DIPENDERE DA UN AMORE IMPOSSIBILE

Cosa bisogna fare per una persona che nasce come una pozzo vuoto senza fondo perchè diventi una persona piena capace di amarsi e sentire l’amore come uno stato di diritto? Quale strategia adottare per affrontare il vuoto e trasformarlo in pieno, e dilatare lo spazio? Dilatare l’amore e la coscienza?

Forse appena consideriamo noi stessi e l’altro come un valore inestimabile, entriamo in un’ottica di spontanea attenzione all’amore ed alla felicità che non dipende mai da nessuno se non dalla nostra attitudine!

L’amore è un attitudine spirituale! Da oriente ad occidente e dall’antichità ad oggi dove ridondano sempre gli stessi messaggi. Quando siamo bambini ci dicono di amare i nostri fratellini, Dio ci dice di amare i nostri fratelli … Per vivere bene è deve avere un amore vero. Ma si può fare dell’amore un dovere?

Nessuno ci ha mai detto che amare è uno stile di vita e che non si compra e non si vende e non si impara: si lascia andare, anche per niente! L’amore è una sorta di volontariato. “…pensavo di voler tanto bene a mia madre ma temevo sempre di perdere il suo affetto. La mia affettività è rimasta per numerosi anni ingabbiata in questo amore/paura, e quindi, troppo preoccupata di essere amata, non ho saputo amare…”

Spesso, innamorarsi vuol dire creare relazioni in cui si cerca solo di riconquistare finalmente la madre o quel padre persi da bambini, quando si anelava uno sguardo, una carezza, un tocco, ed il vuoto invece pervadeva la nostra giornata fatta da fantasie e rifugi romantici su come avremmo voluto vicino nostro padre o nostra madre. Siamo persi anche da adulti in quel vuoto con in più l’illusione di riempire quel vuoto con tanti affetti di tante persone che non vediamo, in quanto specchio di figure mai state presenti come e quanto volevamo. Sperimentiamo ancora la fame. A volte ci fermiamo e ci chiediamo chi è questo Dio/amore impossibile, e dolorosamente sentiamo la paura che Dio possa non esistere. Con un lavoro più profondo possiamo giungere alla conclusione che per amare, dobbiamo iniziare ad amare noi stessi, unica garanzia di sincero amore. Inizia così ad avere un senso il grande comandamento: “ama il tuo prossimo come te stesso” .

Non siamo mai soddisfatti delle prestazioni amorose degli altri, sempre in credito di amore anche a cinquant’anni, non sapendo ancora bene cosa l’altro rappresenta per noi. Per sentirci amati accettiamo spesso inconsapevolmente una grossa manipolazione dei sentimenti. La tensione interiore che si produce per riuscire ad avere l’amore vero che ci spetta, paradossalmente ostacola il libero flusso dell’amore. Così rimaniamo stupiti quando scopriamo il sacrosanto diritto che l’altro ama a suo modo e sol così può farlo: in realtà stiamo scoprendo finalmente che l’altro è un altro e che non è neanche nostro padre o nostra madre.

Esiste qualcuno che sa amare? Certo: ad immagine e somiglianza di qualcuno. Di mia madre o mio padre di altri che ho idealizzato. Cerchiamo così di essere accolti, anziché accogliere, di essere amati anziché cedere nel bisogno altrui che reclama amore. Amare è rivelare all’altro la sua bellezza intrinseca, la sua capacità di essere al mondo, e questi non aspetta altro che la nostra fiducia come dono per questo riconoscimento. Appena guardiamo l’altro come un valore, entriamo in un’ottica di spontanea attenzione che ci lascia vedere quanto amiamo. Questo sguardo è purtroppo offuscato da filtri di giudizi, ostacolato dalla paura di soffrire.

La capacità d’amare è arrugginita rimasta bloccata, ripiegata come una fisarmonica non usata per anni. Come spesso i bambini dopo la nascita di un fratello, che appare come rivale o addirittura come negazione del valore di cui si godeva in quanto primogenito, l’adolescente fa di tutto per conquistare l’affetto del padre, come se dovesse per questo sorpassare in tutto gli altri. Diventa più intelligente degli altri dieci fratelli, nati prima di lui da donne meno amate di sua madre dal padre. Diventa uno dei tanti geni che hanno avuto una vita affettiva di una povertà sconcertante! Viene giudicato probabilmente “senza cuore”, senza capire la disperazione nascosta dietro al suo handicap emotivo. Si estenua per dimostrare quanto lui sia bravo o brava (specialmente ad amare).

Questo personaggio infatti prova ancora il bisogno di valorizzarsi, raccontando questa volta la sua bravura a saper amare. La sua ricerca affannosa di conferma lo spinge ad ostentare amore e quindi a farsi rifiutare. Il baratro diventa ancora più spaventoso. Come può un bambino in cerca di conferme, non essere super obbediente ai genitori? Delusi si continua a dimostrare un essere eccezionale. Dovere a tutti costi farsi non solo accettare ma ammirare. Comprato dal bisogno degli altri che si innamorano di lui. Il bisogno di d’essere amati si incontra per ragioni diverse col bisogno di raccontare la proprio storia all’altro, questo suscita innamoramenti continui che spesso rappresentano semplicemente il bisogno di presentarsi e di raccontarsi per scegliere poi se offrirsi all’altro o meno.

A questo punto la preoccupazione di perfezione non permette di percepire la parte di strumentalizzazione che induce a sedurre l’altro pur di non fallire.

C’è un tempo per “rientrare in sé”. Il momento necessario della riflessione sulla relazione che induce a fare autoanalisi, prendere coscienza di tutto quello che capita, di chi in passato ci ha sempre guidato verso la conferma di “essere” e che ora si riproduce sotto mentite spoglie.

Coloro che non ci hanno ascoltato in tempo ora sono assenti e scegliamo gli altri perché ci ascoltino e confondiamo così l’amore per il bisogno di essere accolti nelle nostre richieste.

È necessario non temere più di rivivere il vuoto iniziale dove c’era l’assenza di un ascoltatore, ma fidarsi della presenza attuale di un Lui o di una Lei reale ed attuale. Iniziare ad aprirsi alle ricchezze della vita, a guardarsi intorno anziché restare fissato sul modo di “provocare” l’amore, in una perpetua tensione angosciosa verso la ricerca della perfezione di chi possa sentire i nostri reclami.

Il cuore si dilata ora nella fiducia di essere un valore per l’altro e per se. La fragilità, dovuta al vuoto in cui abbiamo fluttuato per anni, ora si muta poco a poco in una sicurezza incrollabile, dovuta alla presenza dell’altro che, se pur necessario, non è necessario per la nostra sopravvivenza.

Ancora una volta c’è da dire che per amare fino in fondo, è necessario fare un lavoro su di sé, ed in tal modo che si riesce ancora ad innamorarsi di una persona in carne e ossa. L’alternativa è avere un affettività ripiegata su se stessa, accusando continuamente gli altri di essere inefficaci e ritenendosi prigionieri dell’incomprensione. A contatto con questo ambiente interno, fatto di fantasmi e zone d’ombrai si ritorna ad essere continuamente manipolatori della realtà e inconsapevolmente facciamo pagare al coniuge o addirittura ai figli il vuoto affettivo ed esistenziale subito nella la nostra infanzia. Tuttavia, possiamo uscirne facilmente lasciando fluire l’emozione e lasciando affiorare tutta la nostra sensibilità. Il bambino ferito dall’assenza di conferma e che si era indurito, e che non concedeva di provare più emozioni, si libera dall’asprezza che lo ha spinto a sopportare tutto stringendo i denti per offrirsi, con il suo successo strepitoso, la certezza di essere un valore. La fonte della tenerezza si riapre: è il momento di cedere alla gratuità dell’amore.

È necessario però riconoscere il bisognoso del perdono che mette in grado di aprirsi all’altro che a volte si odia paradossalmente come contro altare dell’amore. L’abbandono dell’amor proprio è più forte di tutti gli altri abbandoni. È un abbandono tra i più duri in quanto deve fare i conti con l’orgoglio, ma una volta che ci si è affrancati le emozioni, anziché restate bloccate per la paura di soffrire, ridestano la sensibilità e si riconquista uno stile di vita, che trasforma la paura in disponibilità per il diverso da se: condizione, la diversità, forse necessaria per un amore veramente sincero.

GUGLIELMO DE MARTINO

Maestro Yoga e Shiatsu

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

LOVE ADDICTION (DIPENDENZA D’AMORE)

Con il termine inglese ‘ love addiction ‘ si intende la dipendenza affettiva, la quale non è stata ancora classificata come patologia nei diversi sistemi diagnostici come il DSM IV.

Secondo Geddins , la dipendenza affettiva è un disturbo autonomo e presenta le seguenti caratteristiche:

  • l’EBBREZZA : Il soggetto dipendente prova una sensazione di ebbrezza dalla relazione con l’altro, paragonabile a quella del tossicodipendente quando sta andando a prendersi la dose di eroina o altro;
  • La DOSE: il soggetto dipendente trova nell’altro una sorta di dose e cerca così sempre quantità maggiori in termini di presenza e di tempo per stare con lui.

L’aspetto fondamentale, scoperto da Geddins, è che nel dipendente affettivo è maggiormente presente la PAURA rispetto alle altre dipendenze.

Si tratta di una paura schiacciante, che si può riassumere nella terrificante massima del poeta latino Ovidio: “ NON POSSO STARE NE’ CON TE, NE’ SENZA DI TE” . Con te, per via del dolore che si sente nel subire umiliazioni, maltrattamenti e offese; senza di te perchè non si può assolutamente sopportare l’angoscia che si sente al solo pensiero di perdere la persona amata.

Questo ci fa immediatamente rendere conto della immensa sofferenza che può arrivare a provare un dipendente affettivo.

Nella nostra società, si tratta soprattutto di donne, spesso anche di successo, in carriera, ricche e belle; nel guardarle supeficialmente diresti che sono donne arrivate nella carriera, con una vita piena ed appagante. Ma sotto il vestito della superdonna si nasconde la bambina richiedente, autonoma sul lavoro,apparentemente in grado di difendere le proprie idee, ma accompagnata sempre da un senso di insicurezza, così profondo da chiedere continue rassicurazioni, MAI appaganti del tutto.

Si tratta di donne, perchè la componente affettiva appartiene maggiormente al mondo femminile che al maschile, soprattutto per ragioni culturali. Infatti, fin da piccole, le donne sono invitate ad assumere tutta una serie di comportamenti in sintonia con l’affettività, la comprensione dell’altro, l’essere materne, il sacrificio. Insomma, viene loro inviato un messaggio di invito alla dedizione, perchè altrimenti non saranno delle brave moglie e della brave madri.

Riepilogando, i SINTOMI DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA sono:

  • paura di perdere l’amore;
  • paura dell’abbandono;
  • paura dell’isolamento e della distanza;
  • paura di mostrarsi per quello che si è;
  • senso di colpa;
  • senso di inferiorità nei confronti del partner;
  • rancore e rabia;
  • coinvolgimento totale e vita limitata;
  • gelosia e possessività.

Si tratta di donne che hanno chiaramente una bassa autostima di se stesse e che si sentono per questo motivo loro le COLPEVOLI, le POCO MERITEVOLI e quindi destinate a non essere ricambiate dell’immenso amore che provano e dimostrano continuamente.

Riprendendo le parole scritte da Robin Norwood , ci possiamo rendere conto quanto ci sia la possibilità della presenza di un nucleo in parte psicotico:

“Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza o li consideriamo conseguenza di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando male;

quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento,ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose, lui vorrà cambiare per amore nostro, stiamo amando male;

quando la relazione con l’altro mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando male.”

‘ HO BISOGNO CHE TU ABBIA BISOGNO DI ME ‘ è un bisogno di sopravvivenza che spinge la donna ad illudersi di cambiare l’altro.

‘ Gli ho mandato dei messaggi per fargli sapere che sto male e che sono disperata, ma lui non mi ha neanche risposto. Perchè fa così? Perchè non mi telefona almeno per sapere qualcosa?’

La donna insegue un uomo INEVITABILMENTE SFUGGENTE, sempre impegnato in qualcosa di più importante di lei, che la maltratta e non teme di perderla, tanto più lui usa questa forma di SADISMO e TRASCURATEZZA, tanto più lei lo insegue, mettendo in atto una forma di masochismo.

La RICERCA INESAUSTA delle CONFERME DELL’ALTRO proviene dall’INCAPACITA’ DI DARSELE DA SE’: l’altro diventa lo SPECCHIO ed il NUTRIMENTO dal quale finisce col DIPENDERE anche se è qualcuno che non ci ama e NON CI MERITA.

La differenza sostanziale con le altre forme di dipendenza è che la dipendenza affettiva si sviluppa nei confronti di una persona e non di un oggetto, come la droga o l’alcool e questo la rende più difficile da riconoscere e da contrastare.

Il dipendente affettivo dedica tutto se stesso all’altro perchè in quello che crede amore la risoluzione a tutti i suoi problemi, che spesso hanno origini antiche, infantili, di ‘vuoti affettivi’. Il partner diventa COLUI CHE LA SALVERA’, quindi lo scopo della sua esistenza, e naturalmente non ne può più fare a meno.

Esaminiamo ora i diversi STILI DI ATTACCAMENTO IN ETA’ ADULTA:

  1. Attaccamento sicuro – l’amore sicuro: il soggetto sicuro ha la capacità di riconoscere le persone alle quali legarsi sentimentalmente. Queste saranno persone altrettanto sicure e insieme saranno consapevoli anche dei momenti di alti e bassi e avranno la capacità di affrontarli insieme. Saranno quindi storie solide, durature.
  2. Attaccamento ansioso ambivalente – l’amore ossessivo: si tratta di persone passionali che pensano sempre di aver trovato la persona giusta. In realtà, si tratta di incontri con persone che presentano proprio quei tratti che loro odiano. Rimangono sempre nella fase dell’innamoramento e quindi la separazione è fortemente ansiogena. Tutto viene vissuto all’estremo. Il rischio di queste relazioni è alto, soprattutto quando si tratta di persone che presentano modelli negativi del sé, non degne di amore, e quindi entreranno facilmente nel tunnel della gelosia, dell’ossessione, della possessività che possono anche condurre a gesti estremi, quali i delitti passionali.
  3. Attacamento evitante/distanziante – l’amore freddo/distaccato: si tratta di persone che soffrono profondamente, perchè non avendo avuto nell’infanzia una base sicura sulla quale fare riferimento, non hanno alcun tipo di sicurezza affettiva. Si tratta di soggetti che hanno un modello del sé come di persona non degna di essere amata, sola, che deve contare solo sulle proprie forze, perchè il modello interno della madre è quello di una madre cattiva che non elargisce alcuna cura e protezione. Per questo, ‘per non correre il rischio di essere rifiutati’, sopprimono la loro emozionalità’.
  4. Attaccamento disorganizzato – l’amore patologico: si tratta di stili di attaccamento che rimandano a storie di abuso o maltrattamento da parte della figura allevante nei confronti del bambino. La conseguenza è che, queste persone, in età adulta, avranno dei modelli interni dell’interpretazione della realtà sempre inquinati e quindi oscurati da una parte di confusione e di mancanza di controllo. Inoltre, sarà presente in loro una visione catastrofica degli eventi. Sono incapaci di scegliere partners affidabili, e quindi rischiano di entrare e farsi poi coinvolgere in relazioni distruttive, con persone violente ed aggressive.

Questa breve descrizione dei vari stili di attaccamento sottolinea l’importanza fondamentale affermata da Freud che riveste l’infanzia e i suoi vissuti nella successiva formazione dei proprio sé e della sua organizzazione. Se, infatti, abbiamo conosciuto nella nostra infanzia esperienze negative che non hanno portato alla strutturazione di un sé sicuro, e non intraprendiamo un percorso di conoscenza di sé per andarci a vedere, naturalmente con dolore, il nostro passato, da adulti, cercheremo incessantemente e inesorabilmente situazioni e persone che ripropongono le nostre antiche relazioni, perchè sono le sole che conosciamo.

Il percorso per arrivare al benessere e alla ‘normale’ esistenza è lungo e tortuoso, prevede periodi di vuoti, sofferenze, solitudini, dove i nostri punti di riferimento, anche se negativi e portatori di sofferenze, spesso anche inconsce, gradualmente vengono a mancare, dandoci una sensazione di confusione e smarrimento difficili da gestire. Ma tutto questo porterà ad una vita finalmente appagante, che mai si poteva anche solo pensare di raggiungere.

Ritornando alle dipendenze affettive, gli ASPETTI PSICOPATOLOGICI sono:

  • disturbo d’ansia di separazione
  • disturbo dipendente di personalità
  • disturbo narcisistico di personalità
  • disturbo borderline di personalità
  • ansia, attacchi acuti di ansia somatizzata
  • autolesionismo
  • depressione
  • amore ossessivo non corrisposto: erotomania.

Naturalmente, possiamo immaginare che la dipendente affettiva troverà sempre partner in qualche modo manipolatori, che approfitteranno della sua totale dedizione e devozione. Questi uomini faranno quindi in modo da mantenere la relazione malata, perchè essi stessi malati, e perchè il cambiamento dell’altro porterebbe ad uno sconvolgimento nella ‘coppia’ che non tollerano perchè è scomodo e non permette più loro di ottenere sempre quello che vogliono.

Possiamo riassumere, attraverso un lungo elenco, le CARATTERISTICHE DEL PARTNER MANIPOLATORE:

. tende a sminuire l’altro come persona;

. cerca di sminuire i suoi successi;

. spesso umilia l’altro in pubblico;

. contraddice in continuazione;

. tende a criticare l’aspetto fisico del partner;

. in una discussione, fa di tutto perchè si accetti la sua opinione;

. racconta spesso bugie;

. recita spesso la parte della vittima;

. adula per ottenere ciò che vuole;

. usa nei confronti del partner l’arma della colpevolizzazione;

. tende a delegittimare il partner nel ruolo genitoriale;

. manipola la realtà a suo favore;

. spesso è aggressivo verbalmente (insulti, parolacce, minacce);

. spesso è aggressivo nei comportamenti;

. è eccessivamente protettivo;

. controlla ogni azione del partner;

. è geloso senza motivo e porta la sua gelosia all’estremo;

. cerca di allontanare il partner dalla sue amicizie e parentele;

. cerca di limitare i movimenti esterni del partner;

. boicotta gli interessi personali del partner;

. tende ad attuare una coercizione sessuale (rapporti intimi non desiderati.

Come possiamo facilmente notare, sono molteplici le caratteristiche appartenenti ai partner manipolatori e, sono quasi certa che, purtroppo, una moltitudine di donne vi ritroverebbe alcune o molte delle caratteristiche del proprio partner.

Sfortunatamente, in un’epoca che ci sembra emancipatoria per le donne, dove si sarebbe raggiunta la fantomatica ‘parità dei sessi’, molte donne si trovano a vivere situazioni e condizioni che farebbero pensare al Medioevo. Persino le nostre nonne esercitavano un potere maggiore al nostro: promettevano ai loro futuri sposi di perdere la loro verginità solo dopo averle sposate. C’era una specie di ‘do ut des’, uno scambio; scambio che molte donne oggi sono incapaci di attuare, perchè chiedere diventa impossibile, perchè ne sono indegne, non valgono abbastanza,’è colpa nostra se lui è così’, e molto altro ancora…

Riguardo le dipendenze affettive, bisogna sottolineare un aspetto molto importante, quello della CODIPENDENZA:codipendenza è quando una persona fa in modo che sia influenzata in modo eccessivo dal comportamento di un altro ed al contempo cerca di controllare in modo eccessivo quello stesso comportamento.

Le CARATTERISTICHE DEL CODIPENDENTE sono:

. concentrano la loro vita sugli altrimenti

. la loro vita dipende dagli altri

. cercano la felicità fuori di sé

. aiutano gli altri invece che se stessi

. desiderano la stima e l’amore degli altri

. controllano i comportamenti altrui

. cercano di cogliere gli altri in errore

. anticipano i bisogni altrui

. attribuiscono agli altri il proprio malessere

. si sentono responsabili del comportamento altrui

. hanno una paura eccessiva di perdere l’altro

. provengono da famiglie con esperienze di codipendenza.

Passiamo quindi ad analizzare i PASSI DEL TRATTAMENTO INDIVIDUALE della dipendenza affettiva:

Primo passo : queste persone sofferenti spesso arrivano a chiedere aiuto perchè percepiscono una sensazione di VUOTO, di perdita di identità, di RABBIA, per la frustrazione di non vedere ricambiata la dedizione, hanno la sensazione di ‘AVERE QUALCOSA CHE NON VA’;

Secondo passo:

1) concordare l’obiettivo terapeutico, ovvero l’autonomia materiale e psichica

2) acquisizione di consapevolezza

3) scoperta di una fragilità che può coesistere con una forza in grado di permettere la visione di un sé reale

4) capacità di migliorare la propria vita

5) svegliarsi dall’incubp

6) aprirsi a nuove possibilità di scelta

7) curarsi la ferita

8)) rispetto per la propria identità

 

Gli OBIETTIVI DELLA TERAPIA INDIVIDUALE

. Convivenza psichica tra bambina e adulta, abbandonando l’ipercriticità verso se stessi.

. adesione ai propri valori

 

Gli OBIETTIVI DELLA TERAPIA DI GRUPPO

. l’esperienza gruppale incoraggia il dare e ricevere.

. confrontare con chi è all’inizio e chi è alla fine facilita il mentalizzare il percorso, i tempi, le modalità di cambiamento.

. hanno grande valore nel gruppo i racconti di sé, l’esperienza, le vicende quotidiane, i piccoli successi.

. nel gruppo viene portata la PUNTA DELL’ICEBERG del proprio dolore, non le parti più profonde.

La vita, per essere appagante, dovrebbe essere un CAMBIAMENTO CONTINUO.

 

IL CAMBIAMENTO

. la sofferenza ha valore mutativo, è una spinta essenziale nella vita, senza la quale non si può operare alcun cambiamento.

. il dolore personale porta alla crisi, che a sua volta porta al cambiamento della vita, dando una possibilità di rivisitazione del sé.

. la donna deve disabituarsi ad un finto amore che provoca sofferenza. Come tutte le dipendenze, comporta il dolore dell’astinenza ed il senso di essere perdute.

. bisogna vivere nella realtà, abbandonando l’idea del bacio del principe che salverà la principessa dalla morte e dalla desolazione.

 

CONCLUSIONI DEL PERCORSO TERAPEUTICO

. Il recupero è possibile se la MOTIVAZIONE a modificarsi è alta;

. ogni energia va posta su questa impresa che è PRIORITARIA su tutto il resto;

. investire DENARO su ciò (la persona dipendente investe energie per il recupero dell’altro), deve così tradurre ciò in necessità di agire per se stessa;

. la guarigione avviene riuscendo a stare in intimità con l’altro, in una relazione paritaria con la capacità di condividere la propria esistenza interiore.

Se riusciamo in tutto ciò, con tutte le difficoltà e sofferenze che attraverseremo, arriveremo all’autonomia.

 

PER CAMBIARE OCCORRE

Ascoltare la voce interiore

allenare il nostro intuito verso noi stessi

mettere in conto il DISSENSO e la DISAPPROVAZIONE degli altrimenti

tollerare l’ansia scaturita dai contrasti con chi ci sta vicino

resistere a rimproveri e a RICATTI AFFETTIVI, senza sentirsi colpevoli ed ingrati

NON TOGLIERE MAI GLI OCCHI DALLA META

NON ESSERE IMPAZIENTI se non si hanno vantaggi e risultati immediati

…ALL’IMPROVVISO CI SI SCOPRE DIVERSE E NON SI SA DETERMINARE QUANDO E’ INCOMINCIATO IL CAMBIAMENTO!

Il cambiamento porta nel tempo all’ABILITA’ DELL’ESSERE INTIMI.

 

LE ABILITA’ DI ESSERE INTIMI

CONOSCERE cosa si sente e cosa si pensa

ASCOLTARE le proprie sensazioni e attribuire SENSO ai propri vissuti

CONDIVIDERE con l’altro parti di sé arricchenti

ASCOLTARE L’ALTRO

TRASCENDERE se stessi per incontrare l’altro

CREARE con l’altro un ponte di FIDUCIA che permette l’ABBRACCIO reciproco, libero ed autentico

mettere la soggettività al servizio della INTERSOGGETTIVITA’, conservando l’UNICITA’ dell’esperienza personale

esprimersi a parole, con il corpo e con il SILENZIO

L’INTIMITA’ è la scelta di donarsi. Si raggiunge se si è raggiunta una autonomia personale, che ci permette di lasciarci andare nella relazione, di ESPORCI, vincendo la paura di mostrarsi vulnerabili;

INTIMITA’ è riconoscere L’ALTRO, la sua identità, il suo spazio psicologico vitale, la sua unicità, una RECIPROCA unicità che permette di regolare distanza e confini;

l’INTIMITA’ è l’INCONTRO , l’abbraccio, il gioco e la CRESCITA

COMUNE, il SILENZIO APPASSIONATO DI OGNI SOLITUDINE.

Dott.ssa Alessandra Paulillo

TRADIRE: L’ALTRA FACCIA DELL’AMORE

Presentazione del libro Tradire: l’altra faccia dell’amore del dott.Pasquale Romeo Edito da Bastogi

Questo scritto nasce un pò sul serio e un pò sul faceto e tende a considerare la coppia in una modalità diversa dal precedente Amore e Caos in cui la valutazione è principalmente sugli aspetti affettivi.

Questo lavoro in un certo senso è anche collegato al primo SOLI SOLI SOLI, si fa riferimento a se stessi, nella vita di coppia ed a tutto ciò che non riusciamo a capire di noi, forse perché non sufficientemente analizzato in solitudine, che ritorna prepotentemente sotto forma di destino, spesso infrangendo la vita di coppia e consengnandoci a situazioni diverse e fuorvianti che sono indispensabili per raggiungere degli aspetti di sé, che invocano, che chiamano, che rappresentano in un certo senso quel grido degli agnelli, il silenzio degli innocenti sapientemente descritto in qualche interpretazione cinematografica.

La scelta dell’argomento come quello del tradimento è perchè in esso è presente una traccia di una vita nascosta, di ciò che spesso facciamo fatica a manifestare e che si cela dentro di noi in varie forme, tanto che solo un.analisi attenta ne può dare pienamente conto.

L’analisi terapeutica ci consente a volte di scoprire parti di noi misteriose che solo con la relazione alchemica, vissuta con l’analista, si svelano nella sua profondità, nelle sue forme più arcane e diventano un modus operandi tanto veemente da costringerci a prendere scelte, o a farci prendere da quello che comunemente chiamiamo destino e che forse corrisponde solo a parti recondite di noi.

Da SOLI SOLI SOLI a AMORE E CAOS ad oggi vi è una visione più scanzonata ed allegra al problema, ed in TRADIRE: l’altra faccia dell’amore si vuole solo trovare delle soluzioni alla mancanza di un senso, a ciò che spesso si muove al di fuori degli orizzonti razionali e spesso diviene misterioso ed insolvibile.

Si troveranno, perciò, degli aspetti teorici relativi al tradimento ed anche molti esempi pratici che mettono in luce attraverso dei commenti, nella nuda maniera, varie forme dello stare con l’altro, che inquietano e svelano ciò che raramente ci soffermiamo a vedere e che rappresenta parte della nostra vita quotidiana.

Questo lavoro nasce dall’intenzione di dare una visione differente al tradimento e fargli acquisire quella rilevanza che ha nella vita comune e che ci appartiene nonostante le nostre resistenze. Forse non è qualcosa da rifiutare da rinnegare da rendere come qualcosa di cattivo e nefasto che fuoriesce dall’umana specie.

Giuda luogo comune del tradimento, di cui si parlerà più avanti, rappresenta colui che è lo strumento perché Gesù venga tradito. Il tradimento di Giuda non è una cosa imprevedibile, fuori dalla quotidianità, ma invece ciò che sembra già previsto nei programmi divini. E’ la necessità che fa esprimere a Gesù la frase: prima che il gallo canti mi tradirai tre volte, proprio ad indicare che lo farai tu Giuda, che sei la persona predestinata ed indispensabile per portare la verità: Dio si è fatto uomo ed è risuscitato. Il Vangelo ci fa riflettere sul tradimento e ci indica la strada della verità che si muove attraverso il tradere, il consegnare parti di se all’altro, affinché nuovi aspetti si realizzino ed ognuno possa trovare o ritrovare ciò che rappresenta la propria vocazione, la verità che vive e vegeta dentro di noi.

Questo lavoro non vuole essere una breve giustificazione al tradimento cosa che farebbe comodo a molti, né un modo per trovare nuove interpretazioni a una pratica che è sempre esistita con l’uomo e è rimasta sempre uguale nei millenni.

Questo breve scritto intende soltanto rimarcare la possibilità che il tradimento ci appartiene, vedi il caso di Giuda, che senza di questi manca qualcosa della nostra umana natura. Una corretta valutazione della tematica del tradimento ci consente di uscire dalle problematiche della colpa e trovare nuovi orientamenti in un campo complesso e pratico come quello degli aspetti psicologici.

Il tradimento nella sua chiave di lettura più vasta altro non è che una ricerca di un senso, un momento nuovo ed iniziatico per riscoprire parti nuove di sé. Mi è sembrato vicino per alcuni aspetti alla ricerca del Graal, alla ricerca della propria individuazione, alla ricerca di aspetti esoterici che sono sempre esistiti con l.uomo per trovare fuori ciò che in realtà noi abbiamo dentro.

Uno dei motivi di questo libello utilizzando il tradimento è forse psicoterapico. Come ogni psicoterapia ognuno di noi si muove alla ricerca di una strada interna, di una vocazione, del raggiungimento delle proprie risorse, della nostra capacità di esprimerci al di fuori delle prigioni della nostra mente.

Una mia paziente stava con un tizio da tanto tempo, ormai erano in procinto di sposarsi, tutto sarebbe accaduto serenamente, almeno per il momento, fino a quando durante la psicoterapia non successe qualcosa, la persona in seduta si accorse che qualcosa di importante non funzionava, che il matrimonio era solo la realizzazione di una spinta distruttiva e così improvvisamente senza accorgersene apparse miracolosamente un nuovo orizzonte una scogliera differente, una nuova grotta, il panorama assunse nuove tinte e la paziente lasciò il suo partner.

A volte improvvisamente si aprono nuovi scenari e tutto ciò che pensavamo appartenesse alla nostra vita cambia e repentinamente, come colui che vede la luce, si aprono nuovi spazi sapienti come in una nuova iniziazione In questa strada la verità è bendata, non si trova se non nel proprio cuore. A volte è necessario capovolgere ogni cosa per la ricerca di particolari significanti. Una valutazione psicoterapica può riuscire a capire ed a comprendere.

Alcuni riti esoterici si avvicinano molto in questa ricerca del luminoso e del divino e l. iniziazione può esprimere la ricerca di una nuova luce nascosta che ognuno di noi si porta dentro di sé se si distacca sufficientemente dai beni materiali.

Il tradimento a volte viene paragonato ad un momento illuminante, la persona con cui si tradisce alla luce, a colui che mette un senso nella propria vita che dà un forma e consente di mettere uno scheletro ad un momento invertebrato della nostra vita.

La luce e la musica sono molto vicine, la luce prende gli occhi, la musica le orecchia la in entrambi i casi nutrono la nostra mente di nuovi panorami.

Dott. Pasquale Romeo

Psichiatra – Psicoterapeuta

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

UNA LETTURA CORPOREA DEL DISTURBO DA DIPENDENZA AFFETTIVA

Come tutti i tipi di disturbi psicologici, anche nel caso dell’addiction è possibile riscontrare nel corpo difficoltà riconducibili alla relazione e la cui regolarizzazione, effettuata anche per mezzo di esercizi fisici, può influire positivamente nel recupero del disturbo specifico.

 

Nello scrivere questo breve articolo non posso fare a meno di alcune brevi premesse che, presentando il mio punto di vista, rendano più facilmente comprensibile quanto andrò dicendo.

Tali premesse sono tanto più necessarie quanto più mi rendo conto di un taglio particolare, e tuttora imperante, nella lettura delle cose psicologiche, nonostante i notevoli cambiamenti che sollecitano una collaborazione tra i diversi punti di vista.

La realtà psicologica è comunemente intesa come il frutto del funzionamento del cervello e quindi è spesso presentata come un epifenomeno. Ora, dato che il modo di considerare le cose psicologiche determina anche il tipo di approccio terapeutico, e quindi il tipo d’intervento che s’intende adottare nel contesto di un disturbo, ed essendo il cervello un continuo processo chimico, diventa facile pensare alla pillola che risolve il problema.

Ebbene, io non credo che quella che definiamo “la mente” sia prodotta dal solo funzionamento cerebrale e non credo che il cervello sarebbe in grado di funzionare senza il corpo; inoltre sono convinto assertore del fatto che sia il corpo a contenere il cervello e che insieme, cioè tutto il corpo, compongono l’essere che siamo nella sua capacità di leggere il reale e di interagire.

Così sono convinto che non esiste il cosiddetto “controllo dell’Io” se non anche nella capacità della persona di controllare gli occhi, il corpo e le sue funzioni integrate. Mentre quello che definiamo il Sé credo che sia relativo al sentimento che accompagna lo svolgimento delle funzioni stesse e che la sua consapevolezza sia molto più antica di quanto non vogliamo ammettere; forse risale a prima della nascita. Perciò penso che il Sé sia precedente alla nascita dell’Io e che ambedue le istanze, le loro funzioni e i processi, sono legate anche alle espressioni corporee e non credo quindi che siano solo aspetti cognitivi e mentali della nostra personalità. Questo vuol dire anche che i disturbi, e quello che definiamo disfunzionale nell’economia psicologica di una persona, deve essere verificabile anche nella dimensione corporea.

Perciò, quando nel corso dell’articolo parlerò dell’Io e delle sue funzioni, farò riferimento al complesso dell’organismo e alla complessità delle sue funzioni, sia psichiche sia fisiche, e le une avranno sempre un legame di rimando nelle altre, nel senso che il fisico è nello psichico e viceversa. Così tutte le istanze che definiamo psicologiche penso che debbano avere un’eco nel corpo allo stesso modo di come tutto ciò che avviene nel nostro corpo è rappresentato nella mente.

In sintesi, penso che ogni tentativo teorico speso nella definizione e analisi di eventuali disturbi debba tenere conto contemporaneamente dei livelli sia corporei che mentali e lo sforzo terapeutico debba a sua volta tenere conto di ambedue le dimensioni.

Questo deve valere anche per la “dipendenza affettiva”.

Spesso il DAP (Disturbo da Attacchi di Panico) è associato, se non addirittura assimilato, al disturbo che si rivela attraverso una difficile costanza dell’oggetto e che è definibile con la sindrome che esso genera. Appunto disturbo derivante da un’eccessiva dipendenza affettiva.

In realtà esistono similutidini e differenze in queste due evenienze come del resto in tante altre manifestazioni; differenze che vanno annotate e di cui sarebbe opportuno tenere conto in un eventuale intervento sia psicologico sia medico.

Come per la dipendenza affettiva, possiamo dire che l’attacco di panico non è una malattia ma il modo di reagire di alcune persone a determinati eventi della loro vita. Allo stesso modo altre persone, piuttosto che con il panico, reagiscono con lo sconforto, l’accoramento e a volte anche con la conversione.

In questi casi sindromici “quasi” simili la distinzione potrebbe essere ricercata nella genesi dei singoli disturbi supponendo sviluppi alternativi che rendano conto più puntualmente di alcuni aspetti.

Proviamo ad ipotizzare comportamenti risalenti ai primi anni dalla nascita.

Ciò che secondo il mio punto di vista ci porta ad accomunare erroneamente il disturbo di dipendenza affettiva al disturbo di panico, dipende dal fatto che ambedue i disturbi hanno un qualcosa a che vedere con la relazione. Infatti ambedue i casi di disturbo sono, dalla relazione e nell’ambito della stessa, scatenati anche quando, in apparenza, non esistono elementi evidenti cui è possibile ricondurre lo scatenamento.

Ciò che invece notiamo immediatamente come differente sono le diverse manifestazioni comportamentali di ansia, nel caso della dipendenza, e destabilizzazione nel caso del panico.

In alcuni casi la destabilizzazione espressa nel panico viene interpretata come un’espressione esasperata dell’incapacità di fare a meno dell’oggetto e quindi a volte, il portatore di panico viene incluso nella categoria dei sofferenti di addiction.

La manifestazione panica penso possa essere ricondotta all’ipotesi formulata nei miei articoli precedenti pubblicati sul sito della LIDAP ai seguenti indirizzi: http://www.lidap.it/ciardiello.html – http://www.lidap.it/ciardiello2.html).

In quegli articoli ipotizzo che il vissuto di panico possa essere ricondotto ad una realtà infantile in cui l’aggressività prodotta dalla frustrazione materna sia rivolta contro l’Io. Nell’addiction invece ho l’impressione che la dinamica infantile si forma intorno alla difficoltà interna del soggetto di pervenire alla costruzione di un Io che possa fare a meno del supporto di un elemento esterno di relazione che funga da “collante”.

In pratica, mentre nel panico l’aggressività derivante dalla disattenzione o dalla fuga o dalla distrazione materna (o della figura primaria di relazione) si rivolge contro l’Io sottraendogli il collante, che normalmente è vissuto come il “dono” che il bambino ha fatto alle figure importanti, nel caso dell’addiction è possibile ipotizzare che quel bambino non è stato in grado di produrre il collante o non è stato messo in grado di produrlo dalle figure di cura. Per cui la funzione di collante delle funzioni dell’Io continuano per tutta la vita ad essere svolte dalle figure significative di volta in volte diverse. È come dire che la persona affetta da questo disturbo continua a “proiettare” nelle/sulle persone che trova significative della sua vita, la capacità aggregante della sua personalità. Capacità che avrebbe dovuto imparare a fare propria in qualità di dono per la figura primaria.

Questa modalità di relazione è appartenuta praticamente a tutti nel corso della propria esistenza. Cioè ognuno di noi ha avuto un momento della propria vita in cui era importante proiettare sugli altri una capacità aggregante; era come un delegare agli altri significativi, il papà, la mamma o altri che si prendevano cura di noi, la responsabilità di ciò che eravamo.

Era da queste persone che ci arrivava la conferma, la rassicurazione, il supporto e l’appoggio di ciò che eravamo e che dovevamo essere.

Nella relazione di fiducia che si costruiva, e si confermava ogni giorno, si specchiava costantemente l’immagine e l’idea di ciò che eravamo e che negli anni ognuno di noi ha imparato a fare propria. Così io oggi probabilmente sono anche ciò che vedevo rispecchiato negli occhi di mia madre quando mi guardava quindi sono, nel contempo, ciò che voglio, ciò che ho voluto ma anche ciò che lei ha voluto che io diventassi e questo specialmente nelle prime fasi della mia esistenza..

Il momento successivo della nostra crescita è quello che vede il bambino acquisire tanta fiducia in sé, anche grazie a questi rimandi familiari, da cominciare a sentire come un requisito proprio e personale la costituzione di un essere unico. Impara a farlo anche appropriandosi gradatamente del comportamento dei genitori che dall’inizio della vita controllano le sue azioni e ne perfezionano i comportamenti. È un po’ come quando impariamo il corretto uso del cucchiaio che da piccoli si realizza con un graduale controllo interiore di volta in volta confermato dai genitori.

Ora, mentre nella manifestazione di panico si può ipotizzare che l’affetto della figura di riferimento è venuto meno dopoche il bambino ha raggiunto la costruzione dell’io, con la definitiva acquisizione della capacità di fornire le singole funzioni dell’Io del materiale aggregante (la “colla” che, per esempio, tiene insieme la capacità del bambino di tenere in mano il cucchiaio e, dall’altro lato, la capacità di compiere un gesto del braccio che porta il cucchiaio alla bocca. La gioia espressa dagli occhi della madre funge da alimento, sostegno e solidificazione per l’acquisizione di questa capacità che è ulteriormente sostenuta, nel bambino, dal desiderio di gratificare con l’autonomia la madre), nel caso dell’action invece si può pensare che la figura di sostegno non abbia operato alcun “tradimento” nei confronti del bambino, ma che, molto più semplicemente, non ha mai stimolato in lui l’acquisizione della capacità aggregante.

I motivi possono essere stati diversi.

La madre (o chi per lei) potrebbe aver avuto bisogno della dipendenza del bambino perché questa la faceva sentire utile, importante e poteva contribuire a dare senso alla sua vita.

Da questo punto di vista non dobbiamo cercare le colpe perché, malgrado l’apparenza, tale atteggiamento è molto più frequente di quanto non si immagini e inoltre non è affatto consapevole. Il bisogno di dare senso a un’esistenza non è solo delle madri e dei padri ma fa parte dell’essere uomini e individui. E un figlio dà un tale senso all’esistenza che a volte ci riempie tutta la testa e ci lasciamo prendere a tal punto da quest’amore da non riuscire più a distinguere la funzionalità di ciò che dovremmo fare ed essere per lui.

D’altro canto invece può essere accaduto che non ci fosse tempo per questo figlio; che gli eventi della vita fossero così esigenti da richiedere tutta l’attenzione di questa madre, che doveva farsi veramente in quattro, per la sopravvivenza.

Situazioni incresciose e di poco alimento (affettivo emozionale ma anche materiale, di cibo vero) possono aver determinato carenze di sostegno (anche fisico quindi) emotivo in relazione proprio ai vissuti di integrazione funzionale dell’Io. Quando questi eventi si presentano nel periodo di maggiore sensibilità evolutiva nella vita di una persona, e distolgono le attenzioni genitoriali da questa dinamica costruttiva, si rischia che il bisogno di supporto aggragante si “incisti” nella personalità di un individuo e si prefiguri come il frattale maggiormente ridondante nella sua vita.

Quali le conseguenze?

A parte gli aspetti psicologici come l’estrema dipendenza dalle figure importanti e il precipitare di crisi depressive reattive, mi sembra interessante il prefigurare la possibilità di far risalire questo disturbo di “mancanza di stabilità” (emotiva?) alla “mancanza di equilibrio”.

Questa lettura del disturbo ci consentirebbe di pensare ad un intervento terapeutico che preveda la disamina di esperienze psicologiche, associate ad esercitazioni anche fisiche, di appoggio, equilibrio, e focalizzazione dell’attenzione.

Queste esperienze, mirate per ogni singola persona e condotte con competenza tecnica, potrebbero rappresentare valide esperienze per dare un senso all’introiezione della capacità di farcela da soli.

Ulteriori suggestioni inerenti l’articolo possono essere sollecitate dalla lettura dei seguenti libri:

Ramachandran V. S., Blakeslee S., “La donna che morì dal ridere”, Saggi Mondadori, 1999.

Lowen Alexander, “Il linguaggio del corpo”, Feltrinelli Ed. XVIII, 1998

Glen O. Gabbard, “Psichiatria psicodinamica”, Raffaello Cortina Ed., 1995.

Dott. Giuseppe Ciardiello

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

RELAZIONI DIPENDENTI O CODIPENDENTI

Le relazioni nella dipendenza dal sesso spesso presentano caratteristiche di uno di due modelli comuni.

Il primo è quello di un dipendente ed un codipendente, con dinamiche in certo qual modo prevedibili.

Il secondo modello frequente è quello di un “dipendente affettivo” ed un individuo “evitante”.

Di seguito si trova una descrizione di entrambi i modelli ed il modo in cui agiscono nella fase di recupero.

Nessuno dei due modelli può essere considerato perfettamente esaustivo nella descrizione di una particolare relazione, ma può essere utile rilevare le loro caratteristiche.

 

MODELLO DIPENDENTE/CODIPENDENTE

Persona

 

Dipendente dal sesso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Codipendente

Desideri

 

Approvazione

 

Sensazioni d’intensità erotica/ distrazione

 

Un magico attaccamento sessuale che guarirà tutte le ferite

Paure :
Noia/
Senso di vuoto

Vergogna/intimità

 

Andare fuori controllo

 

 

Approvazione attraverso l’essere necessario all’altro,aiutare ed essere aiutati

 

Una relazione sicura

 

Paure:

L’abbandono

 

Vulnerabilità

Attratto da

 

Persone “sessualmente attraenti”

 

Fantasia: Approvazione proveniente dagli altri

 

Altre persone emotivamente stabili che si prendano cura di loro

 

 

 

 

 

 

 

 

Individui che hanno bisogno di genitorialità

(dipendenti o disfunzionali e bisognosi di essere aiutati, così come erano i genitori codipendenti)

 

Comportamenti

 

Sesso impersonale

 

Ricerca di approvazione momentanea con altri “perfetti” che poi si rivelano imperfetti.Ne risultano relazioni seriali e non intime

 

Coinvolgimento in relazioni con codipendenti, ne derivano interessi affettivi al di fuori della relazione

 

 

 

 

 

 

Aiutano le persone in crisi

 

Rimangono nella relazione anche quando chiaramente insoddisfacente

 

Cercano di controllare il comportamento del dipendente, perfino, a volte, rendendo incapace il dipendente di rimanere tale

Sviluppo delle relazioni

 

Arriva a toccare il fondo ed inzia il recupero provando notevole sofferenza

Si volge ad una approvazione romantica dagli altri o ripristina una relazione codipendente, in entrambi i casi senza affrontare adeguatamente i propri problemi d’intimità ed autostima. (In più l’individuo evitante si unisce al gruppo di recupero ma ne rimane ai confini).

La strategia di recupero fallisce, si ha una ricaduta che implica un toccare il fondo ancora più intenso.
Riprende il recupero, più lentamente questa volta, con più attenzione all’auto approvazione, all’intimità non sessuale, ed alla tolleranza di sentimenti di solitudine e vuoto

 

 

Possono voler possedere il dipendente
Divengono frustrati quando il comportamento del dipendente è più estremo di ciò che vogliono, ma rimangono nella relazione perché hanno paura di lasciarla

 

Se il dipendente inizia il recupero, il codipendente può ricercare un nuovo dipendente che apprezza ed ha bisogno delle sue capacità di aiuto

 

 

MODELLO “DIPENDENTE AFFETTIVO”/INDIVIDUO EVITANTE

 

Persona

Dipendente affettivo

Desideri

Sicurezza, approvazione,
“identità” (fusione)

Paure:

La paura più grande è l’abbandono

La paura soggiacente è quella di una sana intimità (nel rapporto il nucleo della persona rimane in realtà isolato).

 

 

 

Attratto da

Individui autonomi che appaiono forti, stabili (spesso evitanti o ossessivo compulsivi, come erano le loro famiglie d’origine)

Comportamenti

Costituire una nuova relazione prima di lasciare quella attuale, formando relazioni – triangolo

Vicinanza subitanea, ricerca di un sentimento “magico”

Idealizzazione del partner

Ossessione sul partner

Parlare ossessivamente con gli altri di “lui” o di “lei”

Mostrare rabbia e sentimenti di rivalsa per essere stati abbandonati

Sviluppo delle relazioni

Nega quanto in realtà si trova costretto e limitato nell’evitante

L’evitante gradualmente diviene distante e si chiude, in qualche modo abbandona la relazione

Il dipendente affettivo mostra rabbia e rivalsa, torna a rivolgersi a relazioni occasionali e sesso di tipo dipendente

 

Il partner si arrende e riprende la relazione oppure il dipendente affettivo instaura una nuova relazione.

Il senso di se’ e l’autostima non si sviluppano, il dipendente affettivo rimane in una posizione dipendente.

Si deve sviluppare la capacità di tollerare la paura ed il disagio perché sia possibile la crescita.

 

 

 

Evitante

 

Vuole unirsi ma non da vicino

Paure:

La paura più grande è l’intimità/coinvolgimento

Può risultare arduo per lui respingere gli altri o dire di no

 

Individui che provvedano ad entusiasmo ed intimità per entrambi

 

Completa ambivalenza. Possono vivere una relazione per il solo fatto di non saper dire di no.

 

Può mostrare un iniziale, tradizionale perseguimento romantico, ma fondamentalmente entra in relazione perché è il dipendente affettivo che procura l’ “energia intima”, può temere di non essere altrimenti in grado di affrontare una relazione.

Mentre il dipendente affettivo richiede sempre più attenzione, l’evitante cerca di accontentarlo, almeno inizialmente.

Infine l’evitante viene sopraffatto dal totale attaccamento e/o dagli eccessivi bisogni del dipendente affettivo, diviene critico ed in ultimo abbandona la relazione.

Percepisce il fallimento della relazione, a volte viene coinvolto in un comportamento dipendente o in relazioni occasionali per allontanarsi, distrarsi o stordirsi.

Può tornare alla relazione per senso di colpa o paura di essere completamente solo oppure muovere ad un nuovo partner.

Il ciclo

abbandono/ritorno

può andare avanti e ripetersi molte volte, specialmente se il dipendente affettivo si rivolge al di fuori della relazione

 I modelli riportati in queste tabelle sono stati descritti da Pia Mellody nel suo libro “Affrontare la dipendenza affettiva” – 1992.

 

Articolo tratto da http://www.healthymind.com/s-relationships.html

Traduzione di Elisabetta Vatielli ( www.myspace.com/elisapoesia )

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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TIPOLOGIE DEI DIPENDENTI AFFETTIVI (di Susan Peabody)

Introduzione

La dipendenza affettiva è un problema grave. Non solo è “la droga per eccellenza” per molte persone, ma ci sono migliaia di alcolisti e tossicodipendenti in recupero che soffrono di dipendenza affettiva e non ne sono coscienti.

La dipendenza affettiva può essere meno problematica rispetto alla loro dipendenza da droga o alcohol, ma può minare il loro recupero da queste sostanze.

Questo articolo è stato scritto originariamente per l’Associazione “Love Addicts Anonymous” (Dipendenti Affettivi Anonimi) per permettere alle persone di comprendere se soffrano di questo disturbo.

Categorie tipiche di dipendenti affettivi

Dalla prima pubblicazione di “Addiction to love” (Susan Peabody – 1989) non molto è cambiato nel mondo della Dipendenza Affettiva eccetto il modo in cui la consideriamo.

Nel 1989, ciò che sapevamo di questo disturbo emergeva ancora dalle nostre conoscenze sulla Codipendenza. Allora, per molti di noi, Dipendenza Affettiva e Codipendenza erano un’unica cosa. Tuttavia oggi comprendiamo che ciò non è vero.

Il dipendente affettivo codipendente è solo uno dei molti tipi di dipendente affettivo. Per comprendere in modo chiaro come i dipendenti affettivi si differenziano tra loro, ecco un’elenco:

Dipendente Affettivo Ossessivo

Gli OLA (Obsessed Love Addicts) non riescono a lasciar andare il partner, neanche se questi è: non disponibile, a livello emotivo o sessuale, impaurito di impegnarsi, incapace di comunicare, non amorevole, distante, abusivo, indagatore e dittatoriale, egocentrico, egoista, dipendente da qualcosa al di fuori della relazione (hobbies, droghe, alcohol, sesso, un’altra persona, il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, etc)…

Dipendente Affettivo Codipendente

CLA (Codependent Love Addicts) sono i più ampiamente riconosciuti. Rappresentano un profilo particolarmente comune. Molti di loro soffrono di scarsa autostima ed hanno un modo di pensare, sentire e comportarsi, in certo modo, prevedibile.

Ciò significa che da una condizione di insicurezza e bassa autostima cercano disperatamente di rimanere attaccati alla persona da cui sono dipendenti, manifestando un comportamento codipendente. Questo include: essere permissivi, aiutare, prendersi cura del partner, esercitare un controllo passivo – aggressivo ed accettazione di abbandono ed abusi. In generale, i CLA faranno di tutto per “prendersi cura” dei loro partner nella speranza di non essere lasciati o di essere un giorno ricambiati.

Dipendenti dalla Relazione

Gli RA (Relationship Addicts), a differenza degli altri dipendenti affettivi, non sono più innamorati dei loro partners ma sono incapaci di lasciarli andare, di rinunciare. Solitamente sono così infelici che la loro relazione mina la loro salute, il loro spirito e benessere emotivo.

Anche nel caso in cui i loro partners li picchino o sappiano di essere in pericolo, essi sono incapaci di rinunciare al rapporto. Hanno il terrore di rimanere soli. Hanno paura del cambiamento. Non vogliono ferire o abbandonare i loro partners. Tutto ciò può essere descritto come: “Ti odio, non lasciarmi”.

Dipendenti Affettivi Narcisisti

Gli NLA (Narcissistic Love Addicts) utilizzano il dominare l’altro, la seduzione ed il trattenere l’altro per controllare i propri partners. A differenza dei codipendenti, che sono disposti a tollerare un notevole disagio, i narcisisti non accondiscendono a nulla che possa interferire con la loro felicità.

Sono assorbiti da se stessi e la loro bassa autostima è mascherata dalla loro grandiosità. Inoltre, piuttosto che essere ossessionati dalla relazione, gli NLA appaiono distaccati ed indifferenti. Non sembrano affatto essere dipendenti. Raramente ci si può accorgere che gli NLA siano dipendenti finché il partner non cerca di lasciarli. Allora non saranno più distaccati ed indifferenti. Entreranno in uno stato di panico ed useranno qualsiasi mezzo a loro disposizione per protrarre la relazione, incluso l’uso di violenza.

Molti psicologi hanno rifiutato l’idea che i narcisisti possano essere dipendenti affettivi. Può darsi ciò sia avvenuto perché raramente i narcisisti ricercano un trattamento terapeutico. Tuttavia, se mai capiti di poter vedere come molti narcisisti reagiscono all’abbandono, temuto o reale, ci si accorgerà che certamente essi presentano le caratteristiche del dipendente affettivo.

Dipendenti Affettivi Ambivalenti

Gli ALA (Ambivalent Love Addicts) soffrono di un disturbo di personalità evitante. Non hanno particolari problemi a lasciar andare il partner, hanno invece molti problemi ad andare avanti. Bramano disperatamente l’amore ma allo stesso tempo sono terrorizzati dall’intimità. Questa combinazione di tendenze è agonizzante.

Gli ALA sono a loro volta divisibili in categorie:

Torch Bearers (portatori di una fiamma) sono ALA che sono ossessionati da persone non disponibili. Ciò può avvenire senza che questi compiano alcuna azione (soffrire in silenzio) oppure con la ricerca di contatto con la persona amata.

Alcuni Torch Bearers sono più dipendenti di altri. Questo tipo di dipendenza si nutre di fantasie ed illusioni. E’ anche conosciuta come “amore non corrisposto”.

Sabotatori sono ALA che distruggono le relazioni quando queste cominciano a diventare serie o in qualsiasi momento venga percepita la paura dell’intimità. Ciò può accadere in qualunque momento, prima del primo appuntamento, dopo il primo appuntamento, dopo il rapporto sessuale, dopo che si sia manifestato il timore dell’impegno.

Seduttori Rifiutanti (Seductive Withholders) sono degli ALA che ricercano una persona quando desiderano un rapporto sessuale o compagnia. Quando si sentono impauriti o in pericolo cominciano a rifiutare compagnia, sesso, affetto, qualsiasi cosa li renda ansiosi. Se lasciano la relazione sono soltanto Sabotatori. Se invece continuano a ripetere il modello disponibile/non disponibile sono Seduttori Rifiutanti.

Dipendenti Romantici sono ALA che dipendono da più partners. A differenza dei dipendenti dal sesso, i quali cercano di evitare del tutto il legame, i Dipendenti romantici si legano ad ognuno dei loro partners, in grado diverso, anche se i legami romantici sono brevi ed avvengono simultaneamente.

Con “romantica” intendo una passione sessuale ed una pseudo intimità emozionale. Da notare che, sebbene i Dipendenti romantici si leghino a ciascuno dei propri partners, in vario grado, il loro scopo, insieme alla ricerca dell’intensità delromance e del dramma, è di evitare l’impegno ed il legame su di un piano più profondo con il partner. Spesso i Dipendenti romantici vengono confusi con i Dipendenti dal sesso.

Nota sui Dipendenti Affettivi Ambivalenti:

Non tutti gli evitanti sono dipendenti affettivi. Se si accetta la propria paura dell’intimità e delle interazioni sociali e non ci si lascia attrarre da persone non disponibili o semplicemente si crea un piccolo cerchio sociale, non si è necessariamente dei Dipendenti Affettivi Ambivalenti.

Ma se ci si strugge, anno dopo anno, su di una persona non disponibile o si tende a sabotare una relazione dopo l’altra o si hanno relazioni romantiche occasionali seriali o si avverte la vicinanza solo con un altro evitante, allora si può parlare di Dipendenti Affettivi Ambivalenti.

Combinazioni

Si può scoprire di soffrire di più di un tipo di dipendenza affettiva. Molte di queste categorie si sovrappongono o combinano con altri problemi comportamentali. Per esempio si può avere il caso del codipendente, alcolista, dipendente affettivo. Oppure di un Dipendente Affettivo/Relazionale.

La cosa più importante è identificare il proprio profilo personale per sapere con che cosa ci si stia confrontando.

 

Susan Peabody (http://brightertomorrow.net/index.html)

Traduzione di Elisabetta Vatielli ( www.myspace.com/elisapoesia )

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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IL MASOCHISMO: IL PUNTO DI VISTA PSICOANALITICO

articolo della Dr.ssa Rossella Valdre’
Psichiatra, Psicoterapeuta membro della Società Psicoanalitica Italiana
scarlet@cocco.net

 

I comportamenti di alcune persone e, soprattutto nella sfera sentimentale, di alcune donne, sembrano chiaramente autolesionistici, inutilmente portati alla sofferenza, a volte persino piegati, oltre ogni ragionevolezza, all’umiliazione e al disprezzo da parte del partner. Questi comportamenti e atteggiamenti non sono ovviamente tutti della stessa entita’, ma si situano all’interno di uno spettro, possiamo dire, che va da sporadici e modesti tratti relazionali di sottomissione a veri e propri ‘stili’ comportamentali in cui la persona sembra ricercare, nel rapporto amoroso, tutto cio’ che la fa soffrire.
Come terapeuti, ci si domanda pertanto se tali comportamenti possano rientrare nell’ambito clinico chiamato ‘masochismo’.
Occorre fare un passo indietro. Il termine viene inizialmente usato da Freud (1905, Tre saggi sulla teoria sessuale) per indicare alcune deviazioni sessuali in cui il soggetto cerca, non solo accetta, la sofferenza fisica e psicologica come mezzo per ottenere il piacere, all’interno del registro perverso del sadomasochismo (Freud comprende presto, infatti, che i ruoli possono facilmente ribaltarsi e “laddove vi e’ il masochismo possiamo sempre ritrovare anche il polo opposto, il sadismo”). Questi primi studi di Freud, per quanto gia’ peculiarmente psicoanalitici, risentivano ancora dell’interesse che la scienza medica della fine del secolo scorso nutriva per le deviazioni sessuali, e sono in parte ancora ispirati al famoso trattato di Kraft-Ebing, Psychotapia Sexualis (1886). Freud chiama questa forma di masochismo come erogeno: esso designa quell tipo di persone che, piu’ o meno incosapevolmente, cercano un partner sessuale sadico, che abbia cioe’ caratteristiche opposte alle loro e che infligga dolore e sofferenza, realizzando cosi il rapporto perverso sadomasichistico.
Successivamente, l’interesse di Freud si sposta sull’analisi delle fantasie inconscie che stanno dietro alla posizione di sottomissione (1919, Un bambino viene picchiato), scoprendo che si tratta spesso di fantasie legate al desiderio edipico, nella bambina, di essere amata e sottomessa al padre, e creando cosi’ le basi per la futura suscettibilita’ adulta del masochista nei confronti di figure paterne o che rivestano autorita’. Piu’ avanti ancora, a conclusione del suo pensiero (1924, Il problema economico del masochismo), Freud estende il concetto di masochismo dal ristretto campo sessuale o dallo specifico della fantasia edipica, al comportamento umano piu’ generale e al carattere femminile. Al masochismo del primo tipo, detto appunto erogeno, si aggiunge cosi’ il masochismo morale e quello femminile.
La ricerca inconscia della sofferenza non si limita piu’, quindi, allo scenario sessuale, ma si puo’ estendere allo stile esistenziale globale della persona, caratterizzandone le scelte, le motivazioni, i comportamenti.
Poiche’ dobbiamo sempre tenere presente che la natura e la spinta profonda di un tale assetto psicologico e’ essenzialmente inconscia, noi potremmo avere una persona, ad esempio una donna per restare al nostro argomento, che vive ripetute relazioni sentimentali autolesionistiche ed infelici ma consapevolmente non le vorrebbe, sul piano razionale e cosciente desidera invece, in tutta sincerita’, trovare un partner adeguato a cui non sottomettersi e con cui vivere serenamente. La psicoanalisi ci ha insegnato da tempo che questi due registri, conscio ed incoscio, possono purtroppo convivere in piena contraddizione dentro di noi, portando avanti istanze del tutto diverse e opposte, ad esempio conscientemente possiamo sentirci attratti da A (supponiamo, il successo di una nostra iniziativa), ma inconsciamente remare contro verso B (lo scacco, il fallimento della stessa iniziativa), con il risultato di generare in noi un conflitto psichico inconscio. Lo stesso vale per le relazioni affettive: una persona puo’ consapevolmente ed in totale buona fede desiderare una vita sentimentale costruttiva ed appagante, ma inconsciamente ricercare proprio quel tipo di esperienze o di persone con le quali tali realizzazione e’ impossibile.

Il motore interno del masochismo (parliamo sempre, da ora in poi, di masochismo morale), la forza inconscia che ne costituisce la spinta, Freud la individuo’ nella presenza dell’istinto di morte (1920, Aldila’ del principio del piacere), una pulsione inconscia antitetica alla libido, cioe’ all’istinto di vita, che in queste persone e’ particolarmente elevata, o non sufficientemente fusa, mescolata cioe’ alla libido che ne dovrebbe attutire la distruttivita’, cosicche’ si ritrova libera ad operare all’interno della psiche, causando la ritorsione dell’aggressivita’ verso il Se’ (nel masochismo, appunto) o verso l’oggetto, l’Altro (nel sadismo). Il nostro inconscio e’ abitato da una lotta pressoche’ continua tra istinti di vita e istinti distruttuvi, per Freud (posizione, questa, non condivisa da tutto il corpus psicoanalitico), la notra salute e la nostra capacita’ di costruire legami positivi dipendono dalla prevalenza, in noi, di forze vitali; se prevale l’inconscio istinto di morte, la distruttivita’, di cui il masochismo e’ un’espressione, siamo portati a compiere scelte e comportamenti distruttivi per il nostro benessere, ad esempio con la scelta di relazioni amorose fallimentari e dolorosa (va precisato, naturalmente, che la distruttivita’, in quanto incoscia,non solo puo’ non apparire del tutto dall’esterno, ma puo’ essere mascherata da comportamenti di segno opposto, come e’ il caso si quei temperamenti cosiddetti maniacali sempre portati all’esuberanza e all’ottimismo).
La terza tipologia di masochismo, quello che Freud vedeva come connaturato alla femminilita’ e che chiamo’ pertanto femminile (1931, Sessualita’ femminile), e’ stato oggetto di molte critiche, come e’ noto, ed e’ da ritenersi oggi un concetto piuttosto desueto. Esso si identifica con la posizione femminile passiva, per Freud e alcuni allievi (in particolare Helene Deutch, con Psicologia della donna), legata alla differenza anatomica tra i sessi che vede il maschile in posizione di attivita’ (possessore del pene) e il femminile in posizione di passivita’ (in quanto mancante dell’organo maschile, castrata).

La psicoanalisi moderna ha portato aventi, in parte superandolo, il discorso freudiano, e vede nel masochismo un’origine plurideterminata: vi sono casi in cui effettivamente l’aggressivita’ del soggetto e’ rivolta verso se stesso, con necessita’ di autopunizone e quindi sofferenza masochistica, ma piu’ spesso troviamo casi in cui la ricerca inconscia della sofferenze e dell’umiliazione costituisce la ripetizione, in forma diretta o ribaltata, delle vicende traumatiche infantili. Il bambino o la la bambina che hanno subito traumi, come ad esempio genitori maltrattanti, sadici o trascuranti, possono ricercare lo stesso copione relazionale nella vita adulta, non gia’ per ricerca del piacere o per eccesso di aggressivita’ interna, ma per una sorta di perenne vicinanza all’area traumatica infantile, come se inconciamente si fosse destinati a ripetere, anche nel tentativo di modificare, un vissuto doloroso, e non si riuscisse a fare diversamente.
Siamo cosi’ arrivati al tema di questo sito. Una sofferenza masochistica di origine traumatica inconscia, talora avvertita in parte anche coscientemente, puo’ determinare alcuni dei comportamenti che qui prendono il nome di Mal d’Amore. Si tratta di donne, piu’ spesso, che ‘scelgono’ ripetutamente relazioni amorose frustranti, con uomini inaffidabili, respingenti o maltrattanti, apertamente o subdolamente, che talvolta impongono loro rinuncie, infliggono sofferenze gratuite e le espongono a umilizioni su piu’ versanti della vita, in ogni caso donne che possono essere perfettamente adulte e ‘funzionanti’ in altre aree della loro esistenza, come il lavoro, ma ritrovarsi come costrette, obbligate da una tirannia interna, a vivere relazioni di questo tipo. Come se vivessero in una prigione, talvolta in un lager interiore, di cui non riescono a vedere ne’ i confini, ne’ la via d’uscita.
L’esperienza analitica e psicoterapica rivela spesso, nell’infanzia di queste pazienti, una storia traumatica di deprivazione affettiva, o di violenza e abuso da parte di adulti significativi da cui dipendeva la vita del bambino, irrinunciabile per lui. Il trauma puo’ essere anche apparentemente modesto, ma ripetuto nel tempo (cosiddetto ‘trauma cumulativo’), come ad esempio una madre alternativamente affettuosa e maltrattante, e venire introiettato nella mente del bambino come l’unica realta’ possibile.
Nella mia esperienza clinica, di rado ho constatato la presenza di piacere nel subire maltrattamenti da parte di queste pazienti (sebbene sia possibile, nel tempo, che in via secondaria si instauri una certa erotizzazione della sofferenza, sulla quale occorre poi lavorare in terapia), piu’ spesso l’attaccamento al partner maltrattante o trascurante posa su altre ragioni: l’idea che cosi sara’ piu’ amata, la garanzia fantasticata contro l’abbandono, o perche’ e’ l’unica forma di relazione che conoscono.
Credo che quest’ultimo caso sia particolarmente significativo e meriti la nostra attenzione. Quando una bambina, nella prima infanzia, ha appreso emotivamente che per avere un po’ di attenzione e amore dai genitori doveva sopportarne gli accessi di rabbia, gli sbalzi d’umore, gli abusi o le imprevedibilita’, potra’ essere incosciamente portata nella vita adulta, anche quando non ne sussiste piu’ il bisogno, a ritenere quel tipo di relazione come naturale, l’unica possibile per lei, per lei che non e’ degna di altro.

Dal punto di vista psicoanalitico, e’ dunque importante conoscere a fondo il mondo interno della donna (o dell’uomo) che soffre di questa patologia relazionale, risalire alle radici infantili inconscie dove spesso il trauma e’ stato negato o minimizzato, essendone intollerabile l’elaborazione e l’integrazione con il resto della personalita’, allo scopo di ‘rimettere mano’, insieme al terapeuta, a questo insieme di rappresentazioni interne patogene e dolorose.
Credo sia importante che giunga a queste persone il messaggio che non si tratta di un destino ineluttabile, anche se il percorso puo’ essere talvolta lungo e difficoltoso, ma che noi possiamo sempre, tramite un lavoro psichico, ridare fiato e spazio alle nostre parti vitali, e riparare infine le nostre antiche ferite.
Concludo con una breve vignetta clinica, ad esemplificare la spinosita’ ma anche la potenzialita’ del percorso terapeutico. Una paziente in analisi, che e’ riuscita dopo molte incertezze a divorziare dal marito, un uomo dalla grave personalita’ narcisistico-sadica che la aveva sottoposta ad ogni genere di incuria ed umiliazioni, al progressivo liberarsi di questa penosa sudditanza ha iniziato a provare un profondo senso di spaesamento, quasi di smarrimento di identita’, durato diversi mesi. “Prima sapevo dove stare – disse la paziente – avevo il mio posto…ora non ce l’ho piu’”.
Solo un attento e paziente lavoro terapeutico condiviso puo’ portare questa donna brillante e intelligente, e altre come lei, a ritrovare un suo posto che non sia necessariamente quello della sudditanza ad un oggetto sprezzante e irragiungibile, come lo fu un tempo l’oggetto primario, la madre, ed in seguito tutti i suoi sadici sostituti. Quel posto, riteniamo, e’ necessariamente prima di tutto un luogo terapeutico, di qualsivoglia orientamento, purche’ capace di creare lo spazio per un nuovo discorso condiviso.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

LA DIPENDENZA AFFETTIVA: LE FASI DI UNA PATOLOGIA

Da quando è stata isolata e descritta nella sua autonomia strutturale, la sindrome delle «donne che amano troppo», della dipendenza affettiva, o love addiction – come viene definita nei paesi anglosassoni –, è balzata agli onori della cronaca. Da allora gli interventi sui media si sono moltiplicati a ritmo vertiginoso. Vorrei riportare in questa pagina il testo di una delle prime interviste che ho dato sull’argomento, per l’immediatezza e la spontaneità con le quali i concetti si sono organicamente disposti nel corso del piacevole dialogo.
Domanda: Gentile dott. Ghezzani, confrontandomi con alcune donne (mi pare siano loro ad essere le più colpite dalla patologia della «dipendenza affettiva»), mi è capitato di riscontrare da parte di molte di esse un’identificazione con i comportamenti descritti da lei nei suoi libri Volersi male e Quando l’amore e una schiavitù, entrambi editi da Franco Angeli, e di cui ho ritrovato traccia anche nel famoso libro Donne che amano troppo di Robin Norwood. Lei parla di psicopatologia, e anche la Norwood presenta casi molto estremi di disturbi, con alle spalle precedenti di famiglie lacerate o in generale gravi traumi. Ma l’ampia diffusione del problema non sta forse a indicare che, al di là dei casi più estremi e propriamente patologici, esista una generale tendenza di molte donne ad affrontare in questo modo deviante il rapporto amoroso? Non si può parlare, a fianco della vera e propria patologia, di una fenomenologia di minore gravità, ma molto estesa, legata a fattori sociali? Un senso di insicurezza generale che spinge molte donne ad adottare almeno in parte i comportamenti ossessivi tipici della love addiction.

Risposta: In effetti, la sindrome della dipendenza affettiva sembra avere ormai una diffusione da pandemia, sembra cioè una «malattia» in via di diffusione ovunque esistano rapporti fra uomini e donne. Da ciò possiamo dedurre che, per quanto la storia la documenti anche in altre epoche, la sua diffusione odierna testimonia di un malessere specifico dell’epoca attuale. La mia disciplina, la Psicoterapia dialettica, è una psicoanalisi di tipo socio-storico, e va appunto alla ricerca dei fattori ambientali (storici e sociali) che stanno alla base di tutte le psicopatologie, maggiori o minori.
Nel caso delle «donne che amano troppo» io vedo innanzitutto quei fattori storici e sociali che insegnano e impongono da millenni alle donne la devozione amorosa come la virtù massima che una donna debba possedere per sentirsi realmente donna. La devozione amorosa non riguarda solo il marito (o il «partner», nella versione moderna), ma anche un proprio genitore, i propri figli, spesso intere reti di parentela. Per la donna queste sono persone da amare in modo assoluto, in virtù di un vero e proprio annullamento di sé che rappresenta, in un certo senso, un vero e proprio «test di femminilità». Senza questa «abilità» a devolversi nel bene altrui e a farsi riconoscere «amabile», una donna semplicemente non si sente donna. Per cui, se un uomo la rifiuta, la donna rifiutata non solo si sente brutta o odiosa, ma non si sente più donna: la sua identità di genere è distrutta.

D: Quali sono i principali sintomi che una persona può cercare di riscontrare da sé?

R: Ansia più o meno marcata ad ogni distacco, sentimenti di vuoto e di smarrimento quando si è soli, gelosie immotivate e ossessive, controllo telefonico o anche fisico del partner, a gradi estremi odio mortale cui segue il bisogno di essere puniti, talvolta un dolore lacerante, lancinante al petto, apparentemente senza motivo, che rappresenta la sensazione di poter morire a causa dell’assenza della persona amata.

D: Ha avuto esperienze di questo genere tra le sue pazienti o ha conoscenza diretta di casi simili? Ce ne può raccontare uno che ritiene più emblematico?

R: Ci sono persone che sembrano del tutto perse nel loro malessere, incapaci di capirlo in alcuno dei suoi aspetti, ma che invece mancano solo di pochi nessi logici, di poche rigorose deduzioni, per comprenderlo a fondo e risolverlo. Cristina è una di queste. La conobbi attraverso Internet, dopo aver pubblicato sul mio sito Psicoterapia dialettica, (indirizzo www.psyche.altervista.org), un articolo sulla dipendenza affettiva. Dalle sue parole vorrei estrapolare i concetti più interessanti, punteggiandoli con delle interpretazioni.
Dice Cristina:
«E’ da quando ho diciassette anni che sono consapevole di essere una donna che ama troppo (ora ho venticinque anni). Ho avuto un’infanzia molto tormentata con genitori che chiunque ha sempre definito pazzi, infatti uno dei due si è tolto la vita qualche anno fa. A diciotto anni ho conosciuto un uomo che ha fatto cambiare in negativo il corso della mia vita… In quei durissimi tre anni ho affrontato per la prima volta la mia «malattia»… Non riuscivo a darmi una spiegazione dell’ansia, degli struggimenti, del mio farmi calpestare in tutti i modi…»
Cristina pone alla base del suo malessere la crisi di coppia dei genitori e il suicidio di uno dei due: intuisce che la loro autodistruzione esistenziale ha prodotto in lei un’analoga tendenza masochistica. Di conseguenza, si rende anche conto che, alla base della sua dipendenza affettiva c’è una vocazione non solo ad amare, ma soprattutto a «farsi calpestare in tutti i modi», intuisce, dunque, la relazione esistente fra masochismo e ricerca dell’umiliazione amorosa.
Prosegue:
«In conseguenza di questa prima storia, ho avuto un esaurimento nervoso, ho dovuto abbandonare il lavoro per curarmi…, ma alla fine sono riuscita a lasciare quell’uomo, e sono diventata dai vent’anni in poi di un cinismo incredibile, dovevo apparire sempre a me stessa e agli altri forte, magnetica, indistruttibile. Il mio amor proprio aveva preso in passato troppi duri colpi. Ora, volevo essere io a fare la parte della stronza con i ragazzi, purtroppo anche con chi amavo e quindi con le storie importanti che sono seguite».
Cristina è consapevole anche di questo secondo passaggio. Dopo la ricerca dell’umiliazione masochistica, il soggetto malato di dipendenza affettiva vuole «vendicarsi».
Ecco cosa dice:
«Sono consapevole di aver trattato il mio nuovo ragazzo veramente male. Mi ha dimostrato una dolcezza, una comprensione e una devozione incredibili anche quando soffriva a causa mia. E’ una via di mezzo tra il ragazzo che a noi «donne che ci vogliamo male» può piacere – per le sue negatività – e un bravo ragazzo. A noi la negatività maschile ci eccita particolarmente…»
Questo è un passaggio importante per capire lo strutturarsi della patologia da dipendenza. Chi è affetto da dipendenza affettiva patologica ha: 1) una tendenza masochistica di base, dovuta a una bassa autostima. 2) L’asservimento affettivo è il primo tentativo che egli fa per ottenere dal partner segni di gratitudine e stima e riscattare questa penosa autopercezione. Tuttavia, se pure questi segni arrivano, il soggetto dipendente finisce per sentirsi umiliato della sua condizione servile, pensa di essere ingannato e sfruttato, sicché avvia una nuova fase. 3) Tenta a questo punto di riscattare la percezione negativa di sé mediante una «ribellione»: il soggetto diviene insensibile, aggressivo, sfidante, fino a livelli di esaltazione maniacale, per ribaltare il rapporto di potere. 4) Ma così facendo aggrava il senso di colpa originario e l’autostima peggiora. Infine, 5) il soggetto ha bisogno di farsi punire a causa della sua ripetuta negatività, e lo fa attraverso vecchi o nuovi partner.
Dice ancora Cristina:
«Ovviamente mi sono sempre scelta persone che non facevano per me, persone nevrotiche o psicopatiche: i classici stronzi. All’inizio era splendido ripagare persone che sapevo mi avrebbero già dall’inizio fatta soffrire usando le loro stesse tattiche e strategie. Mi sentivo forte, potente. Ai miei compagni ne ho fatte passare di tutti i colori, mi piaceva vederli soffrire. Sono consapevole di essermi comportata da pazza, ma volevo farmi vedere pericolosa per tutelarmi, per dimostrare che nessuno poteva più umiliarmi e farmi del male. Ho recitato questa parte per anni… Infine ho capito che ero io a trovare loro dei pretesti per farmi trattare male, e che usavo poi quegli stessi pretesti contro di me, per potermi dire che se loro mi facevano del male era tutta colpa mia…».

Questa complessa dinamica può infine facilmente cronicizzare nella depressione.
Sono dunque queste in sintesi le fasi di instaurazione della dipendenza affettiva:
1) Soggezione morale e fisica (tendenza masochista di base): il soggetto (uomo o donna che sia) si sente di scarso valore o di valore negativo, quindi ha bisogno di «servire» qualcuno per ottenere da lui un giudizio positivo. All’idea di averlo ottenuto, sperimenta un esaltante sentimento di sollievo e di gratitudine.
2) Ciclicità depressivo-maniacale: il soggetto prende coscienza della propria immagine interna negativa (di persona debole o cattiva o pervertita), si addolora di ciò e se dapprima si sacrifica per il bene del partner poi, sentendosi umiliato, odia il proprio servilismo e/o il dominio da parte del partner, quindi si vuole vendicare.
3) Vendetta: egli/ella si vendica divenendo freddo e sfidante nei confronti del partner.
4) Senso di colpa: di conseguenza, prova sensi di colpa e bisogno di essere punito.
5) Ciclicità sadomasochista (bisogno di punizione e rilancio della sfida): alla fine, il soggetto scivola in una nuova e più grave depressione. La depressione può implicare giudizi negativi su di sè o sul mondo, quindi di bisogno di mortificarsi o di farsi punire o può sfociare in un drammatico senso di vuoto. Oppure può virare – per ribellione – verso una nuova sfida.
Dice Cristina:
«A parte certe tragedie famigliari, non mi manca veramente niente… ho buoni amici, quest’anno ho ottenuto il lavoro che sognavo, leggo, scrivo, coltivo anche un interesse artistico in una compagnia teatrale. Ma anche se mi sento appagata, avverto puntuale una sorta di vuoto, di depressione latente, un senso di noia e di inutilità. Sicché mi rimetto alla ricerca di una relazione totalizzante per colmare quel terribile sentimento. La mia è stata una continua fuga più che da me stessa, da questa atroce sensazione di non essere viva, da questa impalpabile percezione che va oltre qualsiasi razionalità. Ciò che faccio ogni giorno lo faccio per dimenticare questa sensazione. Da qui anche le relazioni: quando ci si attacca a «quel tipo» di persone non è per vero amore. Io, quando trovo un uomo di «quel genere», ho una sensazione di innamoramento non perché lo amo davvero, ma perché amo quel senso di totalità che mi dà l’illusione di sentirmi viva, annullando la sensazione del vuoto. Arrivando al bandolo della matassa, della mia matassa, il punto da cui iniziano certi orrori nasce proprio da questo grande vuoto iniziale, o esistenziale».

Per capire appieno il significato di questo angoscioso senso di vuoto occorre prendere la parola «vuoto» non come una metafora ma alla lettera. In effetti, la donna che ha annullato se stessa in funzione delle esigenze maschili, e che ha fatto il deserto intorno a sé (deserto di persone, di interessi, di vocazioni personali e di futuro…) ha realmente fatto il vuoto intorno e dentro di sé. Ogni cosa che non sia il suo uomo è allontanata dall’angoscia di perderlo e dal senso di colpa di «tradirlo»: il vuoto che infine la donna sperimenta è dunque la sua oggettiva realtà, è l’angoscia morale per ciò che ha fatto a se stessa.
Dal mio punto di vista, dunque, questo sentimento di nullità è l’inizio e la fine del percorso. Si comincia con la bassa stima di sé (legata all’educazione tradizionale, cioè dal vuoto imposto dalla cultura familiare e sociale), e si finisce con una stima ancora più bassa, dovuta alla percezione di una negatività personale irrimediabile.

D: Dottor Ghezzani, per finire, qual è in questi casi, in genere, il ruolo giocato dai partner?

R: Spesso il partner tipico che si lega a persone affette da love addiction ha una patologia affine. Di solito è una persona fortemente insicura e allo stesso tempo narcisista, che ottiene un lenimento delle sue angosce e una certa soddisfazione dell’autostima proprio grazie all’adorazione e al masochismo del suo partner dipendente affettivo. Ormai si parla infatti di co-dipendenza. Questo termine tecnico vuol dire che entrambi i contraenti di questo tipo di rapporto sono dipendenti l’uno dall’altro, ma in modi diversi. Nei miei libri, io chiamo questa forma complessa di rapporto a due patologie «collusione sado-masochista».

di NICOLA GHEZZANI
Psicoterapeuta – Roma 

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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ANORESSIA SENTIMENTALE – DOTT. NICOLA GHEZZANI

Uomini e donne si frequentano, al giorno d’oggi, con una intensità di cui non si ha riscontro in altre epoche storiche; le occasioni di contatto si moltiplicano e proliferano sotto ogni forma (scuole, università, luoghi di lavoro, attività turistiche e di svago, società sportive, club, locali, agenzie matrimoniali, luoghi d’incontro virtuali…), eppure vi sono uomini e donne che hanno rimosso e dimenticato cosa sia l’amore. In senso stretto, l’anoressia sentimentale , l’incapacità di amare, è una vera e propria pandemia che colpisce, su larghissima scala, tutte le età ed entrambi i sessi, soprattutto nel mondo a modello occidentale.

La fenomenologia è la più varia: chi ne è affetto può essere tanto un individuo solitario quanto una persona in apparenza socievole, amante della buona compagnia e dei divertimenti. Ma la struttura di fondo del disturbo è identica: il bisogno affettivo è rimosso in virtù di una personalità autarchica, chiusa in se stessa, regolata da abitudini e ritmi personali e ogni qual volta la possibilità di amare si apre un varco nella rigida armatura difensiva sorge dal fondo dell’animo in taluni una malinconia profonda, in altri una rabbia cieca e devastante, in altri ancora una fredda razionalità che vede nell’oggetto amato (nella persona che ha penetrato il cuore) solo vizi e difetti e nella nuova opportunità una fonte incessante di dubbi e preoccupazioni. A questo punto, l’indifferente può diventare – con l’incertezza, il disprezzo o il sadismo – un persecutore di colui/colei che ha osato turbare il suo equilibrio.

Ecco come lo descrive lo psicoanalista Otto Kernberg:

“In circostanze patologiche, come la patologia narcisistica grave, lo smantellamento del mondo interno di relazioni oggettuali può portare all’incapacità di desiderio erotico, accompagnata da una diffusa, non selettiva e perpetuamente insoddisfatta manifestazione casuale di eccitazione sessuale, o perfino dalla mancanza di una capacità di eccitazione sessuale.”

L’incapace di amare talvolta si tormenta per ciò che è divenuto; talaltra invece se ne fa un vanto, perché la sua resistenza alla lusinga è – secondo lui – una superiore prova di forza; infine, altre volte ancora vive in una razionalità così astratta da non accorgersi nemmeno della solitudine dell’anima e della aridità del cuore che ha generato dentro di sé.

Intuibile che la patologia narcisistica cui fa riferimento Kernberg ha almeno due possibili sviluppi: uno sul versante ossessivo coincide con l’uomo – o la donna – che vive in un suo ordine solitario, rigido ed efficiente e più o meno relazionato (l’incapace di amare può essere un single, ma anche un uomo o una donna che vive in famiglia, ma che non degna più il partner delle proprie attenzioni giudicando la sessualità e l’amore delle inutili e scomode perdite di tempo o attività noiose, prive di senso o vagamente disgustose); l’altra è sul versante dell’isteria, dove l’incapace di amare oltre a ostentare indifferenza, può talvolta intrappolare i suoi partner in tormentose dinamiche nelle quali ora avvengono inattese fusioni sentimentali, spesso accompagnate da appassionate manifestazioni di tenerezze, cui seguono repentini distacchi, un fare freddo e scostante, talvolta contrassegnato dal disprezzo.

Chi vive in questa strana condizione esistenziale è qualcuno che ha individuato nell’amore la maggior fonte di sofferenza umana o, per via di traumi subiti, della sua personale sofferenza e ha deciso di non soffrire mai più. Talvolta è stato un bambino deprivato di amore in età nelle quali poteva avvertirne la mancanza e perciò soffrirne, oppure un bambino o un adolescente intenzionalmente trascurato, non amato o anche trattenuto in un rapporto ora seduttivo ora rifiutante. Altre volte, cresciuto fiducioso, è andato incontro a lunghe sofferenze sentimentali in età adulta. Altre ancora, illuso di poter realizzare nel mondo scopi di ordine superiore e deluso in profondità in questa aspettativa, rinuncia alla vita e fa pagare all’innamorato/a il prezzo di questa catastrofica delusione.

In termini più generali, egli ha smesso di credere nell’affidabilità degli esseri umani e nella capacità retributiva e restaurativa della fiducia e dell’amore. In modo più o meno consapevole, ha abbracciato l’ideologia anestetica contemporanea, intesa a far sentire forte, superiore, colui che relega la passione nell’altro, riservando per sé il ruolo del bell’indifferente, dello spassionato razionale, dello sprezzatore dell’umana vulnerabilità.

La mia esperienza umana e clinica mi suggerisce che questa condizione esistenziale va sempre più costituendo il “doppio speculare” della soggettività contemporanea. Per un verso animata da innumerevoli e frenetici desideri, l’umanità attuale va per altro verso elaborando una strategia di difesa per la quale ogni desiderio – ma soprattutto i bisogni relazionali – sono trappole da evitare.

Esce da questa patologia – invisibile in un mondo che la invidia e la favorisce – solo chi vuole uscirne e accetta l’idea che coraggioso non è chi reprime il desiderio, ma colui che accetta il rischio esistenziale di vivere fino in fondo le qualità specifiche della natura umana, fra le quali fa spicco proprio quella capacità di immedesimarsi, fondersi ed amare da cui l’anoressico sentimentale rifugge con disgusto e con paura.

Dott. Nicola Ghezzani

Psicologo, Psicoterapeuta

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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