così un modo di relazionarsi.
  • Di responsabilizzazione. Prendersi cura di un animale significa consapevolezza e assunzione delle proprie responsabilità, che saranno diverse a seconda della propria età e delle proprie possibilità, come nel caso dei bambini.
  • Di tipo affettivo. Il legame che si viene a creare tra uomo e animale può sopperire parzialmente la mancanza di un rapporto affettivo fra umani. Anzi può essere un modello relazionale-affettivo da trasferire in seguito ai rapporti fra le persone. Questo modello è di tipo positivo perché l’animale ispira fiducia, empatia, calore permettendo così di migliorare, per vicarietà, anche un rapporto negativo dal punto di vista relazionale-affettivo che abbiamo cogli altri.

Bisogna stare attenti, però, a non “sostituire” le persone con l’animale. Il pericolo maggiore è insito nella circostanza che l’animale non ci “delude” non è fonte di “frustrazione”, come avviene nei rapporti con esseri umani. Alla lunga può portare ad un “isolamento relazionale”. A quel punto il rimedio è peggiore del male che si vuole curare. Tutto ciò è particolarmente vero nelle dipendenze affettive, dove la dipendenza può avvenire nei confronti dell’animale. Dipendenza apparantemente più “innocua”, ma proprio per questo più subdola e pericolosa.

Non dobbiamo dimenticare, infine, anche il rispetto e le cure che dobbiamo all’animale stesso. Non è né un’oggetto, né un essere da trattare a nostro piacimento

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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CINETERAPIA

La Cineterapia è una terapia psicologica “alternativa” che si basa sulla visione dei film ed è nata ad opera dello psicoterapeuta statunitense Gary Salomon. Quest’ultimo si rese conto che diversi disagi psicologici, da un semplice stato d’animo a vere e proprie patologie della psiche, possono trarre beneficio, in maniera più o meno evidente a seconda della situazione,dalla visione di un film o di vari films, da vedere sia al cinema che in ambito domestico. Infatti, è anche abbastanza evidente, che in determinati momenti dolorosi e tristi per noi, vedere un film che rappresenta una situazione in qualche maniera simile a quella del nostro disagio può esserci in qualche modo d’aiuto.

Il beneficio è più evidente nelle persone che non alzano barriere tra se stesse e lo schermo, barriere che non sono altro che la ripetizione di quelle che si alzano fra sé stesse e le proprie emozioni. Se si lascia “coinvolgere” dal film possiamo trarne i seguenti benefici:

  • aumentare la capacità di sognare e di rievocare ricordi sepolti o latenti,
  • rendere meno traumatiche paure profonde,
  • favorire una riflessione interiore o sulle relazioni con i propri cari,
  • aiutare ad operare una netta distinzione fra ciò che è bene e ciò che è male,
  • identificazione nell’eroe di turno al fine di provare le sue stesse sensazioni sia di dolore che di felicità,
  • cercare di capire che a volte non siamo i soli ad affrontare un determinato problema,
  • un ruolo psicoeducativo volto a favorire l’elaborazione d’eventuali soluzioni, attraverso la proposizione di modelli cognitivi e comportamentali,
  • una maggiore considerazione del punto di vista altrui.

E’ sopratutto nel campo delle emozioni che la cineterapia aiuta. Spesso si ha difficoltà a manifestare ed analizzare le proprie emozioni perché spaventano o sono portatrici di una sofferenza dilaniante. Nel film se ci riesce ad immedesimarsi o identificarsi nel protagonista si ottiene il risultato di rivivere tutta una gamma di emozioni che, normalmente non riusciremmo a vivere per i motivi sopraccitati. Il film ci permette man mano che si svolge di mantenere una distanza da esse, rivivendole, appunto, senza provare eccessiva sofferenza.

Una puntualizzazione è da farsi. Lo stesso film “terapeutico” per un determinato disagio, non è detto che lo sia per tutti. Fondamentale è la capacità del film stesso d’entrare in quella che chiamo la “risonanza emotiva individuale” dello spettatore. Quest’ultima può variare in base all’età, alla cultura, al momento particolare in cui si trova lo spettatore. Ecco perché a volte film che vengono definiti altamente terapeutici possono non sortire nessun effetto, nessuna emozione, lasciando addirittura indifferenti. D’altronde anche lo stesso film, che in un determinato momento, è stato terapeutico per uno spettatore, potrebbe non esserlo por lo stesso spettatore in un determinato momento. Parafrasando un proverbio “ci vuole il film giusto al momento giusto”:

Una generalizzazione, anche abbastanza evidente, possiamo però farla. E’ quella che riguarda i film “comici”. La loro “terapeuticità” è universale ed è legata agli effetti benefici della risata. Ridere per la visione di un buon film comico, aiuta indipendentemente dalla situazione in cui si trova.

In relazione alla ricettività nei confronti della cineterapia possiamo dividere le persone in tre tipologie.

Spettatori indifferenti . Sono quelli per i quali vedere un film è un mero passatempo senza nessun coinvolgimento emotivo. Essi alzano una barriera tra loro e la trama del film senza lasciarsi coinvolgere da quello che vedono. O più semplicemente non considerano il cinema uno strumento per provare emozioni, perché probabilmente ritengono che determinate emozioni abbiano un loro valore solo se sono vissute in prima persona, nella vita reale. Sarebbe utile anche per quest’ultimi provare a lasciarti andare un po’ di più davanti ad un film.

Spettattori attenti . Questi davanti alla visione di un film durante il seguimento della storia da un lato sono attenti alle proprie emozioni, per comprendere se potrebbero coincidere con quelle dei protagonisti, dall’altro riescono a mantenere un distacco sufficiente a trasformare la visione in un normale piacere e divertimento.

Spettatori coinvolti. I film per quest’ultimi sono altamente “terapeutici”. Si immedesimano ed s’identificano nei protagonisti delle storie, raggiungendo così il difficile obiettivo di riflettere sulle proprie emozioni senza esserne travolti. I film per loro rivestono anche un ruolo psicoeducativo ai fini del miglioramento del proprio equilibrio psicologico.Possono, però, correre il rischio di sognare ad occhi aperti.

 

BLOG SULLA CINETERAPIA

http://cineterapiasullamore.blogspot.com/

http://blog.libero.it/CINETERAPIA/

 

FILM PER CINETERAPIA:

VEDI ANCHE I TRAILERS DI FILM SUL MALdAMORE

Se la filmografia sul mal d’amore è enorme, non lo è altrettanto dal punto di vista terapeutico. Infatti la maggior parte di questa filmografia è “strappalacrime” senza essere d’ausilio per chi soffre di dipendenze affettive o di mal d’amore. Proveremo comunque ad indicare dei film, che possono essere, in qualche modo di “sostegno”, invitandovi a fare le vostre segnalazioni al riguardo a info@maldamore.it

I GIORNI DELL’ABBANDONO (2005) Olga (Margherita Buy) è una giovane donna felicemente sposata e madre di due figli. Improvvisamente abbandonata dal marito, sprofonda nella disperazione ed entra nella dolorosa spirale della perdita del sé. Un precipizio che la costringe ad una discesa infernale dentro se stessa, a riconsiderare il suo destino di donna, nel tentativo di ristabilire un ordine alla sua vita interiore e quotidiana. Il mondo che le ha lasciato in eredità il marito le appare ostile, figli compresi, e Olga si ritrova a vagare inquieta come la più furiosa delle erinni.

UBRIACO D’AMORE (2002) La storia di un ragazzo timido, introverso e vessato psicologicamente dalle sue sorelle, ben sette! La storia di una ragazza probabilmente ferita dalla vita che riesce a vedere oltre l’apparenza. La storia di chi vive sfruttando le debolezze degli altri. La storia di chi vuole cambiare la propria vita. La storia di chi trova dentro di se energie incredibili, insomma… una storia migliore di tante altre perché creata da tanti piccoli frammenti di vita vissuta, e non omologata ai piatti gusti di un pubblico onnivoro, pronto ad ingerire qualunque cosa purché non richieda uno sforzo eccessivo (tratto da filmup.leonardo.it)

SE MI LASCI TI CANCELLO (2004) Joel e Clementine si amano alla follia ma sono troppo diversi. Così, un giorno, Clementine decide di farsi estirpare la sezione della memoria relativa alla loro storia d’amore. Quando Joel lo scopre vuole sottoporsi allo stesso trattamento, ma all’ultimo momento capisce di amare troppo Clementine e di non volerne cancellare il ricordo… Inizia così una corsa contro il tempo per poter salvare l’amata nei recessi della sua mente.

IN THE MOOD FOR LOVE (2000) La storia è semplice: ad Hong Kong, nel 1962, il giornalista Chow ha appena traslocato con sua moglie in un nuovo appartamento in affitto. Nello stabile che li ospita incontra Li -Zhen, una donna giovane e assai bella che s’è da poco trasferita lì in compagnia del marito. I due trascorrono molto tempo insieme, dato che le professioni dei rispettivi coniugi li lasciano spesso soli: sino a quando non scoprono che codesti ultimi intrattengono una relazione…Da qui in avanti, il film diviene diario minuto, attento, sottile del nascere d’un sentimento: anche se, avverte subito Li-zhen, “noi non saremo mai come loro”. L’attrazione che li spinge l’uno nelle braccia dell’altra resterà, quindi, per sempre tale: ne saranno segni massimamente evidenti lo sfiorarsi delle mani, uno sguardo che appena si sofferma, un gesto di cortesia che dura un attimo in più. (tratto da www.tempimoderni.com).

MANUALE D’AMORE Il film si divide in quattro filmati: ‘L’innamoramento’ – Tommaso è un disoccupato innamorato di Giulia, una ragazza borghese. ‘La crisi’ – Barbara, impiegata in un laboratorio di analisi, e Marco, istruttore di scuola guida, si trovano ad affrontare la loro prima crisi matrimoniale. ‘Il tradimento’ – Ornella, una vigilessa che ha subito un tradimento, si accanisce contro gli uomini multandoli senza motivo. ‘Abbandono’ – Goffredo cerca di superare l’abbandono da parte della moglie con l’aiuto di un audiolibro intitolato “Manuale d’amore”.

NON TI MUOVERE (2004) In seguito ad un incidente stradale, la figlia di un neurochirurgo finisce in coma, il fatto da l’occasione al padre per confidare alla figlia la sua vita passata e in particolare per parlare di una relazione extraconiugale avuta tanti anni prima.

PARLAMI D’AMORE (2002) E’ la storia del rapporto tra Justine (Judith Godrèche) e Richard (Niels Arestup), sposati con tre figli. L’uomo, scrittore affermato, è stanco del rapporto con la moglie, ma la ama ancora. La donna, dall’altra parte, è stanca del fatto che il marito non la capisca, e forse non lo ama più.

SCELTA D’AMORE (1991) Hilary, infermiera, assiste e cambia la vita del giovane e ricco Victor, colpito da una grave forma di leucemia. Di estrazione sociale e culturale opposta, i due giovani finiranno per diventare complementari e alla fine l’amicizia diventerà amore.

AL DI LA’ DEI SOGNI (1998) L’amore che unisce Chris e sua moglie, la pittrice Annie è infinito, nulla neanche l’al di là può separarli. Chris muore in un incidente e raggiunge un Paradiso che la sua fantasia ha ambientato in uno dei meravigliosi dipinti di Annie. Chris non potendo immaginare di vivere senza sua moglie, per raggiungerla si avventura in un fantasmagorico e coloratissimo viaggio guidato da un “angelo” molto particolare.

AL DI LA’ DELLE NUVOLE (1995) Il film é formato da quattro storie d’amore viste da un regista cinematografico. Nella prima un ragazzo talmente innamorato della sua ragazza decide di non passare al rapporto fisico per tenere vivo il desiderio. Il regista incontra a Portofino una ragazza che gli confessa di aver ucciso il padre. A Parigi una coppia decide di dividersi. Infine in Provenza due innamorati scelgono un amore platonico.

L’AMORE IMPERFETTO Sergio, trent’anni, lavora in un centro commerciale. Angela, sua moglie, è spagnola e aspetta il loro primo figlio. Il bambino sembra destinato a vivere solo pochi giorni a causa di una grave malformazione, ma per ragioni diverse entrambi i genitori, anziché rassegnarsi, decidono di lottare per questa vita.

PER SEMPRE (2003) Giovanni, avvocato di successo, è solo uno delle tante vittime di Sara, affascinante professionista che non riesce ad avere una relazione stabile con gli uomini. Le sue storie sono basate su momenti di passione travolgente e laceranti fughe. Giovanni non è abbastanza forte per sostenere il peso di un gioco amoroso dalle regole crudeli e cade in uno stato di profonda depressione.

Cineterapia per la gelosia: L’INFERNO – Chabrol Francia 1993 – A 35 anni, Paul Prier dopo aver acquistato, indebitandosi, l’hotel in riva al lago in cui ha lavorato, sposa la graziosa Nelly. Dopo la nascita di un bel bambino, Vincent, il superlavoro e i numerosi brindisi coi clienti costringono Paul a ricorrere ai sonniferi per addormentarsi la sera. Un giorno trova la moglie al buio con il giovane meccanico Martineau: guardano diapositive, ma il tarlo del sospetto nasce in Paul che comincia a spiare la consorte quando va in città dalla madre o per acquistare una borsetta sul cui prezzo gli mente, o quando pratica lo sci d’acqua con Martineau, fermandosi su un’isoletta per riposare per mezz’ora con il giovane. Sconvolto, Paul rientra solo a tarda notte, con angoscia del personale e disperazione della moglie che, dopo aver riso in passato della sua gelosia, si rende conto che è un fatto grave e tenta di calmarlo vietando a Martineau di tornare all’hotel e rinunciando alle sue gite in città. Ma la gelosia dell’uomo è patologica: anche durante l’innocente proiezione che Duhamel, un cliente cineamatore, ha fatto di vari episodi, compreso quello dello sci d’acqua, Paul immagina la moglie abbracciata con Martineau; fa una scenata ai clienti e la schiaffeggia. Al ritorno dalla città Paul trova l’hotel al buio e Nelly che gira per le stanze a dare candele. Il presunto amante diventa ora nella fantasia di Paul il cameriere Julien che è sceso in cantina con lei per azionare l’interruttore; poi Duhamel, che ha due bicchieri vuoti in stanza. Anche la perdita del braccialetto in soffitta provoca le ire e i sospetti di Paul che, esasperato, prende Nelly con la forza. La donna il giorno dopo va dal medico che decide di far rinchiudere Paul, fingendo che sia la donna ad aver bisogno di ricoverarsi. Ma mentre l’ambulanza sosta alla porta dell’hotel durante la notte, con Nelly legata e chiusa in camera, Paul immagina di tagliarle la gola con un rasoio.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

DIALOGO SOCRATICO E DIPENDENZA AFFETTIVA

Il dialogo socratico è un metodo d’indagine filosofica, descritto per la prima volta da Platone nei Dialoghi ed è anche chiamato metodo “maieutico”. La maieutica è un termine che deriva dal greco e significa “l’arte della levatrice ” (o “dell’ostetricia”). L’accostamento tra la maieutica ed i dialogo socratico è originta da Socrate che paragona l’arte della dialettica a quella della levatrice: come quest’ultima, Socrate intendeva “tirar fuori” all’allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l’arte della persuasione.Socrate fingeva di abbassarsi al livello culturale del discepolo ponendogli domande e rendendolo partecipe delle proprie. Solo in questo modo e attraverso il dialogo, Socrate riusciva a fare il lavoro della levatrice. Come la levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava alla luce le piccole verità dal discepolo. La stessa psicanalisi si rifà all’arte della maieutica.

Il dialogo socratico, basato su domande e risposte tra Socrate e l’interlocutore di turno, procede per confutazione, ossia per eliminazione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente alla luce l’infondatezza di tutte quelle convinzioni personali che siamo abituati a considerare come scontate, come vere, e che invece rivelano, ad un attento esame, la loro natura di “opinioni”. Tale metodo è detto “maieutico” (ostetrico) in quanto è fondato non sul tentativo di vincere l’interlocutore con una propria verità, ma su quello di condurre per mano l’interlocutore con una serie di brevi domande e risposte a portare l’interlocutore a dichiarare la propria ignoranza: a riconoscere,cioè l’impossibilità di avere verità definitive. Parte integrante di questo metodo è il ricorso a battute brevi e taglienti in opposizione ai lunghi discorsi degli altri.

Socrate dichiara il proprio “non sapere”, perciò nessuna delle confutazioni che egli opera potrà essere basata sulla contrapposizione di una verità che Socrate conosce all’errore dell’interlocutore. Di conseguenza, Socrate si impone un metodo di discussione che faccia affidamento solo su ciò che l’interlocutore afferma, accetta e riconosce da sé.
Come si può dimostrare falsa un’affermazione senza contrapporgliene direttamente una vera? La risposta è: esaminando le conseguenze di tale affermazione. Dopo aver chiesto all’interlocutore di pronunciarsi esplicitamente e chiaramente su ciò che ritiene vero attorno ad un certo tema, Socrate procede derivando, da quello che l’interlocutore ha fissato come punto d’avvio, delle conseguenze, delle quali l’interlocutore non era chiaramente consapevole. Questa è la “messa alla prova” delle credenze dell’interlocutore.

La confutazione può avvenire in diversi modi, dotati di diverso grado di forza argomentativa.

Il modo più forte è quello della “reductio ad absurdum” . In questo caso, dall’ipotesi esaminata derivano delle conseguenze che la contraddicono o che si contraddicono fra loro, e l’ipotesi deve, perciò, essere scartata. L’applicazione nei dialoghi socratici di questa modalità non è, però, continua né esclusiva, e neppure molto frequente.

Un esempio piuttosto elaborato di reductio ad absurdum applicato da Socrate lo troviamo nel dialogo intitolato Ippia minore . Alla conclusione del dialogo, Socrate porta l’interlocutore ad ammettere la tesi paradossale e urtante secondo la quale chi fa il male volontariamente è migliore di chi lo fa involontariamente, e – detto ancora più chiaramente – solo un uomo buono può fare il male volontariamente: “Dunque chi volontariamente erra e di propria volontà si comporta vergognosamente e ingiustamente, un simile uomo, sempre che esista, non può essere altro che l’uomo buono”. La conclusione è contraddittoria, e ciò è evidente se sostituiamo l’espressione finale l’uomo buono con la sua equivalente colui che non fa il male. Il punto d’arrivo al quale il lettore del dialogo deve perciò giungere è che tale uomo non esiste: ossia che nessuno fa il male volontariamente. Il Taylor riassume così il senso dell’argomentazione: “L’uomo che conosce veramente il bene ma sceglie qualcos’altro non può esistere, come non può esistere un quadrato rotondo, ed è appunto perché tale persona non esiste che si possono asserire a proposito di lui i paradossi più audaci”.

Il secondo modo è la riduzione al falso ; rispetto all’ipotesi o alle sue conseguenze vengono presentati degli esempi tratti dall’esperienza che non possono essere inquadrati entro l’ipotesi e perciò la contraddicono (chiamiamoli “controesempi”). Pur senza essere impossibile, l’ipotesi risulta – così – non vera; le cose non vanno come l’ipotesi prevede.

Questa modalità è di carattere oggettivo, poiché si riferisce alla verità delle credenze che sono nella mente di una persona ed alla loro compatibilità, a prescindere da chi le sostiene. In questo senso la possiamo dire “più forte”: se applicata correttamente, infatti, è tale da mostrare falsa la tesi a cui si applica. Per il chiarimento e per un esempio riportiamo un breve passo dalla Storia della logica dei coniugi Kneale, nel quale tale modalità viene paragonata alla “reductio ad absurdum”: “Socrate aveva adattato ai propri fini il metodo di Zenone. . È difficile arrivare a qualcosa di certo sulla dottrina del Socrate storico, ma quei passi platonici che, per la loro drammaticità, sembrano la testimonianza più attendibile al riguardo, fanno pensare che Socrate non fosse meramente un amatore della conversazione filosofica, ma un uomo che praticava una ben definita tecnica di confutazione delle ipotesi: mostrare che esse comportavano delle conseguenze incompatibili o inaccettabili. […] Ma si noti che la confutazione socratica differisce da quella zenoniana in questo: non v’è bisogno che le conseguenze tratte dalle ipotesi siano autocontraddittorie; in certi casi esse possono essere semplicemente false”. Il caso delle conseguenze “semplicemente false” è esemplificato dai Kneale con un passo del Menone : nell’esame dell’ipotesi dell’insegnabilità della virtù se ne deriva la conseguenza che se la virtù fosse insegnabile allora gli uomini più virtuosi l’avrebbero trasmessa ai loro figli; ma alcuni casi clamorosi di insuccesso di genitori illustri e virtuosi (Temistocle, Pericle…) i cui figli risultarono inetti falsificano l’ipotesi. Qui l’ipotesi è falsificata da un dato di fatto incompatibile con essa.

Una terza (più debole) modalità è il conflitto di credenze fra convinzioni diverse dell’interlocutore. A rigore, così, non si dimostra che l’ipotesi in questione sia falsa, ma solo che l’interlocutore sostiene diverse tesi che non possono essere tutte vere; almeno una di esse dovrà essere falsa, anche se non sappiamo quale. La discussione mette in risalto le contraddizioni che l’interlocutore portava con sé senza esserne consapevole.

Questa più debole forma di confutazione è molto frequente nei dialoghi socratici, e spesso prende l’aspetto più interessante ed affascinante. È soprattutto attraverso questa frequente modalità che l’insegnamento di Socrate si rivolge direttamente alla persona che egli “interroga”, e ne svela i conflitti interni, svolgendo così una “terapia dell’anima” e quindi anche della dipendenza affettiva.
Presa di per sé, la si può chiamare confutazione solo in un senso improprio, perché, a regola, non sappiamo mai, da essa sola, quale delle tesi che si contraddicono sia da considerare confutata. Se le tesi in conflitto sono due, sappiamo solo che non possono essere entrambe vere, ma le altre possibilità rimangono tutte: può essere falsa l’una, o l’altra, o entrambe.
Prendiamo un esempio dall’ Eutifrone . In un primo passaggio Socrate chiede ad Eutifrone se siano vere le storie mitologiche sugli dei e sui loro conflitti e sulle inimicizie intercorrenti fra loro. Eutifrone risponde affermativamente: la credenza in tale mitologia è una componente profonda della sua personalità e delle sue convinzioni. Poco dopo, però, Eutifrone – che si proclama esperto della santità (ossia di tutto ciò che riguarda il rapporto fra gli uomini e gli dei) – afferma che “pio” (o “santo”) è ciò che è “caro agli dei”. In sostanza egli sta sostenendo che esiste un sapere attorno a ciò che è “caro agli dei”, e che sulla base di tale sapere gli uomini (guidati da esperti, quali Eutifrone) possono regolarsi in pratica nei loro rapporti con essi. A questo punto Socrate fa notare l’incompatibilità fra la credenza nei miti sul conflitto fra gli dei (se questi ultimi sono in conflitto, ciò implica che gradiscano cose diverse) e la pretesa di conoscere ciò che è caro agli dei con la sicurezza che Eutifrone ostenta. Ciò che è caro agli dei sarà controverso (un dio amerà ciò che un altro odia) e – di conseguenza – il sapere compatto e sicuro attorno a tale soggetto sarà impossibile.

Proviamo ora, a chiarire meglio questa particolare mossa del dialogo socratico. Uscendo per un attimo fuori dal contenuto letterale del testo, cerchiamo di immaginare alcune conseguenze estreme ed esemplari che si sarebbero potute trarre dalla difficoltà, se solo Eutifrone ne fosse stato più consapevole. I tipi di esito sono tre:

  • si lascia cadere la credenza nei miti, e si salva la convinzione che si possa avere un sapere attorno alla divinità. In questo caso la divinità si concepisce come qualcosa che non può essere descritto con i racconti tradizionali, ma che è in sé razionale (conoscibile con l’indagine) e coerente. Il santo e l’empio saranno così derivabili senza rischio di contraddizioni da tale nozione della divinità. Questa è la soluzione che, senza che lo pronunci qui apertamente (è Eutifrone, e non è lui, a dover sbrogliare la matassa!), Socrate mostra di preferire,
  • si conservano le credenze nel conflitto degli dei e si rinuncia a trovare una regola, comprensibile all’uomo e da lui applicabile in pratica, attorno a come rendersi graditi agli dei (la “scienza” del santo e dell’empio). La visione che ne deriva è quella di un universo “tragico”, nel quale coltivare ciò che è caro ad una divinità può metterci in balia dell’odio di un’altra, come in effetti accade a molti degli eroi epici e tragici raffigurati nella poesia greca: di fronte alle immani forze in conflitto del divino sono inutili tutti gli espedienti della previdenza e del sapere dell’uomo.
  • si lasciano cadere entrambe le credenze. Per esempio con una posizione ateistica, oppure con una tesi simile a quella che sosterrà Epicuro (III sec. a.C.): gli dei, perfetti e beati, non hanno passioni negative (non è possibile pensarli in conflitto), ma, poiché sono perfetti, beati ed autosufficienti, sono anche indifferenti a ciò che fanno gli uomini, e nulla di umano potrà essere loro odioso né gradito.

Come si vede, dalla confutazione che Socrate rivolge ad Eutifrone, non possiamo concludere nulla su quale delle due tesi sia da considerare falsa. Sappiamo solo che non si può pretendere di affermarle entrambe. In questo consiste la “debolezza” di questa modalità di confutazione.

Il Dialogo socratico oltre ad essere utilizzato nella relazione terapeuta-paziente trova fertile campo d’applicazione anche nei gruppi d’auto-aiuto sulla dipendenza affettiva. Un possibile schema di sviluppo del dialogo potrebbe essere il seguente:

Scelta della problematica da trattare;

Ogni partecipante racconta, traendolo dalla propria esperienza reale, un esempio a suo parere significativo della problematica in questione;

il gruppo sceglie tra gli esempi proposti quello più rappresentativo;

Colui che ha proposto l’esempio scelto viene interrogato, per definire meglio gli elementi che lo compongono;

Viene definito in quali elementi è specificamente espressa la problematica;

Ridotto ai suoi elementi essenziali, la problematica viene definita con precisione e ne viene fissato il significato;

La definizione della problematica viene verificata, applicandola agli altri esempi inizialmente proposti; nel caso di incongruenze, la definizione viene modificata;

Al fine di testare maggiormente la definizione ottenuta, vengono proposti nuovi esempi;

Come ulteriore rafforzamento della sua consistenza, la definizione ottenuta viene usata per discutere questioni collaterali eventualmente emerse nel corso del dialogo

Esempio di Dialogo Socratico 
Socrate: Dunque, neppure chi diviene ricco sfugge all’infelicità, ma solo chi diviene saggio.
Alcibiade: Evidentemente.
S.: Non hanno dunque bisogno di mura, di triremi e di arsenali gli stati, caro Alcibiade, se avranno a prosperare in felicità, nè hanno bisogno di masse e di grandezza prive di virtù.
A.: Veramente no.
S.: Così se t’appresti a metter mano agli affari dello stato, correttamente e nobilmente, tu devi far parte ai cittadini della tua virtù.
A.: Sicuro.
S.: Ma potrebbe qualcuno dare ciò che non ha?
A.: E come farebbe?
S.: Per te stesso devi prima conquistarti la virtù. tu o chiunque altro che voglia governare e prendersi cura non solo privatamente di sè e delle sue cose, ma anche dello stato e dei suoi affari.
A.: E’ vero.
S.: Non devi dunque procurare potere a te stesso e allo stato per fare ciò che ti piaccia, ma giustizia e saggezza.
A.: Evidentemente.
S.: Perchè, mio caro Alcibiade, chi possieda la potenza per fare ciò che gli piaccia, ma non abbia alcun senno, cos’è probabile che gli accada, sia lui una persona o uno stato? Se per esempio un malato ha il potere di fare ciò che gli piace e, privo di ogni idea di medicina, spadroneggia a tal punto che nessuno può riprenderlo, cosa accadrà? Non si rovinerà la salute? E ciò non sarà naturale?
A.: E’ vero.
S.: Se in una nave uno avesse la libertà di fare ciò che gli pare, privo della minima idea di scienza nautica. te lo immagini cosa avverrebbe di lui e degli altri imbarcati?
A.: Lo vedo: perirebbero tutti.
S.: Se dunque, in questo stesso modo, nello stato e in ogni altro tipo di governo e di dominio viene a mancare la virtù. ne consegue il vivere male?
A.: Per forza.
S.: Quindi non è il potere tirannico, mio ottimo Alcibiade, che ti devi procurare, nè a te stesso nè allo stato, ma la virtù, se volete prosperare in felicità.
A. E’ vero.
Da PLATONE. Alcibiade primo, tr. it. a cura di Piero Pucci, in PLATONE, Opere complete, Laterza. Bari

 

Dott. Roberto Cavaliere

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GRUPPO D’AUTO-AIUTO MALdAMORE

Gli strumenti principali con cui l’A.S.I.P.D.A.R persegue i propri scopi sono il sostegno in rete e il gruppo d’auto-aiuto Maldamore.

Il sostegno in rete avviene tramite colloqui di sostegno telefonici, via e-mail o in chat.

Il gruppo d’auto-aiuto Maldamore è un gruppo, tra persone che hanno in comune lo stesso problema e che, nel confronto paritario con gli altri, cercano di vivere momenti di condivisione, di solidarietà e di crescita.

All’interno del gruppo, ogni persona, che inizialmente si percepisce spesso solo come bisognosa d’aiuto, può sperimentare d’essere persona in grado di dare aiuto; da soggetto passivo, quindi, diviene soggetto attivo, verso se stesso e verso gli altri.

La caratteristica fondamentale del gruppo d’auto-aiuto, come già sottolineato, è l’essere un contesto paritario: l’assenza della guida di un conduttore professionista, permette a ciascun membro di non poter delegare all’esperto la responsabilità del proprio percorso e, dunque, la responsabilità complessiva di sé.

E’ prevista, comunque, la figura del facilitatore. Si tratta di un membro del gruppo, con un percorso di terapia significativo alle spalle, che ha seguito una specifica formazione, finalizzata a fornirgli gli strumenti di gestione della comunicazione, e che ha solo la funzione del facilitatore della comunicazione stessa. Con questo patrimonio conoscitivo ed esperienziale ed essendo, in più, portatore dello stesso problema degli altri, il facilitatore può permettersi di portare, all’interno del gruppo, il proprio vissuto emotivo e di utilizzare l’esperienza gruppale per la sua personale crescita.

In una fase di costituzione iniziale del gruppo di auto-aiuto, lì dove non è possibile individuare od avere la figura del facilitatore, è prevista la figura di un professionista, che non tenterà una parodia della terapia di gruppo, ma cercherà di attuare le stesse identiche funzioni del facilitatore.

Sintetizzando il gruppo di auto-aiuto offre:

accoglienza, solidarietà, incoraggiamento, sostegno
In questa prima fase, l’essere ascoltati (ascolto ricevuto) è la risposta, l’unica risposta, che si cerca; ed è ciò su cui si fonda la base sicura, che consente di passare ad una dimensione comprensiva anche dell’ascolto attivo.

empatia, affettività, confronto
Nella seconda fase, l’ascolto è divenuto attivo: l’altro è specchio di sé e in esso si ritrovano parti significative del proprio essere, della propria modalità di essere. All’altro si concede l’ascolto, nella misura in cui lo si richiede per sé: orizzontale, reciproco, non giudicante, privo di pregiudizi. E sano.

A differenza di un setting di terapia individuale o di terapia di gruppo, la democraticità del contesto di auto-aiuto ed il mettersi in gioco apertamente da parte di tutti i membri, consente a ciascuno di ascoltare in modo attivo e di poter rispondere, secondo modalità che via via si diversificano da quelle tipiche della propria vita fuori dal gruppo.

avanzamento nella consapevolezza, cambiamento
Il passaggio alla seconda fase accompagna, di conseguenza, la terza fase: quella dell’acquisizione di una consapevolezza maggiore e meno rigida di sé e dell’altro, e di conseguenza segna un cambiamento, che poi coincide con il maggior senso d’autoefficacia, benessere, capacità di trovare soluzioni ai propri problemi.

Come avviene ciò?

Come si è visto, fondamentalmente attraverso la relazione d’ascolto e risposta, o meglio l’evoluzione in tre tappe, della relazione di ascolto e risposta.

Una delle regole principali che il gruppo d’auto-aiuto si dà, dunque, è quella della sospensione del giudizio, del pregiudizio e dell’unico modello mentale, a favore della molteplicità dei punti di vista possibili.

Tale sospensione, oltre ad incoraggiare la libertà d’espressione e a facilitare il superamento della vergogna, crea le condizioni per l’accettazione dell’altro e, di riflesso, per l’accettazione di se stessi.

L’auto-aiuto coincide dunque con la possibilità reciproca di scoprirsi e con la possibilità reciproca di accettarsi.

Questo è un punto di fondamentale importanza nel susseguirsi delle tappe, che creano i cambiamenti auspicati da qualunque percorso d’auto-aiuto.

Non riteniamo che ciò che è altamente significativo, è che ognuno, senza dover aderire a delle verità presistemiche, può scoprire e vivere la propria verità; partiamo, cioè, dal presupposto che ognuno ha una sua risposta dentro, che non è applicabile a tutti gli altri.

L’impostazione di massimo ascolto, agli altri e a se stessi, permette proprio questo: l’individuazione, il riconoscimento, l’accettazione della propria identità. E non è poca cosa.

Gli obiettivi e i risultati sono spesso gli stessi ottenuti da una terapia individuale riuscita; ed è, tra l’altro, auspicabile l’integrazione tra questi due percorsi (naturalmente solo quando lo psicoterapeuta non lo viva come incompatibile).

In più, i gruppi d’auto-aiuto sono fruibili e accessibili, sia per i costi, che per l’abbattimento di parecchi limiti culturali, a molte più persone, pur sapendo non essere adeguati per la totalità

 

TESTIMONIANZA SUI GRUPPI D’AUTO-AIUTO

Buongiorno,
sono Manuela ho 37 anni e da 2 anni soffro di dipendenza da mal d’amore….non riesco ad uscirene, nonostante gli sforzi.
Sono la vittima di un “carnefice”, che per 4 anni mi ha dimostrato amore e quanto basti per farmi vivere un sogno…dopo la decisione di una convivenza….prima di convivere, mi lascia perche’ dice che sono cambiata e con il tempo scopro che lui è così, indipendente e volitivo…sempre alla ricerca di un nuovo stimolo (donna) per sentirsi vivo. io da 2 anni stò morendo….gli chiedo di vedermi, 1 volta su 10 me lo consente…e poi quando è con me…mi riempie d’insulti…e io mi lego sempre di piu’….ero la sua regina, ora sono meno di una pezza da piedi…lui ha 12 anni piu’ di me…e da quando mi frequenta sembra una persona rinata…e la sua forza sta nella mia debolezza…il sole che ha trovato in me, lo usa per calarmi nelle tenebre. aiutatemi, grazie
Ciao. Anche io, fino a un anno e mezzo fa, mi sono messa con uomini disadattati, alcolisti, approfittatori, freddi e crudeli. E mi sentivo anche in colpa per questo. Come raddoppiare la sofferenza! Fino a che ho deciso di tentare un’ulteriore strada e mi sono recata in un gruppo di auto mutuo aiuto per coalcolisti e in un altro per dipendenti relazionali. Ed è stata la mia salvezza. Il mio benessere emotivo , ora, è la mia priorità, non l’uomo problematico di turno. E’ una lotta quotidiana, perchè questi uomini sono come una droga per me. E ne incontro tanti. Ma finora sono riuscita a”glissare” e rendermi conto per tempo della mia compulsione. Sono astinente un anno e mezzo da questo tipo di uomini e, in verità, anche da altri. Ho eliminato completamente l’alcool, che, talvolta, mi dava sicurezza e disinibizione, ma, nello stesso tempo, ulteriore compulsione e difficoltà a dire di no. O, per meglio dire, un pretesto per non dire di no. Perchè stare con questi uomini è sempre stato un mio bisogno. Ora porto avanti un programma specifico per le dipendenze affettive e per il miglioramento dell’autostima e dell’amore di me stessa e ho trovato ciò che ho cercato per tutta la vita. Questo è il periodo più bello della mia vita. Ciò che ho sempre cercato fuori lo sto trovando dentro di me ed è bellissimo. Ho ancora tante cose da cambiare, ma non mi sento più così sola. Ho sempre accanto a me il genitore comprensivo e affettuoso che ho sempre desiderato:me stessa. Non posso chiedere a un uomo ciò che mi avrebbe dovuto dare mia madre o mio padre, un amore incondizionato.Ma a me stessa lo posso chiedere. Non so ancora se riuscirò mai ad avere un rapporto più sano con uomo. Quello che ora mi importa è di non viverne mai più uno malato. Grazie
Ho accostato queste due testimonianze, che mi sono pervenute casualmente insieme, perchè nella seconda c’è la risposta alla prima.

 

Dott. Roberto Cavaliere

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LA TABELLA DI PERSEPOLI IN AMORE

La tabella di Persepoli prende il nome dalla famosa capitale persiana in cui sono state ritrovate migliaia di tavolette amministrative scritte in caratteri cuneiformi identificati poi con la lingua elamica, non semitica e neppure indoeuropea.

Per ottenere le cinque frasi della Tabella si legga, a partire dalla colonna di sinistra, la parola riportata in grassetto nell’ultima riga e quella riportata nella stessa colonna in un’altra riga a scelta, fino ad arrivare, senza mai cambiare la seconda riga scelta, alla colonna più a destra.

 

FATE POTETE FA PUO’ FARA’ NON DEVE
GIUDICATE VEDETE GIUDICA VEDE GIUDICHERA’ NON E’
CREDETE UDITE CREDE ODE CREDERA’ NON C’E’
DITE SAPETE DICE SA DIRA’ NON DEVE
SPENDETE AVETE SPENDE HA SPENDERA’ NON HA
NON TUTTO QUEL CHE PERCHE’ CHI TUTTO CIO’ CHE SOVENTE QUEL CHE

 

ADESSO ‘ADATTIAMO’ LA TABELLA DI PERSEPOLI ALLA LOGICA DELL’AMORE

 

FATE IN AMORE POTETE FA PUO’ FARA’ NON DEVE
GIUDICATE IN AMORE VEDETE GIUDICA VEDE GIUDICHERA’ NON E’
CREDETE IN AMORE UDITE CREDE ODE CREDERA’ NON C’E’
DITE IN AMORE SAPETE DICE SA DIRA’ NON DEVE
SPENDETE IN AMORE AVETE SPENDE HA SPENDERA’ NON HA
NON TUTTO QUEL CHE PERCHE’ CHI TUTTO CIO’ CHE SOVENTE QUEL CHE

 

Dott. Roberto Cavaliere

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LA DANZA INCONTROLLATA: OSSESSIONE E DIPENDENZA

“Scarpette Rosse” La danza incontrollata: Ossessione e Dipendenza

 

La dipendenza si connota attraverso un esplosivo agire “furtivamente” che si verifica laddove l’individuo sopprime ampie parti dell’Io tra le ombre della psiche. Egli reprime gli istinti positivi e negativi, i bisogni e i sentimenti dell’inconscio e fa si che essi dimorino nel regno delle ombre. Succede così che tale individuo si trovi a condurre una vita simulata, come se non volesse sentire o vedere qualcosa: una parte sconosciuta di sé che egli avverte in modo angoscioso. E allora procede furtivamente, ingannando sé stesso, gettando via il tesoro dei propri bisogni, delle proprie tensioni di dolore e di paura, che gli potrebbero indicare una strada per colmarli e ritrovare una gioia reale. In questo modo egli è costretto a rubacchiare morsi e pezzetti ovunque.

Quando non accettiamo una parte di noi o una nostra emozione rimaniamo soli. Fingiamo di non essere così e combattiamo in silenzio. E’ come se non respirassimo: o forse alcune volte proviamo a respirare troppo velocemente o non respiriamo affatto rifacendoci ad un ideale di perfezione del tutto o niente. L’unica alternativa al furto del piacere è un atto di coraggio rispetto all’affermazione di ciò che sentiamo e siamo fino in fondo. Ciò significa imparare ad ascoltarci anche nelle tensioni spiacevoli: imparare ad essere noi fino in fondo con i nostri limiti e le nostre risorse.

Abbiamo un’alternativa di fronte ad una falsa vita rubata: guardare e riconoscere la fame del bambino deprivato che è dentro di noi e che protesta a gran voce. Nascondere la fame di questo bambino ed il dolore e il senso di vuoto che questo comporta significa rischiare che essa ci bruci e ci consumi attraverso atti rubati compiuti come un rito magico da non rivelare agli altri.

Quando non riconosciamo la fame ci illudiamo che altri ci regalino “Le scarpette rosse” che sono in grado di stordirla e di non sentirla, di farci danzare in un mondo meraviglioso e fantastico in cui non esistono bisogni. In questo modo, ci rifiutano di vivere la vita con i suoi cicli ed i suoi ritmi di crescita e decrescita, di vita e di morte per poi arrivare ancora alla vita. Intanto la nostra fame non viene saziata ma continua ogni volta a crescere ed a diventare un buco incolmabile che ci divora.

Con le nostre scarpette ideali diamo inizio all’ultima danza: una danza nel vuoto dell’inconsapevolezza. Siamo come bambini che volteggiano lontano dalla vita e ci rifiutiamo di prendere il cibo adatto e concreto per saziarci, perché questo costa fatica e lotta. Continuiamo a danzare frenetici pensando che qualcosa di magico ci fermi o che ci fermeremo quando lo decideremo.

Ma non è così: finché non riconosciamo la fame e non sappiamo procurarci un cibo che costa fatica, dolore ma anche gioia di un pieno concreto, continueremo la nostra infinita azione senza mai fermarci. E’ necessario riappropriarci del nostro istinto vitale per riconoscere le trappole di un facile paradiso e saper dire basta. Non è la gioia di questo paradiso irreale a rendere sempre più grande il nostro vuoto, ma piuttosto la mancanza di gioia che sentiamo mentre siamo all’interno di esso.

Quando non ci rendiamo conto della nostra fame, continuiamo a danzare ed a nascondere il nostro dolore e la nostra tristezza di fronte a qualcosa che è rimasto vuoto in noi, sia solo per guardare e sentire questo vuoto, per poi decidere l’azione adeguata per poterlo colmare.

Dipendenza e fame del nostro bambino deprivato sono connesse. Finché non ci assumiamo la responsabilità della nostra parte adulta che può essere in grado di nutrire e colmare la fame del nostro io bambino continueremo a negare le nostre libertà interiori ed esterne accettando continui soprusi su di noi e le persone che amiamo. Finche non riconosciamo questo bambino deprivato, sarà lui a prendere l’intero controllo su di noi ed a ricercare qualsiasi cosa: sostanza, persona, azione, lavoro, ecce… che in quel momento subito lo possa placare. E’ necessario riprendere la capacità di sentire fino in fondo tutte le emozioni di questo bambino interiore: piacevoli e spiacevoli, per poi imparare ad essere “Buoni genitori” che sanno prendersi cura di lui. Nessun altro lo potrà fare se non noi.

Le persone trascinate dalle “Scarpette Rosse” all’inizio pensano che possa esistere un intervento esterno da parte di qualcuno o di qualcosa (es. la sostanza) che in qualche modo possa colmarle e ritrovare la risoluzione illusoria di tutte le loro tensioni. E’ come se fossero dei neonati e cercassero un grande seno con un latte non nutriente in grado di placare ogni loro bisogno. In realtà la dipendenza è una grande mamma che divora tutti i bambini che si sono perduti e li getta sulla porta del Boia.

E’ necessario tornare alla vita fatta a mano, modellata giorni per giorno: è necessario riprenderci l’adulto in grado di provvedere al bambino, anche se ciò comporta dolore.

Separarsi dalle “Scarpette Rosse” e dalla vita ideale è doloroso. Ma la separazione è una benedizione.

Troveremo la nostra strada e ricominceremo a correre con le scarpe fatte da noi magari più imperfette, ma che ci daranno la gioia di una nostra creazione.

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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