DEPRESSIONE E SEPARAZIONE

La depressione è una malattia della mancanza della volontà e/o del desiderio.
Stare in una relazione è volontà e desiderio.
Da qui, purtroppo, nasce una profonda antitesi.
Entriamo nel dettaglio di questa dinamica.
Chi è depresso, chi vive un periodo depressivo all’interno di un quadro clinico di tipo bipolare o ciclotimico, o chi semplicemente vive un periodo depressivo, è caratterizzato dalla mancanza totale o parziale della volontà e/o del desiderio per cui ha grande difficoltà a impegnarsi in qualsiasi tipo di attività, a maggior ragione in quelle a forte contenuto emotivo e affettivo come stare in una relazione sentimentale e/o affettiva. Da qui può nascere un senso di oppressione, di eccessivo carico di responsabilità, di eccessivo impegno, tutti dovuti allo stare in relazione con un’altra persona.
Ecco che può nascere un desiderio di fuga volto ad alleggerire questo carico emotivo e affettivo che si vive nella relazione. Se si mette in atto la fuga, ci si potrebbe pentirsene nel momento in cui la depressione va via e rendersi conto che il desiderio di seperazione nasceva da una spinta depressiva e non esistenziale o di crisi di coppia.
Conseguentemente mai prendere la decisione di separarsi all’interno di un periodo depressivo, ma semplicemente far presente al proprio partner che si desidera stare un po’ soli, ripiegarsi in sé.
Allo stesso tempo il partner non deve insistere affinché la persona depressa compia uno sforzo di volontà, che si dia una svolta, che s’impegni maggiormente nella relazione. Il partner depresso non ha volontà sufficiente per impegnarsi in tutto questo. Se la depressione dovesse prolungarsi insistere unicamente perché l’altro accetti di curarsi, essere assertivi su quest’ultimo aspetto. Spesso chi è depresso non riconosce di esserlo e tende ad attribuire le cause del suo malessere a crisi esistenziali e a cause esterne o a un malessere di coppia. Aiutarlo ad accettare la dimensione di malattia della depressione significa aver già fatto un enorme passo in avanti.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

COME DIRE AI FIGLI DELLA SEPARAZIONE

Scopriamo come comunicare ai figli che i genitori si stanno separando, informandoli della separazione nella maniera più giusta e meno traumatica

Come dire ai figli della separazione

Scopriamo insieme come comunicare ai figli la separazione dei genitori. Cosa bisogna dire ai figli della separazione, come bisogna parlare della separazione ai figli: questo infatti si chiedono i genitori che stanno per separarsi ed è il momento di sciogliere questo dubbio. La separazione è certamente un argomento delicato per i figli, ma si possono trovare le parole giuste.

Come dire ai figli che ci separiamo in base all’età

I figli devono o no sapere tutto della separazione dei genitori? La separazione, come il divorzio, sconvolge i figli ed è bene sapere cosa dire loro se mamma e papà si separano o divorziano. Comunicare ai propri figli la decisione di separarsi rimane una delle fasi più delicate nel processo di separazione.

L’età dei figli

La delicatezza di questa fase dipende sia dall’età anagrafica dei figli che dal vissuto che hanno questi ultimi della coppia precedente alla decisione di separarsi. Infatti, non bisogna solo considerare solo cosa dire al momento dellaseparazione ma anche quello che è stato vissuto prima dai figli e quello che succederà dopo.

Conflittualità

Per quanto riguarda il prima, è molto più deleteria per i figli la conflittualità della coppia genitoriale cui hanno assistito che il momento della separazione in sé. Più sono piccoli e maggiormente hanno vissuto tale conflittualità in maniera angosciosa e l’annuncio della separazione può rappresentare il culmine di tale stato d’angoscia che dura già da lungo tempo.

Insieme come genitori

Bisogna dire al figlio, indipendentemente dall’età, che i genitori si separano, ma lui non si separa dai genitori, che loro non saranno più coppia coniugale ma che continueranno a essere coppia genitoriale, i suoi genitori. E dai genitori non ci separa mai. Tale concetto deve essere dimostrato nei fatti nel post comunicazione della separazione.

Se si riesce a dimostrare al figlio che madre e padre continuano a essere insieme come genitori, anche la comunicazione più traumatica a qualsiasi età stempera col tempo i suoi effetti negativi. L’unica cautela nel comunicare la separazione in base all’età dei figli è il tipo di linguaggio da utilizzare.

Linguaggio da usare

Per bambini piccoli bisogna usare un linguaggio semplice (mamma è papà abiteranno in due case diverse, ad esempio) mentre man mano che si sale con l’età, si può comunicare in maniera più articolata e complessa. In ogni caso non bisogna mai parlare delle dinamiche di coppia che sottostanno alla separazioneper evitare successivi schieramenti di fronte da parte dei figli.

Per riflettere:

Io non mi separo. Resto un bambino intero. Anche il papà e la mamma restano interi. Separati ma interi. Cambiano tante cose, però certe no. Il bene che gli voglio. Il bene che mi vogliono. Io sono sempre il loro bambino. Di tutti e due. E loro sono sempre miei,
ciascuno per conto suo.

Beatrice Masini e Monica Zani, Io non mi separo, Carthusia editore, 2011

 

Dott. Roberto Cavaliere

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PERCHE’ PER UN UOMO E’ DIFFICILE LASCIARE LA MOGLIE, ANCHE SE E’ INFELICE

Si dice che per gli uomini sia impossibile lasciare la moglie, lo psicologo ci spiega come mai per è così difficile per i nostri compagni riuscire a dirci addio

Perché gli uomini non lasciano moglie

La difficoltà dell’uomo di lasciare la propria moglie, anche se è infelice, è legata sia a motivazioni psicologiche sia sociali. Vediamo nel dettaglio quali sono:

Vivere da separati in casa, consigli dello psicologo
  1. In primis c’è una difficoltà maschile nel riuscire a separarsi. Separarsi significa anche soffrire e l’uomo ha difficoltà ad accettare il dolore, a entrare in risonanza con esso. Anche se è lui a dover lasciare in ogni caso soffre e farebbe soffrire. Preferisce soffrire ogni giorno piuttosto che provare il dolore acuto e intenso della separazione.
  2. Legato a questo dolore c’è l’ambiente da cui ci separa oltre alla propria moglie. Mentre per la donna separarsi significa separarsi solo dal proprio marito perché rimane nella casa coniugale e la stragrande maggioranza delle volte con i propri figli, per un uomo separarsi significa separarsi da tutto. Per lui vuol dire rinunciare a tutto un mondo in cui ha vissuto per diversi anni, ricominciare daccapo. Già gli uomini hanno difficoltà a lasciare il singolo partner figuriamoci se riescono a lasciar andare via tutto un mondo: moglie, figli, casa, abitudini.
  3. Legato a quest’ultimo aspetto c’è la modalità sentimentale con cui il maschile prevalentemente si lega al femminile. Per la donna la relazione è soprattutto relazione d’amore, per l’uomo è soprattutto legame attaccamento, a maggior ragione collo scorrere del tempo. La donna nel momento in cui non dovesse provare più un sentimento d’amore è maggiormente propensa a mettere in discussione la relazione, l’uomo provando un legame d’attaccamento, anche se non dovesse amare più comunque continua a sentirsi legato all’altra.
  4. E’ nella modalità maschile rimediare all’infelicità nella coppia con la presenza dell’‘altra’ ovvero l’amante e trovare cosi un equilibrio discutibile al fine di rimanere nel matrimonio.
  5. Infine c’è un elemento anche socio-antropologico. L’uomo è come se si sentisse responsabile dalla notte dei tempi a essere chi protegge e si prende cura della famiglia. Separarsi significa abdicare a questa funzione.

Per sorridere : “Una donna sposa un uomo sperando che lui cambi, e lui non cambierà. Un uomo sposa una donna sperando che non cambi, e lei cambierà.”

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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STARE INSIEME SOLO PER I FIGLI

Stare insieme solo per i figli – Molte coppie decidono di restare insieme per il bene dei propri figli, ma non è detto che questa scelta si riveli alla fine vincente

Stare insieme solo per i figli

Chi non ha sentito la classica frase: “Non mi separo a causa dei figli”? Il più delle volte quest’affermazione è un pretesto per nascondere una difficoltà personale a separarsi. Separarsi non è facile: richiede coraggio, determinazione, predisposizione al cambiamento. Pensare di rimanere per i figli, per il loro benepreserva dalle proprie indecisioni personali.

E’ giusto stare insieme per i figli?

Ma non giova ai figli. Il modello che loro si trasmette, è quello di una coppia coniugale conflittuale che sta insieme solo a causa e per ’colpa’ dei figli. Appunto, i bambini percepiscono la loro ‘colpa’ di essere aghi della bilancia di una conflittualità di coppia che ha ben altre origini e la cui difficoltà a separarsi è principalmente soggettiva e individuale.

Ai bambini giova un ambiente familiare sereno sotto tutti i punti di vista. Di sicuro non salteranno di gioia se i genitori si separano ma se questi ultimi continueranno a essere coppia genitoriale, anche se non più coniugale, il dolore della separazione presto passerà. Anche per i bambini vale il motto: “Meglio un dolore che urla che una ferita sempre aperta.”

Stare insieme per i figli o separarsi

Riflessione finale: “Invece di osservare noi stessi spesso disprezziamo gli altri. Questa si chiama proiezione: cioè proiettiamo sugli altri i problemi che abbiamo dentro di noi, trasferendoli su chi è del tutto “innocenti”. Così facendo evitiamo di guardare noi stessi.

Tutti ci siamo comportati in questo modo in situazioni difficili e siamo tutti, più o meno, stati oggetto di proiezioni da parte degli adulti, quando eravamo bambini. Esempio: quando un adulto è sotto stress a causa di problemi personali, è facile che dica a un bambino: come sei piagnucolone e noioso! Smettila! Sei davvero impossibile!”

Questo è un tipico esempio di proiezione: trasferire un problema personale, su qualcuno che non c’entra affatto. Molti di noi sono stati trattati così da bambini: gli adulti scaricavano addosso a noi i loro problemi. E così la maggior parte di noi ha imparato quanto possa essere semplice “risolvere” i problemi della vita: basta dare la colpa a qualcun altro.

Questo è, naturalmente, poco costruttivo. Trovate il modo di parlare apertamente delle proiezioni con i vostri amici e colleghi. Cosa fare quando vi accorgete che state proiettando qualcosa su qualcuno. Il primo passo, sicuramente, l’avrete già intrapreso! Consiste nel vedere e nel sapere che lo state facendo.”  (Kay Pollak)

Separazione come dirlo ai figli

E’ importante invece spiegare bene ai figli cos’è la separazione e insistere sul fatto che loro non sono stati in nessun modo la causa scatenante della fine del matrimonio. E’ normale che all’inizio il bambino sia pieno di paure, ma se vedrà che le cose nei suoi confronti non cambiano, i genitori sono sempre presenti ed affettuosi, piano piano si tranquillizzerà.

 

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SEPARAZIONE COPPIE DI FATTO CON FIGLI

Come viene gestito l’affidamento condiviso nel caso di figli minorenni nati al di fuori del matrimonio

Affidamento condiviso coppie di fatto

Nel caso delle famiglie di fatto che decidono di separarsi il Tribunale si regolerà in merito alla questione dei figli minorenni esattamente come farebbe con una coppia regolarmente sposata. E’ anzi preferita la soluzione dell’affidamento condiviso anche quando si parla di coppie di fatto

Come funziona l’affidamento condiviso

Diritto di visita del padre in affido condiviso

Generalmente in caso di separazione dei genitori il figlio viene collocato presso la madre, ma il padre in regime di affidamento condiviso (ma sarebbe così anche in caso di affido esclusivo) ha diritto a vedere il figlio secondo i termini e le condizioni stabilite in accordo con la madre o, in caso di disaccordo, dal Tribunale.

E’ anche possibile nel caso in cui gli orari e i giorni stabiliti non siano sufficienti o non si adattino agli orari di lavoro del padre, richiedere una modifica. E’ infatti ritenuto un principio importantissimo dell’affidamento condiviso quello di incoraggiare e sostenere il figlio nella costruzione di una relazione solida con entrambi i genitori.

Affidamento condiviso e mantenimento

Solitamente in caso di affidamento condiviso il genitore non collocatario è tenuto a versare all’altro un assegno di mantenimento per i figli che copra le spese cosiddette ordinarie per il minore. L’importo dell’assegno può variare in relazione alla situazione economica del padre e della madre e anche in base alle necessità del figlio.Bisogna inoltre ricordare che non è possibile scaricare o detrarre dalle tasse l’assegno di mantenimento che si versa per i figli, ma unicamente quello per il coniuge.

Affidamento congiunto dei figli

L’affidamento congiunto dei figli è invece differente rispetto all’affidamento condiviso che spingeva per periodi di convivenza di pari durata del figlio presso i genitori, spesso impraticabili, nel corso dei quali la responsabiltà del minore ricadeva nella sfera di influenza del genitore collocatario. Nel caso dell’affidamento condiviso la responsabilità dell’adulto nei confronti del figlio non dipende dalla collocazione

 

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COME CAPIRE SE SI E’ ANCORA INNAMORATI

Quando si vive una crisi di coppia ci si chiede se ci si ama ancora e se questo amore è sufficiente per riprovarci, ma come essere sicuri?

Come capire se si è ancora innamorati

Prima di capire se si è ancora innamorati bisogna chiedersi che cosa s’intende essere innamorati. Questa risposta è ampiamente variabile da persona a persona, da età a età. Tendiamo comunque di trarre dei brevi criteri generali. L’innamoramento è una fase iniziale della relazione oltre ad esserne la condizione attivante. Se non ci s’innamora, non nasce neanche la relazione stessa. Potremmo identificare l’innamoramento con la fase passionale, quella in qualche modo ‘adrenalinica’.

Perché per un uomo è difficile lasciare la moglie anche se infelice

Ma la fase passionale caratteristica dell’innamoramento è destinata a esaurirsi per trasformarsi in amore, quello vero, quello progettuale, meno impetuoso rispetto alla passione ma più stabile. Diverse persone in questo passaggio non colgono un’evoluzione della fase iniziale dell’innamoramento ma una perdita di quest’ultimo. Invece l’innamoramento non è perso ma è solo evoluto in amore.

A questo punto bisogna chiedersi se si ama o no piuttosto che se si è innamorati o no. Per rispondere a questa domanda non bisogna chiedersi se si provano ancora le farfalle nello stomaco, ma se si ha ancora desiderio di condividere intimità fisica, sessuale, relazionale, affettiva col proprio partner.

Se si continua ad amare, si capisce se si vuole continuare a condividere la propria vita coll’altro nei suoi molteplici aspetti e non solo se si continuano a provare certe sensazioni. Non dimenticando che una relazione è fatta anche di alti e bassi e fasi di appiattimento nella relazione sono naturali senza che questo possa far dire che non si ami più.

Termino con un brano molto indicativo sul riconoscere il proprio stato d’innamoramento.

“L’amore è una pazzia temporanea, erutta come un vulcano e poi si placa. E quando accade, bisogna prendere una decisione. Devi capire se le vostre radici si sono intrecciate al punto da rendere inconcepibile una separazione. Perché questo è l’amore. Non è l’ardore, l’eccitazione, le imperiture promesse d’eterna passione, il desiderio di accoppiarsi in ogni minuto del giorno. Non è restare sveglia la notte a immaginare che lui baci ogni angoletto del tuo corpo. No, non arrossire, ti sto dicendo qualche verità. Questo è semplicemente essere innamorati, una cosa che sa fare qualunque sciocco. L’amore è ciò che resta quando l’innamoramento si è bruciato; ed è sia un’arte, sia un caso fortunato.
Tua madre ed io avevamo questa fortuna, avevamo radici che si protendevano sottoterra una verso l’altra, e quando tutti i bei fiori caddero dai rami, scoprimmo che eravamo un albero solo, non due. Ma, a volte, i petali cadono senza che le radici si siano intrecciate.”

Da Il mandolino del capitano Corelli  di Louis De Bernieres

 

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FASI DI ELABORAZIONE DEL LUTTO

Elisabeth Kübler-Ross  è stata una psichiatra svizzera che nel 1970 ha elaborato un suo “modello a cinque che permette di capire le dinamiche mentali più comuni della persona cui si è diagnosticata una malattia terminale. Gli psicoterapeuti lo hanno trovato valido anche quando si debba elaborare un lutto affettivo o ideologico.

Essendo questo un modello a fasi e non a stadi, le fasi possono alternarsi e ripresentarsi più volte, con varia intensità e senza un ordine preciso: le emozioni non seguono regole ma, come si manifestano, così svaniscono, magari miste e sovrapposte.

  1. Negazione/rifiuto: “Ma è sicuro, dottore, che le analisi siano esatte?”, “Non è possibile, si sbaglia!”, “Non ci posso credere” sono le parole più frequenti davanti alla diagnosi di una patologia grave e spesso anche mortale. In questa fase, il paziente usa come meccanismo di difesa il rigetto dell’esame di realtà, e ritiene impossibile avere quella malattia. Il rifiuto psicotico della verità sul suo stato di salute può essere utile al malato per proteggerlo dall’eccessiva ansia di morte e per prendersi il tempo necessario a organizzarsi, ma, con il progredire della malattia, tale difesa diventa sempre più debole, a meno che non s’irrigidisca toccando livelli ancor più psicopatologici.
  2. Rabbia: incominciano a manifestarsi emozioni forti quali rabbia, paura e disperazione, che esplodono in tutte le direzioni, investendo i familiari, il personale ospedaliero, persino Dio, e che sono espresse con domande tipiche come “Perché proprio a me?”. È una fase molto delicata dell’iter psicologico e relazionale del paziente, e rappresenta un momento critico che può essere il momento di massima richiesta di aiuto, ma anche il momento del rifiuto, della chiusura e del ritiro in sé.
  3. Contrattazione/patteggiamento: la persona comincia a verificare cosa può fare e in quali progetti può investire la speranza, cominciando una specie di negoziato che, a seconda dei valori personali, si può instaurare con parenti e amici, o con figure religiose. “Se prendo le medicine, crede che potrò…”, “Se guarisco, poi farò…”. Con questo, la persona riprende il controllo della sua vita e cerca di riparare il riparabile.
  4. Depressione: il paziente comincia a prendere consapevolezza delle perdite che sta subendo o sta per subire. Questa fase, che di solito si manifesta quando la malattia progredisce e il livello di sofferenza aumenta, viene distinta in due tipi di depressione: una reattiva e una preparatoria. Quella reattiva è conseguente alla presa di coscienza di quanti alcuni aspetti della propria identità, della propria immagine corporea, del proprio potere decisionale e delle proprie relazioni sociali, sono andati persi. Quella preparatoria, invece, ha un aspetto anticipatorio rispetto alle perdite che si stanno per subire. In questa fase della malattia la persona non può più negare la sua condizione di salute, e incomincia a prendere coscienza che la ribellione non è possibile, per cui la negazione e la rabbia vengono sostituite da un forte senso di sconfitta. Quanto maggiore è la sensazione dell’imminenza della morte, tanto più probabile è che la persona viva fasi di depressione.
  5. Accettazione: quando il paziente ha avuto modo di elaborare quanto sta succedendo intorno a lui, arriva a un’accettazione della propria condizione e a una consapevolezza di quanto sta per accadere; durante questa fase possono sempre e comunque essere presenti livelli di rabbia e depressione, che però sono di intensità moderata. Il paziente tende a essere silenzioso e a raccogliersi, e sono frequenti momenti di profonda comunicazione con i familiari e con le persone che gli sono accanto. Arriva dunque il momento dei saluti e della restituzione a chi è stato vicino al paziente, oltre che del “testamento” e della sistemazione di quanto può essere sistemato, in cui si prende cura dei propri “oggetti” (sia in senso pratico, sia in senso psicoanalitico).

Queste 5 fasi possono essere applicate, con i dovuti distinguo, a qualsiasi lutto o perdita, comprese quelle affettive e sentimentali.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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ALLA FINE SI GUARISCE DALLA FINE DI UN AMORE

E’ il volto tuo che ho disegnato
chino per terra io l’ho dipinto:
ho usato il nero per i tuoi occhi
e bianca sabbia per la tua pelle
Quando la pioggia l’avrà lavato
e i tuoi colori confuso,
e quando il vento sarà passato
sarò alla fine guarito.

E’ il volto tuo che ho disegnato,
mi son seduto ed ho aspettato:
ho usato il nero per i capelli
e rossa sabbia per la tua bocca.
Verrà la pioggia e lo laverà,
confonderà i tuoi colori,
e quando il vento sarà passato
sarò alla fine guarito.

Colori di Angelo Branduardi

Questa canzone di Angelo Branduardi è una metafora di come dovrebbe essere un percorso di guarigione dalla fine di un amore.
All’inizio bisogna dar spazio ai ricordi, al dolore, alla rabbia non tentare di rimuoverli. Più si dà spazio a tali sentimenti come Branduardi riporta nella canzone e prima arriverà il tempo ad attenuare man mano tutto fino ad una graduale scomparsa, per quanto doloroso possa essere veder cancellare tutto, e si potrà dire di essere guariti.

Roberto Cavaliere 

IL CERVELLO HA LE RISORSE PER SUPERARE IL MAL D’AMORE

Uno studio pubblicato sulla rivista Review of general psychology e condotto dagli studiosi della Saint Louis university che hanno esaminato la letteratura scientifica sull’argomento focalizzando l’attenzione proprio sui processi che portano alla rottura di una relazione e all’inizio di un’altra, ha portato alla conclusione che esista un meccanismo nel cervello di ciascuno di noi ci aiuta a reagire e a tirarci fuori dai momenti bui e dalle situazioni tumultuose.

«Ciò suggerisce che ci si riprende. Il dolore andrà via col tempo e ci sarà una luce alla fine del tunnel» – spiega Brian Boutwell autore dello studio. I motivi che portano alla fine di una relazione, secondo gli studiosi, possono essere svariati e soprattutto diversi tra uomini e donne.

Per l’uomo generalmente sono da attribuire prevalentemente e un’infedeltà fisica della propria partner, mentre per le donne ad un’infedeltà sentimentale, emotiva, anche se ci sono dei casi in cui le ragioni possono essere comuni ad entrambi i sessi.

«Ad esempio a volte uomini e donne interrompono una relazione per la stessa ragione, perché nessuno dei due tollera la crudeltà da parte del partner» – aggiunge Boutwell. Ma quando si fa la scelta di lasciarsi alle spalle un rapporto ciò che accade è simile a una disintossicazione dalla droga, che non a casa per capire meglio alcuni meccanismi hanno studiato proprio le scansioni cerebrali di chi faceva uso di cocaina e di chi ha smesso. Si attivano altre aree del cervello rispetto a quando si è nel pieno di una storia d’amore e sono proprio queste nuove aree che ci predispongono, con il tempo, ad aprire il cuore ad un nuovo partner.

«Inizialmente – dice ancora Boutwell – a prevalere potrebbe essere il vecchio partner e il tentativo di riconquistare il suo affetto, tuttavia se il meccanismo si mette in funzione il cervello degli individui agisce per correggere certe emozioni e comportamenti, aprendo la strada per essere attratti da nuovi compagni e dare vita nuove relazioni».

PERCHE’ SOFFRIAMO PER LA FINE DI UN AMORE SECONDO LA SCIENZA

La psicologa Helen Fisher si è concentrata sullo studio della sofferenza che tutti i cuori spezzati hanno conosciuto.

In una delle sue ultime ricerche ha sottoposto a uno scan celebrale 15 ventenni che si erano appena separati dalla persona amata, con cui avevano intessuto una relazione di almeno 21 mesi.

La risonanza magnetica funzionale può individuare anche i più piccoli cambiamenti del cervello; dove c’è un rinforzo dell’attività cerebrale, lì c’è maggior bisogno di glucosio e ossigeno e, quindi, di un maggior apporto di sangue.

I risultati dei test hanno rilavato che l’attività più intensa era localizzata nell’area tegmentale ventrale del cervello o VTA. È la zona in cui si concentrano le sensazioni legate all’innamoramento, all’orgasmo, addirittura quelle del cocainomane che si è appena fatto una dose. Nella VTA viene anche rilasciata la dopamina, il neurotrasmettitore responsabile della sensazione di benessere.

Questa zona del cervello viene letteralmente sconvolta quando subiamo un trauma amoroso, un fenomeno che la dottoressa Fisher chiama “frustration attraction”.

L’ipotesi fatta dal suo team è questa: l’amore romantico crea una forte dipendenza, evidente nelle regioni del VTA. Le persone innamorate si comportano come se fossero sotto l’effetto di stupefacenti, motivo per cui l’innamoramento è così irrazionale e difficile da controllare.

Quando un amore finisce dobbiamo dire addio anche alla nostra dipendenza e la cosa più importante, secondo la psicologa, è non avere più niente a che fare con questa persona per non far reagire il nostro sistema dopaminergico.

Ma il VTA non è l’unica zona del cervello in cui si colloca il dolore per la perdita di un amore.

I ricercatori hanno notato come anche nel lobo dell’insula sia stata riscontrata un’attività più intensa del “normale”. Qui si collocano la tristezza e il dolore fisico. La Fisher sostiene, infatti che: «Le emozioni, in questa zona, si interpongono come se il dolore avesse una collocazione fisica. Secondo alcuni è la base stessa dei nostri sentimenti». Perdere il proprio amore è, insomma, doloroso come avere le ossa rotte o un fortissimo mal di denti.

L’unico modo per far passare il mal d’amore è quello di compensare la mancanza di dopamina in altri modi. Ad esempio, facendo sport come l’aerobica, che riduce i dolori fisici e aumenta i livelli di serotonina.