DELL’AMORE

Quando finisce un amore o quando un legame viene reciso, la prima vera domanda che ci balena nella mente, quando la delusione non è più fresca è: ma sarà stato amore? Ma l’amore esiste?
Io me lo sono chiesto e la terza domanda che mi sono posta è stata: che cos’è l’amore per me? Ho dovuto analizzare, non solo cosa ne sapevo io, ma che cosa ne pensano le figure importanti della mia famiglia, quello che volontariamente o involontariamente mi hanno insegnato cosa fosse. 
Sono nata in una generazione (tra il 1960 e il 1970) che è stata la prima a dover vivere la perdita di quelle certezze sui ruoli maschile e femminile. La rivoluzione femminile del 1968, che ci aveva preceduto, aveva seminato un po’ alla rinfusa, i principi per porre la donna all’interno della società civile, come destinataria di pari diritti; una dimensione della donna, che la ponesse, non più come compagna di qualcuno, madre di qualcuno, ma soggetto capace di autodeterminarsi Non più qualificate come “femmine” (quasi ad indicarne una possibile mancanza) della specie, ma persone, impedendo così alla connotazione sessuale di discriminarci, così come era da sempre accaduto. 
La vera lotta sulla parità sessuale e sull’integrazione sociale della donna è iniziata sul campo, nella vita vera, con le nostre vite. Abbiamo vissuto da figlie, i drammi dei primi divorzi; abbiamo sopportato il tentativo di marchiarci come “poco serie” (per dire poco) solo perché facevamo sesso con i nostri coetanei e non lo nascondevamo. Siamo cresciute sotto due spinte controverse: da una parte essere le brave ragazze che mamma e papà, l’oratorio e la società volevano fossimo (basterebbe dare un’occhiata alla pubblicità degli anni 80); dall’altra donne che riscattassero le proprie madri con lo studio e il lavoro, per dimostrare al mondo di poter pretendere secondo i nostri desideri, donne che non vogliono essere scelte, ma scegliere. 
E abbiamo provato ad essere tutto: donne secondo la nostra natura e maschi secondo la volontà del costume che cambiava. Ma non si possono cambiare le regole del gioco delle relazioni, soltanto per un solo fronte, tutti e due i fronti dovrebbero cambiare armoniosamente. 
I nostri coetanei maschi sono usciti sviliti da questa lotta e in fondo, rimpiangono i benefici dei loro padri. Sono cambiati nella superficie, ma non nella sostanza. Hanno saputo però, sfruttare al meglio il cambiamento, alimentando la competizione e la mancanza di solidarietà delle donne. Le nostre nuove sicurezze e la nostra forza, li hanno fatti sentire inadeguati, e in larga parte autorizzati a esonerarsi di ogni responsabilità affettiva. Nel bene e nel male la mia generazione di donne ha racchiuso in sé ogni ordine di eccessi.

Attorno a me sento gente d’ogni sesso, affermare di cercare l’amore. Mi sono andata a cercare libri, riviste, definizioni psicologiche e poetiche su questo sentimento, a cui ognuno dà una connotazione: vaga, personale, evanescente, clinica. La prima risposta che mi sono data è che non esiste un solo tipo di amore, ve ne sono un infinità e che ad ogni particolare tipo corrisponde una motivazione. Quindi per deduzione se voglio trovare “amore”, la prima cosa che devo chiedermi è: perché? Mi spiego meglio, lo voglio: per combattere la solitudine? Per formare una famiglia? Per farmi sorreggere nei momenti di crisi? Per cambiare la mia vita? Per sentirmi protetta e rassicurata? Riuscire a darsi una risposta secondo me, già vuol dire aver preso coscienza di un bisogno urgente e inderogabile di noi stessi. Ma purtroppo non è così facile rispondere. Qualcuno di voi dirà che è per tutti i motivi suesposti, ma è davvero così? 
A venti anni quando mi sono innamorata per la prima volta, io non avevo nessuna voglia di pensare di farmi una famiglia, né di pensare che il ragazzo di cui ero innamorata fosse il mio compagno per la vita. Non ci volevo pensare, avevo altre urgenze. Quando durava da un po’ di anni sono stati gli altri a costringermi a pensarci anche se poi non mi aiutavano a chiarirmi. Il messaggio inconscio era: il tempo di percorrenza rispondeva dell’affidabilità del rapporto. Ma non mi bastava; tanto è che ad un certo punto cercai in ogni modo di ottenere cose che chiaramente l’altro non era pronto a darmi, non mi aveva scelto con quell’intento. L’intento a venti anni era di vivere l’emozione, accompagnarsi con qualcuno che ci renda più facile crescere, che ci metta al riparo dalla vita, dalle delusioni. Inconsapevolmente, ci eravamo scelti per questo entrambi. E qui ho scoperto un’altra cosa, la reciprocità. Non è possibile provare alcunché per chi non sente altrettanto per noi, l’altro o noi possiamo non esserne consapevoli o non accettarlo (e a meno che non si tratti di un sentimento malato, nato nei sogni e lontano dal nostro mondo) e quindi decidere di non vederlo o di non corrisponderlo; ma la corrente dell’energia e le sensazioni sono reciproche tra le persone. 
Rispondere anche ad una sola domanda sul perché si voglia l’amore, non è facile, vi è la necessità di avere un buon rapporto con se stessi, saper tirar fuori anche quello che teniamo nascosto a noi stessi. 
Nella vita pratica le domande avvengono nell’inconscio e noi facciamo le scelte che solo più tardi ci spiegheremo (sempre che lo vogliamo). 
Ecco perché, anche come ci è stato insegnato ad amare, è molto importante e la dice lunga su ciò che ci aspettiamo da questo sentimento. Spesso ciò che cerchiamo è un sentimento rassicurante che ci ricordi l’affetto esclusivo della madre o meritorio del padre. Ed è anche per questo che la nostra storia affettiva d’origine ha molta importanza e spiega il nostro modo di amare e di essere amati. Le instabilità affettive hanno origine dal modo in cui abbiamo digerito più o meno il modo in cui siamo stati amati nell’infanzia. Se ci siamo sentiti amati e se abbiamo accettato il modus amandi dei nostri genitori, sapremo trovare il nostro modo per amare e sentirci amati.

Un altro fattore di incidenza è la storia socio-culturale della società occidentale. Fino a tutto l’ottocento e inizi novecento, l’amore è sempre stato considerato un fattore impeditivo di una relazione stabile; considerato alla stregua di una momentanea debolezza, una passione che distrugge, più che costruire. L’amore (in qualunque accezione fosse inteso) non era essenziale, la cosa essenziale era la stabilità economica e la morale e le unioni erano decise in base alla convenienza e a un minimo di conoscenza. 
Ancora oggi, nonostante spesso ci illudiamo di costruire delle unioni sull’amore, spesso sono unioni di “convenienza” nel senso che entrambi i partner convengono che la persona che scelgono è il male minore oppure, si sceglie secondo l’istinto del momento, la passione. Tendiamo cioè a dare spazio: o alla razionalità o all’emotività; praticamente è come dividere la nostra anima o mente a metà, perché ragione e sentimento non dovrebbero essere in antitesi ma coniugarsi tra loro per avere un equilibrio psichico. 
Generalizzando, se chiediamo ad uomini e donne che cos’è l’amore risponderanno: la passione che stravolge la vita ed i sensi, facendo fare quelle scelte che razionalmente non si compierebbero; oppure il sentimento, la concretezza, l’affidabilità, la tenerezza, la stima. Praticamente non vi è una sostanziale differenza tra la componente maschile e femminile, la vera differenza sono i fattori psicologici, le conditio personali del pregresso affettivo che fanno prediligere la scelta razionale piuttosto che quella emozionale. 
L’unica vera differenza tra uomini e donne, a parte l’aspetto fisiologico, è la comunicazione: le donne utilizzano e sfruttano l’analisi; gli uomini utilizzano la sintesi. Tenere presente questa differenza significa poter comunicare con l’altro sesso in un linguaggio che gli sia comprensibile. Ad es. se devo comunicare con un uomo e sono una donna: devo imparare a parlare con lui in modo sintetico e chiaro, senza utilizzare sottintesi e senza aspettarmi che lui capisca quello che io non dico esplicitamente, anzi sforzarmi di essere esplicita; se sono un uomo devo prevenire i retro-pensieri che assillano una donna, chiarendo che se sto affermando qualcosa non gli sto dando connotazioni diverse da quelle che appaiono, cercando di spiegarsi in modo chiaro ed efficace. Dovremmo sempre metterci nei panni dell’altro. 
Ora che sento di sapere un po’ più di cose sull’amore in generale, la domanda è: ma quando l’incontrerò? In ogni momento si può incontrare qualcuno che potrebbe essere vicino a noi per esperienze, affinità e fisicamente compatibile, ma spesso siamo noi che non siamo pronti a donare noi stessi in una relazione. 
Nella mia esperienza personale, posso dire che capita più spesso di quanto non ci sembri, di incontrare chi potrebbe essere il partner giusto per noi, ma siamo così obnubilati dalle paure e dai condizionamenti che spesso non riusciamo a vederlo. 
Nella vita di una persona ci sono diversi tipi di condizionamenti: quelli legati all’infanzia, al clima affettivo familiare; quelli dovuti ad esperienze di fallimento affettivo dell’età adulta. Tanto più grande è stata la non accettazione di qualcosa che ci è stato negato o che abbiamo perso, tanto più facciamo fatica a lasciarci andare ad un nuovo amore. 
Non riusciamo a prenderci il tempo per digerire qualcosa che ci ha fatto male, l’io non riesce ad essere obiettivo (né con il passato né con il presente) quindi, invece di imparare dall’esperienza, tendiamo a sostituire, così come facciamo con le cose materiali e ad accumulare il dolore da qualche parte nell’inconscio. E spesso facciamo pagare a chi si mette sulla nostra strada il dolore che ci portiamo dietro. 
Interrompere questa catena di sofferenza è, secondo me, il primo passo verso un chiarimento in se stessi.

La conclusione a cui sono arrivata è che nessuno può rispondere su che cosa sia l’amore, senza dare una propria intima opinione acclarata dalla propria esperienza. 
Non esiste una definizione obiettiva dell’amore, così come di ogni altro sentimento, qualcuno in un aforisma diceva:

“L’amore chiede solo di essere sentito e amato”.

Ognuno sente e prova secondo la propria capacità e predisposizione, anche se questa capacità è chiaro che può e dovrebbe essere alimentata. Perciò nessuno è in grado di stabilire se ciò che per me è valido può esserlo anche per un altro, l’importante è, secondo me, che l’amore (per qualunque persona lo proviamo e per qualsiasi motivazione personale) sia accrescimento e non diminuzione: capacità di donare per la gioia che il dono ha in sé e non per ciò che vorremmo e capacità di saper accettare-ricevere il tipo d’amore che ci viene reciprocamente donato.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

L’ESPERIENZA PSICOCORPOREA

Encuentro en una noche de verano (Incontro in una notte d’estate)

 

1 – Un po’ di teoria
Qualcuno, leggendo quest’articolo penserà “Pietro s’è bevuto il cervello!”
Non importa. Oggi si parla tanto di far moto, di andare in palestra, di tecniche di rilassamento psico-corporee.
Ebbene, il ballo racchiude in sé tutto quel che serve per socializzare, per recuperare un rapporto sano e sereno con la propria fisicità e quella altrui, per esprimere la propria creatività, per superare la timidezza, unendo l’utile al dilettevole, cullati dalla magia del ballo e della musica.
Parlo di ballo e non di “Dance-Therapy” o cose simili, perchè ritengo quantomeno assurdo il tentativo di ridurre qualcosa di grande e sconfinato, quali sono la musica e le altre espressioni artistiche, a “terapia”, ad un qualcosa di puramente “tecnico” (lo stesso vale per le religioni o filosofie religiose, dalle quali vengono estrapolate e commercializzate “meditazioni e tecniche antistress” dai nomi esotici ed ammiccanti…).
Sembra che, finiti i tempi dei balli “da soli”, si stia riscoperto il piacere del contatto fisico con l’altro. E tornano i balli più sensuali. Ballare in coppia è un modo divertente per imparare a stare insieme: aiuta a riscoprirsi, fa ritrovare il piacere di sfiorarsi in una seduzione esplicita, ma codificata… Salsa, merengue e tango: sono questi i balli che oggi coinvolgono sempre più persone, senza limiti di età. I loro meriti? Servono a mantenersi in forma, senza palestra, e hanno un’ottima funzione antistress.
Più adatti agli spiriti solari ed estroversi la salsa e il merengue, di origine caraibica, conservano nella musica la vitalità del mare, del sole e dei profumi tropicali.
Entrambi hanno ritmi facili, passi regolari, ed offrono spazio all’improvvisazione nonché un senso gioioso dell’esistenza e dell’amore.Avere già un compagno, o una compagna, non è fondamentale, lo/la si può trovare senza fatica nelle sale o nelle scuole di ballo.
Il tango argentino in particolare, si addice invece agli animi romantici e introversi: viene definito “una conversazione senza parole assai profonda” o “un ballo che, più che un ballo è un modo di intendere e vivere la vita”. Nel tango servono meno doti atletiche rispetto alle danze caraibiche, ma è necessaria una grande partecipazione emotiva alla musica ed un buon equilibrio, per eseguire senza fatica le diverse figure.
Sta poi alla sensibilità degli interpreti variare la successione dei passi e inserire ad arte incroci di gambe: ciò richiede applicazione, disciplina ed una buona conoscenza dei propri compagni o compagne di ballo. Solo così si può esprimerne la passionalità e bellezza estetica.
Il cuore pulsa più forte? Viene il fiatone? La testa gira? Potrà succedere le prime volte (ed è del tutto normale, in qualsiasi esercizio fisico), poi passa. Ma ne vale la pena!
E, parlando di ballo di coppia, è inutile ignorarne aspetti quali l’istintualità, la sensualità, la passionalità, il piacere del contatto fisico. Aspetti associati in genere, nella nostra cultura, ad una concezione egoistica, trasgressiva, talvolta addirittura peccaminosa, della vita, ignorandone o stravolgendone, del tutto o in parte, il significato e la semantica (lo studio teorico e storico del significato).
“Un altruismo che non passi per la felicità del corpo-proprio, per la pienezza del suo piacere, è immorale” e ancora “la gioia è il progetto biologico intrinseco all’intera storia dell’umanità: e il corpo, dotato della capacità di godere, ne è la prova più perfetta.” (N.Ghezzani, Volersi male, pag. 136-137).
In tanti anni di DAP e di impegno alla Lidap, ho maturato la convinzione che ogni percorso di apprendimento di modalità comunicative intrapersonali ed interpersonali più autentiche e, quindi, sane (mi riferisco anche ai gruppi di auto-mutuo aiuto), per essere veramente efficace non può scindere l’aspetto verbale da quello gestuale-affettivo e nemmeno privilegiare il primo a discapito del secondo, perché noi esseri umani ci esprimiamo ed interagiamo verbalmente, per circa un 30%, e gestualmente, per un 60%.
Riscoprire la nostra fisicità significa riscoprire il piacere di un abbraccio, di una carezza, di un bacio, di una coccola, del “sentire l’altro”, insomma. L’abbracciare e l’essere abbracciati equivale ad “accogliere” e ad “essere accolti”, a “riconoscere, accettare l’altro” e ad “essere riconosciuti, accettati dall’altro” per quello che siamo.
Il piacere corporeo è un che di genetico, del tutto naturale, quanto l’istintualità, la sensualità e la passionalità: caratteristiche umane che non è detto debbano prescindere dall’essere coscienti – e perciò responsabili – della nostra vita emotiva e morale.
Ciononostante tendiamo, più o meno velatamente, ad evitare il piacere (del corpo-proprio) e la sensazione gradevole e gioiosa che ne deriva. Forse, o senza forse, il solo pensiero di far emergere i nostri sentimenti, emozioni ed aspirazioni/desideri più profondi, di metterci a nudo, di mostrarci per quel che siamo, ci turba e ci spaventa. Imbottiti come siamo di condizionamenti sociali, culturali, di tabù, di valori imprescindibili (o pseudo-valori perbenistici?) che mascherano un nostro bisogno di esercitare controllo e possesso sull’altro, e di un bisogno estremo di sicurezza costi quel che costi, ci sentiamo “protetti” dagli schemi, dagli stereotipi, dall’abitudinarietà e, talora e paradossalmente, anche dal malessere e/o dal disagio e sintomi che inevitabilmente ne scaturiscono.
E’ vero che, in alcuni casi, le resistenze ad una comunicazione gestuale più sana e libera possono essere alimentate da vissuti oggettivamente traumatici o dolorosi (es.: una persona vittima di molestie o violenze sessuali), è vero che “il piacere non ha memoria, il dolore invece sì”, è altrettanto vero che non esistono motivi validi per vittimizzarci, soffocando parti/aspetti importanti della nostra natura e del nostro interagire umano che possono reindirizzarci verso una vita più gioiosa e piena.
Esiste poi il timore d’essere o di sentirci disapprovati o giudicati “trasgressivi” da chi ci circonda. Trasgressivi, solo perché riscopriamo in noi il piacere di comunicare/interagire con persone dell’altro sesso, ballando, sedendoci al tavolino di un bar a bere un caffè, o girando a braccetto con loro?
Beh, se questa è trasgressione, il codice morale sociale attuale andrebbe rivisto e modificato sotto molti aspetti perché qualunque espressione edonica (correlata al piacere di qualsiasi tipo: il dipingere, il fare footing, ecc.) riappropriata in funzione del nostro Sé, viene avvertita di per se stessa come trasgressiva.
Ricordo la proibizione del ballo, in auge 30/40 anni fa, da parte delle autorità religiose, ma non solo da quelle: erano molte le ragazze accompagnate a ballare, e sorvegliate a vista, da genitori, zii e fratelli, indipendentemente dal fatto che le famiglie fossero “credenti e praticanti”); ricordo, altrettanto bene, che la proibizione non valeva, ad esempio, per la danza classica (che non è mai stata priva di contatto fisico).
La proibizione poi era più rigida, e lo è ancora, quando il ballo era “al di fuori della coppia, del matrimonio”, in virtù di un’ipervalorizzazione del “legame” (leggi: dell’essere legati). Il leit-motiv erano, e sono, le solite frasi “la carne è debole”, “la paglia vicino al fuoco brucia” ecc., ecc..

2 – La gelosia
Sempre in tema, a questo punto, riterrei onesto ed obiettivo, onde non scaricare ingiustamente ogni colpa sulla cultura religiosa, aprire una parentesi sulla “gelosia”.
“Amor vuol dir gelosia…” è il refrain di una vecchia canzone. In effetti è difficile non esser gelosi di qualcuno e/o di qualcosa, specie se quel qualcuno o qualcosa ci attraggono o costituiscono motivo di vita per noi. Ma la gelosia, in quanto passione, e non emozione, presenta molte sfumature e può trasformarsi in qualcosa di soffocante e distruttivo, dai risvolti imprevedibili, che nulla ha a che vedere con l’amore.

  1. la gelosia da possessoindividua nell’altro una nostra necessità personale a cui non vogliamo rinunciare, quindi l’altro non deve crescere, perché il crescere realizza la possibilità di diventare “libero”. Rende incapaci di accettare e sopportare la libertà dell’altro, di perderlo, di esserne abbandonati (le canzonette di qualche tempo fa eran farcite di “Io son tuo” e “tu sei mia”). Un’estremizzazione della gelosia da possesso può degenerare, anzi pare degeneri sempre più di frequente, in caso d’abbandono, in quelle forme delittuose che potrebbero esser riassunte in “ti amo, quindi ti distruggo o, peggio ancora, t’uccido t’uccido!”.
  2. la gelosia da pregiudizio(o gelosia ideologica). E’ una gelosia che nasce dal presupposto ideologico che la relazione è un valore, l’individualità un disvalore o addirittura una colpa. Quindi chi sin muove da solo (con altri) sbaglia.
  3. la gelosia fobica: il geloso proietta sull’altro l’avvento di una libertà di cui ha paura. Quindi la reprime non solo in se stesso ma anche nell’altro (reprime la libertà ipotetica di poter vivere emozioni nuove, del tutto sconosciute).4 – Trasgressione?
    Di anni ne son passati, son cambiate tante cose, ma la visione/lettura/percezione del piacere psico-corporeo e della “trasgressione” sono tuttora confusi, distorti, e generano sensi di colpa (nelle persone più sensibili, in genere).
    I limiti posti da questa nostra società schizofrenica (in parte “moralista/sessuofobica”, in parte “neoliberista”) alla comunicazione ed alla crescita/maturazione/espressione del nostro Sé sono tanti. In parte, legati allo “status” individuale: da bambini dovremmo adattarci ad un determinato cliché, da adolescenti, ad un altro, da adulti, ad altri ancora, a seconda dei casi: se siamo fidanzati, celibi, nubili, coniugati, con alcune variabili, tra le quali, l’età e lo status sociale (economico). Un esempio: due persone anziane che si baciano sulla panchina di un parco potrebbero essere visti come “trasgressivi”, da gran parte dei passanti (qualcuno potrebbe storcere il naso o addirittura apostrofarli malamente… i più sensibili proverebbero un senso di tenerezza); non farebbe certo scalpore ed il termine “trasgressione” acquisirebbe un significato più morbido, se a baciarsi su quella stessa panchina, ci fossero un’industriale o un divo dello spettacolo, pur 60/70enne, e la sua compagna o moglie “di turno”. Ma tant’è…
    Se desiderate approfondire queste problematiche e ricavarne spunti utili, vi invito a leggere attentamente le pagine di questo sito ed i libri di Nicola Ghezzani (ci terrei a sottolineare che la mia non è una sorta di “P&P”, Pubblicità e Progresso, fine a se stessa: apprezzo e condivido il pensiero di Ghezzani perché ne ho sperimentato personalmente l’efficacia pratica).5 – E veniamo alla pratica
    Ora vorrei riportare un’esperienza personale recente. Un’esperienza “trasgressiva” (10 giorni al mare, senza moglie, ospite di un amico). Un’esperienza trasgressiva “soft”, comunque sana, espressione di una mia ribellione personale a certi schemi prefissati di carattere sociale.
    Lo scorso luglio, nella consueta passeggiata del dopocena, a Marina di Massa, in compagnia di un amico, eravamo sulla strada che costeggia il Parco Olivetti. Attraverso la recinzione, s’intravedevano, qui e là nei vialetti e nei prati, tra il via vai di persone, molti coniglietti, quelli piccoli, alcuni seduti tranquillamente, altri, invece, si muovevano goffi a brucare erba e foglioline. Dal porticato, al centro del parco, s’udiva musica di fisarmonica. Giunti al cancello d’entrata, c’eravamo fermati a leggere le locandine e manifesti appiccicati ad una grossa bacheca, curiosi di sapere se c’era una festa da ballo o cos’altro. “Ogni lunedì e mercoledì, alle 21,30, lezioni di tango”.
    Era un mercoledì ed erano circa le 22. “Entriamo a vedere?”, dico. Il mio amico, di qualche anno più anziano di me, pare un po’ restio, e sì che è appassionato di liscio!… Mi riferirà, più tardi, della sua scarsa propensione “a giocare (ballare) fuori casa”: preferisce le nostre feste paesane, dove ci si conosce tutti. Lui è in pantaloni lunghi, camicia e scarpe; io, in pantaloncini corti, maglietta e sandali. Entriamo nel piccolo bar, posto in una sorta di corridoio che immette sotto una tettoia. Ordiniamo un caffè. Ci sono alcune persone lì in piedi, accanto a noi, perlopiù donne, tutte eleganti in abito scuro, alcune carine. Tutte quante hanno, comunque, un portamento gradevole. Non occorre molto intuito: sono allieve o ballerine della “scuola”. Non m’è difficile chieder loro: “Scusate… è qui la lezione di tango?”. “Sì, è qui”, mi rispondono gentilmente. Mi sento un po’ goffo, vuoi per i miei 55 anni, vuoi per il po’ di pancetta che ho messo su. Eppoi non sono proprio in tenuta da ballo… Accenno, tuttavia, un “ma è possibile partecipare alla lezione?”. “Sì, certo! Perché no?”, rispondono sempre gentilmente. Il ghiaccio è rotto. Mi presento a due di loro, Rosalia e Nenè: “Ma… mi fate ballare anche se ho i sandali e i pantaloni corti?”. “Questo proprio no! Puoi andarti a cambiare, ti aspettiamo”, esclamano con un fare sorridente, leggermente ironico. A loro s’aggiunge il mio amico, seduto comodo al tavolino: “Eddai Pietro, e che ti ci vuole? Son due passi. Tutte queste donne son qui per te!…” M’avesse detto una frase del genere, qualche anno prima, timido com’ero, sarei sprofondato nel pavimento della pista da ballo, per l’imbarazzo. “Due passi, un corno!”, gli avrei risposto “Tra andata e ritorno c’è minimo un chilometro… e dimmi: quali sono le donne-qui-per-me?”. E’ caldo, sono sudato, sento la pelle appiccicosa.
    Arrivo all’appartamento, ancor più sudato, faccio una bella doccia e mi cambio. Scendo le scale e mi riavvio verso il parco. Non è che ami granché camminare, e penso tra me “Va a finire che arrivo là sudato fradicio più di prima!”.
    Sono quasi le 23. Allungo il passo ed arrivo che stan già ballando. Mi siedo un po’ a riprender fiato ed osservo. “Caspita, come ballano bene!!!”. E’ un piacere, una delizia, guardarli. Non sembrano per niente “dilettanti”. Le donne, poi, sfoggiano una grazia, una naturalezza, flessuosità e sinuosità, uniche, nei loro movimenti, nell’incrociare le gambe, nell’inclinare il loro corpo, lasciandosi trascinare. Senza falsa modestia, penso “E’ molto meglio che me ne stia qui seduto, bello calmo, o ci rimedio una figuraccia! E poi, quelle lì, belle e brave come sono, non perdono certo il loro tempo a ballare con me!…”.
    Prima che quel brano finisca, mi s’avvicina Hèctor, il loro insegnante. E’ un ragazzo argentino, scuro di capelli, la pelle olivastra, alto come me ma con un fisico asciutto da ballerino di danza classica. Mi dice “Ei Pietro, m’han detto che sei venuto qui per imparare a ballare. Seguimi!”
    La cosa mi stupisce non poco. “Chi gliel’avrà mai detto che mi chiamo Pietro e che sono venuto qui per ballare?”. Mi colpisce la sua cordialità inusuale. Scambiamo due parole, io mi sento titubante, anzi, per dirla tutta, avverto tensione, tremo…
    “Sei il benvenuto, il nostro è un gruppo di amici, aperto a tutti. Ti vedo un po’ teso, rilassati.”, “Hèctor, sai com’é… io ballo da molto tempo ma non il tango argentino… mi sentirei goffo, ridicolo… non mi va di farvi perdere tempo. Dai, ballate voi!”.
    Mi ripete: “Rilassati e non farti problemi, OK? Qui siamo tutti amici, un gruppo. Vedi, ci sono donne di tutte le età, e nessuna di loro se la tira. Adesso t’insegniamo i passi fondamentali, “la salida” (la camminata, l’ocho, e la chiusura)”. E fa un cenno a Laura, una bella ragazza mora di 24 anni, alta una spanna più di me. “Oddiooo! Qui sbiello!”. La tensione e l’imbarazzo aumentano. Hèctor segue i miei movimenti, attento e paziente, mi corregge una volta, due, tre… “Sei troppo teso, ansioso. Rilassati!”. E’ una parola, rilassarsi! Ci provo.
    Il brano finisce e ne inizia un altro. “Non scappare, Pietro! Adesso ti faccio provare con Maria”. Con Maria, mi trovo leggermente meglio, le esprimo il mio imbarazzo, mi risponde sorridente: “Eddai Pietro, non si nasce maestri, vedrai che, col tempo, impari!” . Continuo a sbagliare qualche passo, sono passi semplici, ma… Hèctor interviene ancora col “Rilassati, Pietro!” ed aggiunge: “Vieni qui, ti insegno io”. Non ho problemi a ballare con lui. Mi spiega che, nel tango, è l’uomo che deve comandare e guidare la donna. Sto il più attento possibile. Arriva Maddalena, una bella ragazza giovane, bionda. E’ simpatica e cordiale quanto Maria e Laura. Con Maddalena, e grazie a lei, riesco finalmente ad ingranare un po’ di più con quei primi passi. Arrivo a fine tango, soddisfatto. Sorrido io e sorride Maddalena. E’ solo l’inizio ed è la prima volta che son lì a cimentarmi col tango argentino.
    Hèctor non mi dà tregua: mi fa ballare con Rosalia, con Marta, con Nenè, con Angela. Sette balli con sette donne diverse. Incredibile! Tra un tango e l’altro, ho modo di scambiare due chiacchiere (si fa per dire) con Romeo, Alberto, Andrea. C’è anche Paolo, abbastanza indaffarato.
    La lezione finisce all’una di notte. Il mio amico se n’è andato da un bel pezzo. Non ha ballato. M’aveva detto “Ciao Pietro, io ho sonno, vado a casa. Tu stai pure lì.”.
    Saluto tutti e tutte e m’avvio a casa, fischiettando come un merlo. Giunto a casa, m’accorgo d’esser senza sigarette. Prendo la bici e raggiungo un distributore automatico in via Roma. Pedalo, tranquillo ed euforico. E’ bello assaporare l’aria fresca, sentirsi liberi. Non c’è un anima viva in giro, tutti bar sono chiusi e le insegne dei negozi, spente… Non avverto sintomi né sensi di colpa.
    Torno “a lezione” il lunedì successivo. Hèctor & Company stanno preparando uno spettacolo. Mi salutano. Mi siedo ed assisto alle loro prove. Non è per nulla noioso, anzi. Hèctor è piuttosto indaffarato ad osservare e sistemare scrupolosamente i dettagli (l’entrata in scena di ogni coppia, la loro collocazione, il saluto finale, gli inchini, ecc.). Si siede non lontano da me, a dare istruzioni alle coppie. D’un tratto, lo vedo alzarsi e venire da me: “Pietro scusami, prima t’ho salutato un po’ di fretta. Non vorrei che ti fossi offeso…”. “Ma figurati Hèctor!”. In pista, c’è una coppia che, mercoledì scorso non c’era: Enzo e Nadia. Bravi e molto affiatati (non ci vuol molto a capire che ballano insieme da tempo).
    Arriva mezzanotte e mezzo, le prove finiscono. Mi alzo per salutare per poi andarmene a casa. “Il nostro amico Pietro è stato seduto fino adesso, a guardarci… C’è qualcuna di voi disposta a fargli ripassare la “salida”?”. E’ ancora lui: diavolo d’un Hèctor!… La sorpresa è stata tale che non ricordo nemmeno quale delle ragazze m’era venuta incontro: erano comunque più di due.
    M’occorrerebbero pagine per descrivere lo spettacolo che hanno tenuto il mercoledì sera successivo nella piazza di Ronchi. Gli spettatori erano tanti (200 o più) ed attenti, e lo spettacolo, uno dei più coinvolgenti cui mi sia capitato di assistere (non inferiore, qualitativamente, a quelli trasmessi in TV). Tango argentino, flamenco, fandango.
    Il coreografo di tutti i balli, nonché interprete, è lui: Hèctor. Finito il tutto, alcuni della compagnia m’invitano a tavola con loro, a festeggiare il compleanno di Alberto. “No, grazie. Vi siete mostrati sin troppo gentili e non voglio abusarne.”. Qualcuno s’offre di accompagnarmi in auto. Rispondo ancora “No, grazie” e m’incammino verso l’auto, verso il posto in cui l’aveva parcheggiata il mio amico. Non la trovo e non trovo nemmeno lui. Giro per almeno mezzora nella piazza. Provo a chiamarlo tre, quattro, cinque volte, sul cellulare. Niente da fare, è sempre spento. Mi dispiace di averlo perso di vista a fine spettacolo, lasciandomi prendere dalla foga del momento: so che mi conosce bene, ma… Dai Ronchi a casa, c’è più d’un chilometro: un’occasione per un’altra passeggiata notturna.
    La morale della favola non è il “tutti a tavola” dello slogan pubblicitario. Non tutti amano il ballo né sono obbligati a ballare per star bene.
    Quest’esperienza estiva, unica nel suo genere, che spero abbia un seguito, è stata per me una riconferma in più di alcuni principi, che ho appreso in 10 anni di volontariato allaLidap Onlus (nella quale opero tuttora) e di frequenza ai gruppi di auto-mutuo aiuto Lidap, che ho cercato di far miei e di tradurre in pratica quotidiana: la disponibilità ad aprirmi, a comunicare, a chiedere, ad imparare, a non limitarmi ad osservare bensì ad entrare in gioco, nella mischia (quand’è possibile, ovvio). Senza falsa modestia e, men che meno, autoglorificazione (a chi e a cosa servirebbe?), posso affermare che “qualcosa, anzi molto, è cambiato” nella mia vita.
    Per concludere, tango, altri balli o meno, non possiamo non interrogarci sul perché, paradossalmente, in questa nostra società moderna “più libera” nei costumi (forse solo in apparenza?) permanga, anzi vada aumentando, proprio la paura/fobia del contatto fisico e della comunicazione affettivo-gestuale tra persone di sesso opposto. L’infoltirsi crescente di persone, di età giovane, alla ricerca di rapporti interpersonali virtuali, a distanza, parebbe sostenere tale ipotesi. Che dire, poi, della crescente carenza di parole e coccole anche in ambito familiare? Ci vergogniamo di manifestare i nostri bisogni originari più autentici, quasi fossero cose obsolete, “da bambini”?


Pietro Adorni

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

CERCHIAMO DI CAPIRCI, CERCHIAMO DI PIACERCI

Si tratta di due cose non facili ma veramente molto importanti. Chi vi scrive è un medico specialista in malattie allergiche e respiratorie, diplomato in medicina psicosomatica ed in psicografologia nonché counselor rogersiano ma è soprattutto una persona che studia da 25 anni le reazioni del nostro corpo e della nostra psiche a tutto gli eventi che capitano… e che non capitano.
Come molti di voi forse già sapranno, il nostro corpo ci parla. Continuamente.
Se ad esempio la pressione si alza vuol dire che forse siamo arrabbiati per qualcosa o più specificamente, se è la pressione minima che si alza, che probabilmente siamo “compressi” da qualche cosa (che può anche essere un pensiero, una paura, una mancanza , anche una rabbia per qualcosa che appunto non abbiamo fatto).
Se si riacutizza la gastrite o peggio ancora l’ulcera potrebbe darsi che siamo costretti a “sorbirci” una situazione (o una compagnia, o un lavoro) che non ci piace, e cioè, simbolicamente, un “nutrimento” che ci fa male , ci irrita, che intimamente e profondamente vorremmo evitare o magari sostituire con qualche altra “pietanza” più consona ai nostri gusti.
A questo proposito mi capita sempre più spesso di vedere persone che in maniera conscia (quindi con la mente e con la verbalizzazione) oppure in maniera inconscia (quindi con il corpo e con segni e sintomi vari) esprimono il loro disagio ed il loro malessere perché vorrebbero accoppiarsi, incontrare una persona con cui condividere qualcosa.
Vi posso dire che molti sintomi e addirittura molte malattie sono campanelli d’allarme del nostro organismo che chiede qualcosa di più dalla nostra vita , che desidera un attenzione, un affetto, un contatto fisico. In questo caso il sintomo o la malattia esprimono spesso il disappunto, la rabbia perché la cosa desiderata non avviene.
D’altra parte è stato dimostrato che lo scambio affettivo, l’accoppiamento, la convivenza , così come l’attività sessuale fanno bene, riducono l’incidenza di svariate patologie, allungano e migliorano la vita.
Purchè naturalmente questa relazione o questa convivenza non diventino un’inferno!
Come avrete notato abbiamo parlato di diversi gradi di relazione (lo scambio affettivo, l’accoppiamento, la convivenza..la semplice attività sessuale…).
Ed ecco spiegato il mio titolo: cerchiamo di capirlo , cioè cerchiamo di capirci !
Per tante ragioni questo può non essere facile!
Molte volte infatti non è chiaro il tipo di rapporto che si desidera: uno sposo/a, un compagno/a, un amico/a; un amante; una persona con cui avere rapporti occasionali ? Possiamo provare a capirlo , cioè a ritagliarci l’abito su misura, quello adatto per noi e questo ci faciliterà l’incontro con la persona giusta.
Magari ci troviamo in una condizione tale che non possiamo (cioè non vogliamo) sposarci o non possiamo (non vogliamo) avere una convivenza. Non c’è problema .. troveremo un’amicizia piacevole con cui condividere le nostre cose per il momento e poi, eventualmente si vedrà.
E quando l’incontro avviene il corpo e la mente ci potranno aiutare a capire! Ma dobbiamo stare attenti a non sfuggire o se questo succede per lo meno a capire perché accade !
E quindi ancora una volta, cerchiamo di capirci !
Ma cerchiamo anche di piacerci. Se siamo veramente convinti di stare bene come stiamo e di stare bene con noi stessi allora va bene così. Niente di meglio. Se invece no, cerchiamo di capire cos’è che non va ! Dobbiamo forse migliorare il nostro look ? E allora facciamolo. Non stiamo a sentire le pedanterie di qualche falso filosofo castigatore dei costumi. Anche solo un particolare ricercato, un accessorio elegante, un “vestito bello”, una pettinatura diverso, degli occhiali più belli se sono in sintonia con noi stessi potrebbero aiutarci ad incontrare la persona giusta.
Perché non dirci: oggi metto il vestito più bello o meglio, lo ripeto, l’abito più adatto a noi, anche in senso strettamente materiale!
Tutte le cose in cui ci identifichiamo, che riflettono in maniera particolarmente efficace la nostra personalità possono aiutarci e possono catturare l’attenzione degli altri e, in effetti, la ricerca delle cose che sono in sintonia con la nostra energia psico-fisica, ma anche delle attività , delle occupazioni, degli hobby, degli amici a noi più consoni ci aiuterà a ritrovarci in questo senso.
In fondo questa ricerca , rappresenta uno degli scopi della vita!
Se poi sentiamo c’è qualcosa che proprio non va dentro di noi, di più profondo, perché non provare a guardarci dentro… oggi abbiamo a disposizione un ventaglio di professionisti qualificati di cui possiamo avvalerci! Mi sapete dire perché non possiamo farlo. Dobbiamo solo scegliere la persona giusta, magari fidandoci più di un sano passaparola tra i nostri amici e conoscenti e della nostra sana impressione istintiva , piuttosto che di titoli o di targhe fuori al portone.
Tutti ( e dico veramente TUTTI) siamo persone interessanti se: A) stiamo bene con noi stessi B) sappiamo valorizzarci e le due cose di solito vengono di pari passo e si influenzano a vicenda.
Se vogliamo veramente stare meglio cerchiamo di raccogliere questa sfida, ma prendendola senza drammi, quasi come un gioco. Impariamo a gestire al meglio questa dote che abbiamo avuto in sorte dal destino.
Allora cerchiamo di piacerci e di piacere! E stiamo anche attenti falsi amici che vogliono buttarci addosso le loro depressioni e magari farci ingollare l’ennesima pizza inutile per accumulare ancora chili di troppo e anche al nostro “nemico” interno, le nostre resistenze, che ci fanno magari aspirare a mete (leggi anche persone ) irraggiungibili e non ci fanno vedere tutte le persone e le cose valide ed interessanti che abbiamo intorno.
Non importa se siamo alti, bassi, magri o grassi, belli o brutti. Chi vi parla ha senz’altro diversi chili di troppo che regolarmente cerca di smaltire ed ha i suoi problemi psichici e fisici, ma ciò nondimeno non ha mai avuto problemi ad interessare chi poteva interessargli.
E’ la cura che abbiamo di noi che conta ! Dentro e fuori.
E quindi ancora una volta cerchiamo di capirci, cerchiamo di piacerci.

Invito alla psicografologia
Uno dei tanti modi per aiutarci a capire meglio noi stessi e quindi per aiutarci a stare meglio è l’interpretazione della scrittura.
La scrittura libera è uno dei più semplici test proiettivi dell’io oggi esistenti. La sua validità è stata documentata dalle varie Scuole che a livello internazionale hanno studiato ed elaborato le teorie e le tecniche della psico-grafologia.
Saggi e perizie grafologiche vengono oggi utilizzati oltre che come metodo di autenticazione di firme e di scritti a livello legale (essendo la scrittura quasi una sorta di impronta digitale psichica del soggetto), come supporto a perizie psichiatriche per vari scopi, come test valutativo per la selezione del personale e per le assunzioni nelle Aziende e anche come test valutativo dalle agenzie matrimoniali!

Questo sito vi offre la possibilità di un saggio psico-grafologico effettuato secondo i canoni del Metodo Marchesan (Università Internazionale della Nuova Medicina Milano) su alcuni dei caratteri salienti della vostra scrittura.
Per effettuare il saggio potete inviare via fax un saggio della vostra scrittura su foglio A4 senza righe e riempiendo completamente il foglio con un brano a vostro piacere scritto possibilmente senza andare a capo.
Inizieremo dal mese di Aprile 2006!
Il brano dovrà essere scritto in posizione comoda e con penna a scelta del candidato ma di colore nero.
Verranno esaminati ogni mese, naturalmente gratuitamente e senza alcun impegno i primi cinque scritti che perverranno al numero di fax 0815609514.
Le risposte verranno inviate al vostro indirizzo e-mail che indicherete nell’ultimo rigo dello scritto.
Gli scritti a cui non verrà risposto potranno essere inviati nuovamente il mese successivo.

 

Dott. Carlo Masi

Medico – Counsellor

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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IL PICCOLO PRINCIPE E LA DIPENDENZA AFFETTIVA

“ Certo – disse la volpe – tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. Ed ancora: “… se tu mi addomestichi la mia vita sarà come illuminata.”(da Il Piccolo Principe)
Così la volpe al Piccolo Principe, ed in queste frasi si potrebbe cogliere quasi l’annullamento della propria personalità, dei propri bisogni e delle proprie esigenze rispetto a quelle di chi amiamo e ci addomestica. “Creare legami…” così poi l’animale spiega al ragazzino il significato del verbo “addomesticare” ma è pur vero che chi viene addomesticato diventa dipendente di chi lo addomestica, quest’ultimo appare ai suoi occhi il punto primario della sua vita e con lui stabilisce un legame esclusivo ed opprimente. Se in un rapporto sano l’esclusività si manifesta ad esempio con la fedeltà verso il proprio partner, in una relazione retta dalla dipendenza affettiva essa è un chiudersi all’esterno, un isolarsi completamente per vivere nutrendosi soltanto dell’altro e di ciò che si può fare per lui. Il partner è origine e fine ultimo di pensieri e gesti, ci si riempie di lui non lasciando spazio per nient’altro che possa dare ossigeno benefico alla coppia, in lui si riversano tutte le aspettative di gratificazione perché solo lui ha il dovere di renderci felici. Non ci si rende conto, invece, che l’altro non può adempiere ad un così assurdo compito e si entra in un rapporto conflittuale con l’esterno a cui addossare le colpe della infelicità che si ricava dalla dipendenza affettiva. Chi ne soffre difatti è possessivo ed estremamente geloso di tutto quello che può rappresentare una sorta di distrazione per il partner. Nulla deve scalfire il mondo ovattato ed asfissiante che ha creato, ed in questa infelicità prodotta a proprio uso e consumo ogni gestualità, ogni parola è amplificata, dilatata fino a che non si arriva al punto di rottura. Quello in cui il partner decide di ribellarsi andando via, lasciando l’altro con un grande e quasi insormontabile senso d’abbandono, figlio della dipendenza affettiva. Così il Piccolo Principe risponde alla volpe quando questa, al momento della sua partenza, gli dice che piangerà: “E’ colpa tua, io,non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…” Questa affermazione è terribile, nessuno si sognerebbe di accusare il partner di essersi innamorato di lui, a meno che chi parla non ha a che fare con il desiderio di scrollarsi di dosso una responsabilità divenuta opprimente.
Un sano legame d’amore, invece, contempla in sé il momento della separazione o di un momentaneo allontanamento, per un viaggio di lavoro ad esempio, mentre il lutto della separazione definitiva è vissuto con un dolore affrontabile, a cui la ragione corre in aiuto sostenendo la ripresa di chi lo prova.

ADELAIDE SPALLINO

BLOG ISOLA EMERSA

IL PICCOLO PRINCIPE (capitolo XXI) di Antoine de Saint-Exupery

In quel momento apparve la volpe.
“Buon giorno”, disse la volpe.
“Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
“Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo… ”
“Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino… ”
“Sono una volpe”, disse la volpe.
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono così triste… ”
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomesticata”.
“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
“Che cosa vuol dire “addomesticare”?”
“Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe, “che cosa cerchi?”
“Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe.
“Che cosa vuol dire “addomesticare”?”
“Gli uomini” disse la volpe, “hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?”
“No”, disse il piccolo principe. “Cerco degli amici. Che cosa vuol dire “addomesticare?”
“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
“Comincio a capire” disse il piccolo principe. “C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…”
“È possibile”, disse la volpe. “Capita di tutto sulla Terra… ”
“Oh! non è sulla Terra”, disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa:
“Su un altro pianeta?” “Si”.
“Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?” “No”.
“Questo mi interessa. E delle galline?”
“No”.
“Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea:
“La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano… ”
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
“Per favore… addomesticami”, disse.
“Volentieri”, disse il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”.
“Non ci conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”
“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino… ”
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe.
“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro,dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore. Ci vogliono i riti”.
“Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe.
“Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza”.
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi… ”
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore …del grano”.
Poi soggiunse: “Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto”.
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente”, disse. “Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo”.
E le rose erano a disagio.
“Voi siete belle, ma siete vuote”, disse ancora. “Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perchè è lei che ho innaffiata. Perchè è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perchè è lei che ho riparata col paravento. Perchè su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perchè è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perchè è la mia rosa”.
E ritornò dalla volpe.
“Addio”, disse.
“Addio”,…disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
“È il tempo che ho perduto per la mia rosa… ” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa… ”
“Io sono responsabile della mia rosa… ” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

L’AMAVA A TAL PUNTO…

L’AMAVA A TAL PUNTO…

…che se la sarebbe mangiata con gli occhi. 
Quando l’amore diventa dipendenza.

dipendenza affettiva e disturbi del comportamento alimentare

 

E’ capitato a tutti, durante l’innamoramento, di sperimentare una fase psico-temporale di dipendenza affettiva dall’oggetto del nostro amore.

Capita quando una donna si innamora di un uomo (e viceversa) ma anche in talune amicizie; capita anche tra genitore e figlio.

Ogni rapporto contrassegnato da forti legami affettivi oscilla spontaneamente su un continuum i cui estremi sono la DIPENDENZA e l’INDIPENDENZA reciproca o di un solo membro della coppia rispetto all’altro.

Erroneamente si pensa che l’amore implichi dipendenza psicologica, fisica e materiale tra gli individui: non si riesce a vivere senza l’altro neppure per brevi periodi, non si riescono a prendere decisioni se non dopo averlo consultato (o se è un bimbo, solo in sua funzione), in assenza dell’altro si sperimentano stati di insicurezza, disagio, ansia e si necessita di continue rassicurazioni su quanto egli ci ami.
LA DIPENDENZA NON E’ AMORE, MA UNO STATO PATOLOGICO.

Un buon attaccamento tra madre e figlio, ad esempio, prevede che quest’ultimo riesca serenamente a distaccarsi dalla madre, così come un rapporto d’amore tra due adulti dovrebbe preservare gli spazi di autonomia psicologica e fisica di ciascuno.
Spesso, nei casi in cui la famiglia sia colpita da un DCA evidenziato in uno dei suoi membri, questi complessi meccanismi di DIPENDENZA/INDIPENDENZA sono in qualche modo “bloccati” su stili relazionali invischiati: coloro che condividono una relazione affettiva sono come legati insieme da meccanismi dannosi per tutti.
Non è facile, specialmente per un bambino, esprimere verbalmente o con un comportamento adeguato la sua condizione di OGGETTO D’AMORE DA CUI DIPENDE IL GENITORE. I bambini “sentono”, sono molto percettivi: sentono gli stati d’animo e le tensioni materne anche se la madre li vuole celare, sentono il clima familiare e assorbono come spugne i metamessaggi veicolati attraverso il linguaggio simbolico del corpo (§prossemica, tono della voce) e dei comportamenti.
Ecco che in una famiglia dove la comunicazione non risulta chiara e diretta all’oggetto, il cibo (come altri aspetti del quotidiano) può fungere da veicolo comunicativo, assumendo significati simbolici che vanno al di là del suo valore strumentale.
Se i genitori usano il cibo come simbolo, il bambino imparerà anch’esso ad utilizzare i momenti dei pasti come privilegiati per “dire”, attraverso l’uso degli alimenti, qualcosa che andrebbe invece espresso in altra sede e con altri mezzi comunicativi.
Ecco che CIBO – AMORE – DIPENDENZA possono diventare i vertici di un triangolo che racchiude in sé parte delle cause dell’insorgere di un DCA; non tutte ovviamente, essendo tali Disturbi a genesi multifattoriale.
Diventa allora importante informarsi e formarsi anche ad amare in modo corretto i propri familiari, figli e partner, per consentire ad ogni membro del nucleo familiare uno sviluppo personale autonomo e sano e per non alimentare in seno alla famiglia un rapporto sbagliato con il cibo e l’alimentarsi.
Dott.ssa Chiara Rizzello

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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LO STALKING

Il termine mutuato dell’inglese “stalking” deriva dal verbo “to stalk” (fare la posta, seguire, cacciare) e definisce una serie di comportamenti intrusivi, di controllo, di sorveglianza nei confronti di una vittima che subisce attenzioni in modo non gradito e molesto.

Nella maggior parte dei casi condotte assillanti riguardano partner o ex partner di sesso maschile (in Italia il 70% è un uomo) con un’età compresa tra i 18 ed i 25 anni (il 55% ei casi) quando si tratta di abbandono o della fine di una relazione sentimentale, o superiore ai 55 anni quando si tratta specificamente di una separazione o di un divorzio.

La norma italiana del codice penale più vicina a tale condotta è il reato per “Molestie o disturbo alle persone :

“Chiunque,in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con mezzo

 del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno

 molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda

 fino a 516 euro ( art.660 c.p.)”.

E’ un “modus vivendi” entro il quale si intrecciano dinamiche psicologiche e relazionali “malate”, “petulanti” e “persecutorie” di ex partners gelosi, livorosi, abbandonati o semplicemente incapaci di elaborare il “rifiuto” in situazioni in cui questi elementi vengono letti come attacchi all’ “io”, e pertanto difficile l’orientamento attraverso i “canali normali” del senso della realtà.

Ne deriva un atteggiamento intrusivo, ossessivo e persecutorio di imposizione della “presenza” attraverso telefonate, sms, mms, e-mail, aggressioni e pedinamenti.

Nei soggetti interessati, spesso con problemi relazionali, risulta offuscata la capacità ideativa ed empatica, in virtù della spinta motivazionale polarizzata verso la rappresentazione assolutizzante della vittima che, talvolta, è sconosciuta.

La vittima del molestatore in molti casi è ansiosa e stressata.

Vittime impaurite dai deliri di onnipotenza di uomini che non si stimano nè sono stimati a loro volta, a causa delle allucinazioni che somministrano ed elargiscono attraverso il disprezzo, la disistima e soprattutto la violenza psicologica.

La sua vita è difficile, inquieta, non solo perché la modalità relazionale con lo stolker è devastante, ma anche per il conseguente e progressivo decadimento della vitalità che deriva sempre dalla perdita di riferimenti.

Ed anche nella fase risolutiva della “consapevolezza” di una relazione fuori dai canoni della “vivibilità normale”, la via della ricostruzione personale dell’ ex vittima è molto complicata poiché, in genere, comporta un cambiamento radicale dello stile di vita (città, lavoro, amici) unito ad una destabilizzazione degli equilibri affettivi. Emotivi e relazionali, violati e demoliti giorno dopo giorno.

Il fenomeno è attualmente all’attenzione dei media oltre che di notevole rilevanza socio-politica, anche perché le dinamiche relazionali entro le quali lo “stalker” interagisce e si esprime sono, in molti casi, l’effetto del cambiamento e della evoluzione di dinamiche comunicative interpersonali tipiche della società odierna.

Proprio per questo il fenomeno oggi ha una maggiore visibilità, sebbene l’esternazione del disagio che lo stolker manifesta non è propriamente un fatto recente, se non nelle modalità. Si tratta, infatti, di un antico disagio psicologico e, nei casi più gravi, di malattia mentale.

Personalmente mi soffermerei un attimo a comprendere cosa renda così vulnerabili e fragili tante, troppe donne-vittime e artefici di un processo di costruzione della propria demolizione ad opera di individui violenti. Donne inconsapevoli della loro forza, abusate nella loro “pars construens”, fiaccate e mortificate nella libertà e nella consapevolezza che pur tutti possediamo.

Donne che si sono affidate in autogestione all’unico scopo di onorare ed essere devote alla forza distruttiva dell’ “homo denstruens”.

Il prezzo della salute mentale della vittima è altissimo e proporzionale al consolidamento della relazione nel tempo, per reiterati attacchi alla “persona”, al “senso della realtà”,”alla verità”.

E’ un dato di fatto che l’uomo sia l’unico primate che perseguita e tortura, senza motivi apparenti, traendone soddisfazione.

In virtù di questo elemento storicamente certo l’aggressività umana va sempre controllata e mai sottovalutata in quanto pericolosa.

Se non ci soffermiamo e lavoriamo sulle risorse “sane” e “normali” che dobbiamo sentire dentro, e che per fortuna la gran parte degli uomini possiede, non saremo in grado di riconoscere i principi semplicissimi della “verità” e della “giustizia” intesi non nell’accezione dogmatica della mortificazione del pensiero, ma come “ricerca”, ”dubbio” ,”criterio di conoscenza”, “forza interiore” per operare scelte responsabili ed andare avanti.

Libertà genuina, indipendenza e soprattutto il saper riconoscere ogni forma di controllo e di sfruttamento ritengo siano le premesse per riconoscere atteggiamenti e modalità “devianti” come la condotta dello stolker, di cui si è parlato molto, ma ancora troppo poco del “vivaio” socio-culturale-religioso che feconda la predisposizione alla “devozione”, “sottomissione”, “riverenza”.

L’amore per la vita, riuscire a contaminare ogni cosa della dialetticità del cambiamento, considerare formativi i percorsi personali dolorosi, ma sempre piccoli pezzi di strada da cui fuggire e gambe levate, ritengo siano l’unico conforto quando troviamo normale l’assurdo.

Saper riconoscere l’assurdo è il criterio per non sopportarlo più.

Uscire dal “pensatoio” delle stranezze ossessive dove l’unica possibilità sembra quella di farsi fare del male.

L’amore ed i rapporti umani, i sentimenti sani e normali interagiscono sempre con la ricerca del bene, eppure capita spesso che le relazioni vengano fraintese con altre cose, e coltivate di conseguenza su un terreno di assoluta violazione dei diritti umani.

Infatti,, spesso, lo stalker non si limita soltanto a molestare la vittima, ma pone in essere comportamenti illeciti ulteriori, costituenti autonome figure di reato oggetto di specifiche ed ulteriori sanzioni, quali: l’omicidio (art. 575 c.p.), le lesioni personali (art. 582 c.p.), l’ingiuria (art. 594 c.p.), la diffamazione (art. 595 c.p.), la violenza privata (art. 610 c.p.), la minaccia (art. 612 c.p.), la violazione di domicilio (art. 614 c.p.), il danneggiamento (635 c.p.).

 

Prof. Di Lunardo Concetta

Docente di Filosofia e Psicologia

Counselor psico-filosofa

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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LA DANZA INCONTROLLATA: OSSESSIONE E DIPENDENZA

“Scarpette Rosse” La danza incontrollata: Ossessione e Dipendenza

La dipendenza si connota attraverso un esplosivo agire “furtivamente” che si verifica laddove l’individuo sopprime ampie parti dell’Io tra le ombre della psiche. Egli reprime gli istinti positivi e negativi, i bisogni e i sentimenti dell’inconscio e fa si che essi dimorino nel regno delle ombre. Succede così che tale individuo si trovi a condurre una vita simulata, come se non volesse sentire o vedere qualcosa: una parte sconosciuta di sé che egli avverte in modo angoscioso. E allora procede furtivamente, ingannando sé stesso, gettando via il tesoro dei propri bisogni, delle proprie tensioni di dolore e di paura, che gli potrebbero indicare una strada per colmarli e ritrovare una gioia reale. In questo modo egli è costretto a rubacchiare morsi e pezzetti ovunque.

Quando non accettiamo una parte di noi o una nostra emozione rimaniamo soli. Fingiamo di non essere così e combattiamo in silenzio. E’ come se non respirassimo: o forse alcune volte proviamo a respirare troppo velocemente o non respiriamo affatto rifacendoci ad un ideale di perfezione del tutto o niente. L’unica alternativa al furto del piacere è un atto di coraggio rispetto all’affermazione di ciò che sentiamo e siamo fino in fondo. Ciò significa imparare ad ascoltarci anche nelle tensioni spiacevoli: imparare ad essere noi fino in fondo con i nostri limiti e le nostre risorse.

Abbiamo un’alternativa di fronte ad una falsa vita rubata: guardare e riconoscere la fame del bambino deprivato che è dentro di noi e che protesta a gran voce. Nascondere la fame di questo bambino ed il dolore e il senso di vuoto che questo comporta significa rischiare che essa ci bruci e ci consumi attraverso atti rubati compiuti come un rito magico da non rivelare agli altri.

Quando non riconosciamo la fame ci illudiamo che altri ci regalino “Le scarpette rosse” che sono in grado di stordirla e di non sentirla, di farci danzare in un mondo meraviglioso e fantastico in cui non esistono bisogni. In questo modo, ci rifiutano di vivere la vita con i suoi cicli ed i suoi ritmi di crescita e decrescita, di vita e di morte per poi arrivare ancora alla vita. Intanto la nostra fame non viene saziata ma continua ogni volta a crescere ed a diventare un buco incolmabile che ci divora.

Con le nostre scarpette ideali diamo inizio all’ultima danza: una danza nel vuoto dell’inconsapevolezza. Siamo come bambini che volteggiano lontano dalla vita e ci rifiutiamo di prendere il cibo adatto e concreto per saziarci, perché questo costa fatica e lotta. Continuiamo a danzare frenetici pensando che qualcosa di magico ci fermi o che ci fermeremo quando lo decideremo.

Ma non è così: finché non riconosciamo la fame e non sappiamo procurarci un cibo che costa fatica, dolore ma anche gioia di un pieno concreto, continueremo la nostra infinita azione senza mai fermarci. E’ necessario riappropriarci del nostro istinto vitale per riconoscere le trappole di un facile paradiso e saper dire basta. Non è la gioia di questo paradiso irreale a rendere sempre più grande il nostro vuoto, ma piuttosto la mancanza di gioia che sentiamo mentre siamo all’interno di esso.

Quando non ci rendiamo conto della nostra fame, continuiamo a danzare ed a nascondere il nostro dolore e la nostra tristezza di fronte a qualcosa che è rimasto vuoto in noi, sia solo per guardare e sentire questo vuoto, per poi decidere l’azione adeguata per poterlo colmare.

Dipendenza e fame del nostro bambino deprivato sono connesse. Finché non ci assumiamo la responsabilità della nostra parte adulta che può essere in grado di nutrire e colmare la fame del nostro io bambino continueremo a negare le nostre libertà interiori ed esterne accettando continui soprusi su di noi e le persone che amiamo. Finche non riconosciamo questo bambino deprivato, sarà lui a prendere l’intero controllo su di noi ed a ricercare qualsiasi cosa: sostanza, persona, azione, lavoro, ecce… che in quel momento subito lo possa placare. E’ necessario riprendere la capacità di sentire fino in fondo tutte le emozioni di questo bambino interiore: piacevoli e spiacevoli, per poi imparare ad essere “Buoni genitori” che sanno prendersi cura di lui. Nessun altro lo potrà fare se non noi.

Le persone trascinate dalle “Scarpette Rosse” all’inizio pensano che possa esistere un intervento esterno da parte di qualcuno o di qualcosa (es. la sostanza) che in qualche modo possa colmarle e ritrovare la risoluzione illusoria di tutte le loro tensioni. E’ come se fossero dei neonati e cercassero un grande seno con un latte non nutriente in grado di placare ogni loro bisogno. In realtà la dipendenza è una grande mamma che divora tutti i bambini che si sono perduti e li getta sulla porta del Boia.

E’ necessario tornare alla vita fatta a mano, modellata giorni per giorno: è necessario riprenderci l’adulto in grado di provvedere al bambino, anche se ciò comporta dolore.

Separarsi dalle “Scarpette Rosse” e dalla vita ideale è doloroso. Ma la separazione è una benedizione.

Troveremo la nostra strada e ricominceremo a correre con le scarpe fatte da noi magari più imperfette, ma che ci daranno la gioia di una nostra creazione.

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

PSICODRAMMA E SOCIODRAMMA

INCONTRO

“Un incontro di due:

occhi negli occhi, volto nel volto.

E quando tu sarai vicino:

io coglierò i tuoi occhi,

e li metterò al posto dei miei,

e tu prenderai i miei occhi

e li metterai al posto dei tuoi.

Così io guarderò te con i tuoi occhi

e tu guarderai me con i miei.

Così persino la cosa comune impone il silenzio

e il nostro incontro rimane la meta della libertà:

il luogo indefinito, in un tempo indefinito,

la parola indefinita per l’uomo indefinito.”

( J.L. Moreno 1985: 7 ).

 

Psicodramma, Sociodramma e Sociometria debbono la loro origine e la loro prima diffusione nel mondo alla persona di J.L. Moreno , psichiatra di origine romena, che svolse la sua pratica e ricerca professionale prima nella Vienna degli anni ‘20 e successivamente negli Stati Uniti d’America.

Riferimenti storici: j.l. Moreno

J.L.Moreno nacque a Bucarest nel 1889 ma trascorse l’infanzia e la prima giovinezza a Vienna dove ebbe la sua formazione culturale e professionale, studiando dapprima filosofia e laureandosi successivamente in medicina. Uomo portato a condividere il clima ed i fermenti culturali della Vienna degli anni ’20, fondò insieme a Martin Buber e ad altri intellettuali viennesi la rivista “Daimon” ed iniziò le prime esperienze di avanguardia teatrale alternandole al lavoro clinico come medico psichiatra. Nel 1925 si trasferì negli Stati Uniti a causa del clima politico ed autoritario che si andava profilando in Europa e che non facilitava lo sviluppo delle sue idee e dei suoi progetti. Lavorò dapprima con lo Psicodramma con i bambini del Plymouth Institute of Brooklyn e con gli adulti alla clinica psichiatrica dell’ospedale Monte Sinai di New York. Continuava nel frattempo il lavoro di integrazione di teatro e Psicodramma all’Improptu Group Theatre presso la Carnegie Hall (New York).

Nel 1936 aprì una clinica privata a Beacon (vicino a New York) dove realizzò il primo teatro di Psicodramma. Gradualmente Beacon divenne un centro di formazione per Direttori di Psicodramma e punto di incontro e formazione per clinici provenienti da tutto il mondo. Oltre a “Il teatro della spontaneità” (scritto negli anni di Vienna), pubblicò “Psycodrama I”, “Psychodrama II”, “Psychodrama III” (opere sistematiche sullo Psycodramma) e “Who shall survive?”, opera nella quale sistematizza le ricerche e le esperienze sociometriche, sociodrammatiche e terapeutiche svolte presso il riformatorio femminile di Hudson. Fu il fondatore della prima organizzazione internazionale di terapia di gruppo (lo I.A.G.P. = International Association of Group Psychotherapy), che attualmente riunisce terapeuti e conduttori di gruppo dei più diversi orientamenti teorici. Nel maggio 1974 moriva a Beacon.

Teatro della spontaneità e giornale vivente

I presupposti della nascita di psicodramma e sociodramma vanno ricercati nell’intersezione dei due orientamenti culturali e ideali compresenti in Moreno:

? l’interesse per la sperimentazione teatrale ad orientamento sociale;

? l’interesse per la sofferenza psichica.

Negli anni venti Moreno creò un gruppo teatrale che realizzava rappresentazioni con il pubblico, senza utilizzare copioni, sceneggiature, ma creando al momento l’azione drammatica a partire da tematiche sociali rilevanti o da temi suggeriti dal pubblico. Nasceva il teatro della spontaneità, matrice di fertili intuizioni creative sul ruolo e sul funzionamento della dinamica psichica, sulla funzione della spontaneità e della creatività, sul gruppo e su tutti quei concetti sui quali si edificherà lo psicodramma.

” Il giornale vivente ” è il prototipo del teatro della spontaneità. Gli attori con l’ausilio del pubblico rendevano concreti, percepibili e ”drammatici” alcuni fatti e situazioni di cronaca, oggetto d’interesse e dibattito per il pubblico.

Il teatro della spontaneità si orientò successivamente alla rappresentazione ed alla elaborazione, mediante il coinvolgimento del pubblico, di problemi e situazioni esistenziali emergenti “in situ” dai partecipanti. Gli attori si trasformavano progressivamente da “dramatis personae” in IO ausiliari, specchi stimolanti per i drammi reali della vita di tutti i giorni delle persone. Il pubblico da una posizione passiva si trasformava in attore partecipe, assumendo il ruolo di contenitore o di cassa di risonanza, come nel coro della tragedia greca.

E’ in questo ambito di fermento creativo che Moreno scopre la valenza terapeutica dei metodi di azione . E’ noto a tal riguardo il caso di Barbara, che consentì a Moreno di sviluppare la metodica dello psicodramma terapeutico. Barbara, giovane attrice del “Teatro della spontaneità”, si era da poco sposata con uno scrittore, George. Ella ricopriva sempre il ruolo di fanciulle gentili ed ingenue. Un giorno il marito George, in preda a disperazione, si confidò con Moreno rilevandogli che a casa la moglie si mostrava una donna intrattabile, dal linguaggio volgare, che addirittura lo picchiava quando cercava di fare l’amore con lei.

Qualche giorno dopo il giornale riporto in cronaca nera la notizia dell’assassinio di una prostituta per mano del suo protettore. Moreno ebbe un’intuizione: convincere Barbara a rappresentare la parte della prostituta. Così fece: ed ella ricoprì quel ruolo con tale forza, stimolando l’attore che faceva da protettore ad una risposta così frenetica che al culmine della scena del delitto il pubblico si alzò in piedi gridando: “basta!”.

A casa, dopo lo spettacolo, temporaneamente liberata della sua carica aggressiva, Barbara fu insolitamente tenera con George. Moreno continuò a farle rappresentare caratteri violenti, ed ella diventava sempre più trattabile quando si allontanava dal teatro. Un giorno Moreno invitò George sul palcoscenico accanto a Barbara, per duplicare gli episodi della loro vita privata. “Alcuni mesi più tardi” – egli racconta – “essi si sedevano con me in teatro, pieni di gratitudine. Avevano riscoperto se stessi e il loro rapporto”.

L’episodio di Barbara aveva concretizzato un elemento che rimane fondamentale nello psicodramma, un elemento già noto agli antichi drammaturghi greci: la “catarsi”.

Lo psicodramma

Psicodramma deriva dai termini greci “PSYCHE'” (psiche o anima) e ”DRAMA” (azione). E’ quindi quel metodo che consente di esplorare il mondo psichico attraverso l’azione. Fu negli Stati Uniti, a contatto con le problematiche della malattia mentale, che lo psicodramma si strutturò come metodo terapeutico-curativo. Inizialmente le sessioni si realizzavano con uno o pochi pazienti ed uno staff di IO ausiliari professionisti che avevano la funzione di esternare il mondo reale e fantasmatico dei pazienti.

Successivamente lo psicodramma si strutturò sempre più (fino ad assumere le caratteristiche attuali) come terapia di gruppo, ove la funzione di IO ausiliario viene assunta dai pazienti stessi, rendendo non più necessaria la presenza di IO ausiliari professionisti.

Lo psicodramma manteneva tuttavia collegamenti con ambiti extra-terapeutici, sia nelle sessioni aperte (incontri di psicodramma aperti al pubblico, ove era il pubblico stesso ad entrare in azione) sia nello psicodramma addestrativo (rivolto ad allievi e professionisti), che possedeva somiglianze con le metodologie attuali di supervisione con modalità psicodrammatiche.

Il sociodramma

Il sociodramma nasce dall’esigenza di confrontarsi con quelle contraddizioni sociali e culturali che rimandano contemporaneamente sia alla dimensione psicologica intrapsichica che a quella social-culturale.

Negli Stati Uniti, in particolare, era cruciale la problematica razziale, con le sue implicazioni di pregiudizio, paura, difesa e discriminazione sociale. Il sociodramma, come strumento di intervento sui grandi gruppi, si prestava ad elaborare costruttivamente le problematiche cruciali di una comunità (sesso, conflitto generazionale o razziale, pregiudizio verso determinate categorie quali carcerati, malati di mente, ecc.). A differenza dello psicodramma, il sociodramma non si interessa tanto al mondo interno del singolo, quanto a quelle dimensioni che appartengono e trapassano trasversalmente gli individui di una determinata categoria o realtà sociale. Detto in altre parole, il sociodramma si occupa di ruoli sociali e delle loro rappresentazioni interne e culturalizzate.

L’addestramento al ruolo

L’interesse per l’addestramento e la formazione è dato in Moreno dalla prima esperienza del Teatro della spontaneità. Si trattava in questo contesto di addestrare l’attore alla spontaneità e alla creatività, alla capacità di inventare il ruolo e di sapere fronteggiare e concretizzare in modo spontaneo le imprevedibili situazioni proposte dal pubblico.

La preoccupazione principale era il superamento delle “CRISTALLIZZAZIONI CULTURALI” (stereotipi e rigidità di ruolo) per giungere alla condizione di spontaneità, premessa alla possibilità di creatività nella realizzazione del ruolo. Questo lavoro di preparazione dell’attore richiama alcune delle tecniche tuttora utilizzate nell’addestramento e nella formazione (le simulazioni e le attività di warming-up, o riscaldamento).

Fu però soprattutto nel lavoro con la comunità femminile di Hudson che Moreno utilizzò le tecniche di azione con finalità di addestramento professionale e di elaborazione delle dinamiche di gruppo delle ragazze ospiti. Queste ragazze adolescenti provenivano da esperienze di criminalità e prostituzione e si poneva alla struttura che le ospitava il compito di reinserirle nella società, fornendo loro competenze sociali e professionali, oltre che una possibilità di riequilibrio psico-affettivo. Moreno lavorò con loro con i metodi del Role-playing, dell’anticipazione delle situazioni future e anche con interventi di psico-terapia di gruppo.

L’accento era posto sull’intreccio di acquisizione di specifiche competenze di ruolo lavorativo e di formazione di una personalità capace di interazione positiva e di spontaneità.

“Un adattamento ottimale a più ambienti richiede una personalità adattabile e spontanea. […] Il nostro metodo ha parecchi vantaggi su quello consistente nel formare gli individui ad un buon adattamento sociale mediante la diretta esperienza di situazioni di vita reale. […] Prima di tutto, la serietà delle situazioni reali impedisce all’individuo di prendere coscienza dei suoi errori : la sua ansia gli farà ripetere gli stessi errori quando si ritroverà di fronte a situazioni analoghe. […] In secondo luogo le situazioni reali creano in numerosi individui una specie di inerzia affettiva dovuta al fatto che, essendo riusciti positivamente in un certo ruolo, si comportano come se non venisse loro richiesto qualcosa di più . […] Inoltre, se le situazioni reali formano un individuo in modo che possa adattarsi perfettamente ad un certo ruolo, […] tendono ad escludere dal suo orizzonte altri orizzonti. […] Per tutto ciò l’apprendimento della spontaneità, in quanto METODO DI SVILUPPO, è superiore all’apprendimento che può venire offerto dalla vita. […] Il problema dell’apprendimento non sta più nel suscitare o nel mantenere delle abitudini, bensì nel formare la spontaneità, nello sviluppare negli uomini l’abitudine a tale spontaneità ” (Moreno, 1980: 165)

La sociometria

L’interesse per la misurazione e la rilevazione qualitativa e quantitativa delle relazioni nei piccoli e nei grandi gruppi ha sempre contraddistinto il lavoro di Moreno. Tuttavia è solo nel 1934, con la pubblicazione di “Who Shall Survive?”, che Moreno sistematizza quella che lui definisce sociometria.

La sociometria moreniana (o misurazione dei rapporti sociali) ha avuto un’ampia diffusione in ambito educativo e nella ricerca sociale. Anche in questo caso, come per numerose tecniche dello psicodramma, e avvenuto una specie di “saccheggio” di fertili intuizioni operative, riutilizzate in campo sociale, educativo e terapeutico da operatori che facevano riferimento a modelli teorici anche lontani dallo psicodramma.

La sociometria, intesa come mera tecnica di rilevazione o “diagnosi statica” (che produce grafici, sociogrammi e dati numerici), è molto distante dal significato operativo e trasformativo che Moreno aveva inteso dare. Per Moreno, infatti, la sociometria è uno strumento volto alla comprensione degli spostamenti relazionali all’interno di un gruppo, in funzione di una trasformazione evolutiva delle possibilità del gruppo stesso e delle persone. La vera sociometria moreniana è la “sociometria d’azione”, fotografia immediata e mutevole delle relazioni gruppali, con l’intento di agire subito in modo spontaneo e creativo sui nodi critici di tali relazioni.

E’ tale l’uso che Moreno fece della sociometria nella comunità di Hudson sopracitata. In questa realtà Moreno utilizzò il sociogramma come strumento per modificare e migliorare le relazioni fra le giovani ospiti di Hudson: le ragazze grazie all’indagine sociometrica avevano la possibilità di strutturare la vita quotidiana in funzione combinata dei loro bisogni affettivi e degli obiettivi futuri di reinserimento sociale.

ELEMENTI CARDINE DELLA TEORIA MORENIANA

Teoria del ruolo

Per capire a fondo il significato di “RUOLO” nella teoria moreniana occorre subito differenziare tale concetto dalle due accezioni di ruolo più diffuse:

? Ruolo in senso sociologico;

? Ruolo in senso teatrale.

Il ruolo sociologico fa riferimento soprattutto alle concrete realizzazioni sociali dei ruoli, rimandando a categorie culturali e sociali di rappresentazione della vita sociale. Un ruolo sociale (es.: vigile, medico) ha determinati confini prestabiliti, compiti, sanzioni e gerarchie di status ecc., che prescindono dall’individuo e dalla persona che deve assumere questo ruolo.

Il ruolo in senso teatrale si riferisce immediatamente al concetto di “MASCHERA”, finzione ed illusione. In questo caso si parla di recitare un ruolo o una parte, non di essere quella parte.

In entrambi i casi, sia che si parli di ruolo sociale “appiccicato” ad un individuo, sia che si parli di recitare un ruolo, vi è una separazione tra la soggettività e l’apparenza .

La specificità dell’apporto moreniano alla teoria del ruolo riguarda da un lato l’estensione del concetto di ruolo a tutti gli ambiti del comportamento umano, dall’altro il collegamento ad aspetti corporei, soggettivo-intrapsichici e sociali.

Moreno definisce il ruolo come:

“ La forma operativa che l’individuo assume nel momento specifico in cui reagisce ad una situazione specifica nella quale sono coinvolte altre persone od oggetti ” (Moreno, op. cit., pag. 158) .

Per capire come i ruoli siano interconnessi con l’individuo e non siano soltanto una sovrapposizione esterna, bisogna pensare alla funzione strutturante del ruolo per la personalità. E’ l’IO che emerge dai ruoli e non viceversa. L’esperienza diretta di molteplici ruoli da parte del bambino appena nato struttura una percezione corporea, emotiva e successivamente rappresentativa del suo sé e della sua collocazione nel mondo. Il lattante sperimenta gradualmente vari ruoli, di succhiatore, di dormitore, di cucciolo coccolato, accettato o rifiutato, ecc. e sarà la confluenza e l’unificazione corporeo-emotiva e rappresentativa di tali esperienze a fare emergere l’IO.

In tal senso è evidente come l’IO si sviluppa mediante e grazie ad una notevole penetrazione del sociale nell’individuale. Moreno individua quattro categorie di ruoli che si sovrappongono successivamente nello sviluppo dell’essere umano:

  • ruoli psicosomatici (corporei), sono i primi ad emergere nello sviluppo del bambino. Sono tutti quei ruoli che riguardano le funzioni corporee (mangiare, dormire, sensazioni propriocettive, ecc.);
  • ruoli fantasmatici o psicodrammatici. Iniziano a comparire prestissimo quando si abbozza la vita rappresentativa nel bambino. Sono quei ruoli che riguardano il mondo interno della persona e racchiudono la peculiarità fantastica ed emotiva di ogni essere umano (il ruolo di “bambino ubbidiente” o cattivo, di sognatore, magico, ruoli fantastici di fate e di streghe, fantasmi divoratori e immagini oniriche…);
  • ruoli sociali . Esperienzialmente compaiono alla nascita (infatti un lattante vive già il ruolo sociale di figlio anche se non ne è cosciente), però la loro strutturazione interna rappresentativa (intesa come capacità di percepire gli individui come appartenenti a categorie sociali) data all’inizio della scuola elementare. Sono quei ruoli che appartengono alla società nella quale l’individuo vive e si sviluppa. Essi vengono codificati culturalmente e socialmente (ruoli di figlio, genitore, maschio o femmina, lavorativo ecc…).

N.B.: Per chiarire ulteriormente: se parliamo DEL genitore (il suo ruolo, i suoi compiti) ci riferiamo ad un ruolo sociale; se parliamo di UN genitore specifico, per come è vissuto, concettualizzato ed interpretato da un singolo individuo, ci riferiamo ad un ruolo psicodrammatico.

  • ruoli valoriali (o trascendentali). Hanno la loro comparsa ed esplosione “emotiva” nell’adolescenza (tempo elettivo di sogni, illusioni, progetti e “filosofia di vita”). I ruoli valoriali concernano il senso e la finalità dell’operato dell’uomo: sono il contenitore che orienta la vita attraverso gerarchie di valori, utopie e progettualità esistenziali.

N.B.: I ruoli valoriali sono connessi fortemente sia ai ruoli psicodrammatici che ai ruoli sociali: infatti da un lato rappresentano la specificità esistenziale dell’individuo (i suoi valori), dall’altro sono anche il prodotto di rappresentazioni sociali (ad esempio il ruolo di educatore porta con sé una serie di valenze valoriali quali: l’aiutare gli altri e riparare ciò che non è giusto, ecc…).

I l fattore S-C (spontaneità-creatività)

I riferimenti filosofici dello psicodramma rimandano ad una concezione dell’uomo come essere capace di liberarsi dai limiti impostigli dalla sua condizione, e capace di liberare spontaneità e creatività.

Da questo punto di vista l’orientamento psicodrammatico può essere inquadrato come finalistico, espansivo, volto alla valorizzazione delle risorse dell’essere umano; l’orientamento psicoanalitico, al contrario, può essere visto come deterministico e centrato maggiormente sui limiti ed i segni lasciati nella persona dalla sua storia.

L’ipotesi teorica ed immediatamente operativa dello psicodramma postula la compresenza nell’esperienza in ogni individuo (e nei gruppi) di due dimensioni intimamente collegate: la spontaneità e la creatività. Ogni essere è dotato della possibilità di essere spontaneo e di un certo grado di creatività.

Per evitare fraintendimenti è necessario chiarire che cosa intende Moreno per spontaneità. Essa non è ciò che il linguaggio comune definisce: un comportamento privo di regole che fa uscire in modo incontrollato emozioni, pensieri o azioni indipendentemente dalle esigenze della. La spontaneità è piuttosto una condizione che può essere creata in ogni individuo, uno stato interno che può essere prodotto e che costituisce la base per l’espletarsi della creatività.

La spontaneità è pertanto un catalizzatore per la creatività e l’una senza l’altra portano conseguenze negative e non produttive. Moreno definisce due estremi a tal riguardo:

? il deficiente spontaneo , colui che in uno stato perenne di “spontaneità”, ma privo di risorse creative, fornisce in continuazione risposte inadeguate all’ambiente e dettate solo da bisogni e stati interni;

? il creatore disarmato , colui che, ricco di potenzialità creative, non riuscendo a creare in sé uno stato di spontaneità, resta paralizzato e non riesce ad esternare le potenzialità creative (al pari della parabola evangelica dei talenti, nella quale il servitore con tanti talenti non necessariamente li mette a frutto).

E’ importante sottolineare che la spontaneità può essere educata, sviluppata e ricreata mediante un processo di riscaldamento.

La metodologia psicodrammatica parte dal presupposto che la spontaneità può manifestarsi in determinate situazioni (esempio uso del corpo, umorismo, situazioni di intimità e di contatto con l’altro, ecc.) e in tutte le persone, anche quelle più limitate o malate. E’ per questo che metodologicamente la fase di riscaldamento (o warming-up) è particolarmente curata nei gruppi di psicodramma.

Da questo punto di vista quello che il formatore è chiamato a fare, in psicoterapia, in formazione e nelle situazioni di apprendimento, non è altro che una risposta creativa scaturita dopo una fase di incubazione, in un momento di adeguata spontaneità.

Un buon equilibrio del fattore S-C porta da un lato alla capacità di dare risposte adeguate ad una situazione nuova e imprevista, e dall’altro di saper dare una risposta nuova e creativa ad una situazione vecchia e cristallizzata.

Tele e incontro

Sviluppando operativamente gli apporti filosofici di MAX BUBER, Moreno individua nella possibilità di INCONTRO (inteso come capacità dell’essere umano di entrare in relazione emotiva con i suoi simili, in modo autentico e non distorto) la chiave di lettura della salute mentale e dell’equilibrio della personalità. La capacità d’incontro presuppone che siano attivi i processi di tele .

TELE significa “a distanza”, ed indica la capacità presente in ogni individuo fin dalla nascita di entrare in relazione emotiva con gli altri esseri umani. Il tele si differenzia dall’empatia, la quale e un processo ad una via (una persona è empatica verso un’altra, ma non necessariamente tale atteggiamento viene corrisposto). Potremmo definire il tele come un’empatia a doppia via, ove centrale diventa le reciprocità. A tale riguardo la poesia di Moreno INCONTRO pubblicata in apertura dell’articolo esprime in modo figurato il processo attivato dal tele.

Il tele si differenzia notevolmente dal transfert, processo chiave del trattamento psicoanalitico. Il tele precede storicamente il transfert che del tele è la manifestazione patologica. Potremmo dire che man mano che crescono le relazioni teliche diminuiscono le relazioni transferali, e viceversa un ampio spazio alle relazioni transferali riduce la possibilità di incontro autentico e profondo.

Ancora una volta notiamo come operativamente lo psicodramma punti maggiormente allo sviluppo della capacità telica, rispetto alla elaborazione delle distorsioni transferali.

II.2.4. Teatro terapeutico e catarsi

Fin dai tempi antichi il teatro ha avuto funzioni educative, sociali e terapeutiche per la comunità.

Aristotele nelle sue riflessioni sulla funzione della tragedia sostiene che la stessa “purifica” lo spettatore poiché mobilita la compassione ed il terrore. Il pubblico, partecipando alle vicende dei personaggi del dramma, identificandosi nelle loro valenze paradigmatiche e simboliche (vedi la tragedia di Edipo), ricostruisce la sua identità personale e sviluppa la sua appartenenza alla comunità.

La grande innovazione di Moreno è stata lo spostamento del focus dal pubblico all’attore. Non è più solo lo spettatore che trae beneficiò dalla partecipazione emotiva alle vicende delle DRAMATIS PERSONAE, (catarsi indiretta), ma è soprattutto l’attore in quanto protagonista che, grazie all’azione scenica, può rivivere e ricreare il suo dramma esistenziale, cercando creativamente le soluzioni e gli sviluppi più consoni ai suoi bisogni e desideri (catarsi del protagonista). A tal riguardo è utile richiamare l’aneddoto del giovane Moreno che alla domanda di Freud che gli chiedeva che cosa facesse, rispose: ” cominciò da dove lei finisce Professore. Lei insegna alla gente a capire i suoi sogni, io cerco di dare alle persone il coraggio di sognare ancora ” (Moreno, 1987: 26).

Un’ultima cosa è necessario dire sul concetto di catarsi, per i frequenti fraintendimenti che questo termine produce. Lo psicodramma non è tout-court un “Teatro della catarsi”, anche se il processo di catarsi ha un suo ruolo specifico ed una sua funzione sia in terapia che in formazione.

La catarsi non è la semplice liberazione emotiva di sentimenti né lo scaricamento compensatorio di frustrazioni accumulate nell’ambiente di vita o lavorativo. Per Moreno la catarsi e un processo in due fasi strettamente connesse fra di loro:

? una fase di abreazione emotiva di un affetto o di un contenuto interno rimasto imbavagliato nella vita quotidiana;

? una fase di integrazione di questo nuovo contenuto nel sistema di riferimenti relazionali ed oggettuali della persona.

Da questo punto di vista la catarsi non coincide con l’abreazione, ma diventa un processo integrativo e ristrutturante. E’ più corretto allora parlare di integrazione catartica nello psicodramma più che di catarsi in senso stretto.

PSICODRAMMA E SOCIODRAMMA IN AZIONE

Le considerazioni fatte nei punti precedenti rendono evidente che, per la base filosofica e per il tipo di visione dell’uomo da parte della teoria moreniana, non è corretto parlare di tecniche psicodrammatiche avulse dal loro contesto, ma e più opportuno parlare di modalità psicodrammatiche . Questo non significa che le tecniche psicodrammatiche non possano essere usate al di fuori del loro contesto teorico; significa solo che le potenzialità di queste tecniche si esaltano se il contesto formativo o terapeutico fa riferimento anche ad alcuni aspetti della “filosofia” psicodrammatica.

Cercherò ora brevemente di illustrare alcuni aspetti operativi e tecnici dello psicodramma per rendere più esplicito il particolare setting formativo di cui stiamo parlando.

Azione e riscaldamento

La caratteristica centrale delle modalità psicodrammatiche è sicuramente l’attenzione a tradurre in “AZIONE” quanto rischierebbe di rimanere su un piano di “RACCONTO”, razionalizzazione o intellettualismo.

Azione nello psicodramma non significa però né agire incontrollato né fare senza pensare. Si parla piuttosto di “contesto di azione”, che significa inserire i contenuti emotivi e razionali in un contesto situazionale che renda percepibile plasticamente e comunicabile, mediante un linguaggio diretto, tali contenuti.

Per fare un esempio: è sostanzialmente diverso che un operatore “racconti” il suo rapporto professionale con un utente, oppure che in un contesto psicodrammatico entri nei panni dell’utente, e da quel punto di vista descriva come sente e valuta quell’operatore…

Nel primo caso prevale il racconto e il filtro razionale, nel secondo caso prevale l’azione intesa come confluenza di dati spaziali, situazionali, corporei, razionali ed emotivi.

Il contesto di azione è sempre attivo e solitamente precede il contesto di verbalizzazione, intellettualizzazione e sistematizzazione teorica che viene comunque tenuto presente.

Vi è quindi una spirale continua che parte dal racconto all’azione e dall’azione all’intellettualizzazione per ritornare all’azione, se si rende ancora necessaria…

Direttamente collegato al concetto di azione vi è quello di “ riscaldamento ” (o warming-up). L’azione da un lato è “riscaldamento” o preparazione all’emergenza della spontaneità e della creatività; d’altra parte è necessario in un gruppo creare gradualmente le condizioni (relazionali ed emotive) affinché l’azione possa espletarsi in tutte le sue potenzialità formative e terapeutiche.

E’ per questo che un’attività di riscaldamento precede e crea le condizioni per l’espletarsi dell’attività formativa: infatti vi è un’equazione che vede da un lato spontaneità e riscaldamento e dall’altro ansia e assenza di riscaldamento. Citando Moreno possiamo dire che:

“L’ansia è in funzione della spontaneità.

La spontaneità, secondo la nostra definizione, è la risposta adeguata alla presente situazione. Se la risposta alle circostanze è adeguata, se c’è “pienezza” di spontaneità, l’ansia decresce e scompare.

[…] Partire dall’aspetto negativo, dall’ansia sarebbe un errore dialettico .

Il problema vero sta nell’individuare il fattore dinamico che fa insorgere l’ansia.

L’ansia si manifesta quando fa difetto la spontaneità: non è l’ansia che compare per prima e che comporta a causa della propria comparsa l’attenuazione della spontaneità ”.

(J.L. Moreno, 1980: 185-186).

Direttore

La definizione più corretta del ruolo di conduttore di gruppi terapeutici o formativi con modalità psicodrammatiche è quella di “DIRETTORE”. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, è proprio la valorizzazione delle dimensioni di “spontaneità” e “creatività” che richiede un atteggiamento direttivo da parte del conduttore.

Preoccupazione principale del direttore di psicodramma è quella di creare un contesto con alcune regole certe ed alcuni riferimenti spazio-temporali che fungano da contenitore per l’ansia che le situazioni di gruppo o non strutturate potrebbero potenzialmente indurre. Solo se l’ansia viene attenuata, in un contesto di gruppo caldo e contenitivo, è possibile portare a buon fine le potenzialità dei partecipanti e la realizzazione degli obiettivi formativi.

Questo non è un processo magico o mistificante: semplicemente il direttore deve evitare di indurre ansie aggiuntive o situazionali quando esse non sono necessarie. L’atteggiamento di fondo del direttore di psicodramma rimanda al parametro paterno, unendo in sé direttività, empatia, genuino calore umano, unito a capacità d’individuazione.

Se vogliamo usare ancora parametri di tipo familiare, potremmo dire che alle caratteristiche paterne del direttore, nello psicodramma si devono affiancare le caratteristiche “materne” e contenitive del gruppo.

Gruppo

Il gruppo nello psicodramma è concepito in due prospettive:

  • la prima come contenitore positivo dei bisogni, desideri ed ansie dei suoi membri;
  • la seconda come terreno composito di relazioni teliche (o non teliche) perennemente in movimento ed in evoluzione.

Pertanto si rende continuamente necessario operare a due livelli:

à da un lato costruire un gruppo che nell’insieme “contenga” i suoi membri;

à dall’altro operare, soprattutto con l’ausilio delle tecniche sociometriche, per rendere trasparenti e passibili di modificazione ed evoluzione positiva le relazioni fra i singoli membri del gruppo.

IO ausiliario

L’io ausiliario è una persona del gruppo che riveste in un determinato momento dell’azione psicodrammatica il ruolo di un altro significativo del mondo relazionale (e/o professionale) o del mondo interno del protagonista (= la persona che è in quel momento al centro dell’azione).

Forse un esempio può far capire che cosa è concretamente l’IO ausiliario nello psicodramma. In una situazione di supervisione, un educatore (il protagonista) rappresenta le difficoltà di rapporto con un ragazzo disabile. In questa situazione altri membri del gruppo possono diventare IO ausiliari, entrando nei panni degli altri “significativi”: il ragazzo disabile la madre, il collega, il responsabile della struttura, ma anche personaggi interni quali il padre dell’educatore stesso, la cui presenza interna determina i vissuti e i comportamenti dell’educatore nei confronti del disabile .

L’IO ausiliario può anche rappresentare parti simboliche o fantastiche: ad esempio nel caso di prima può diventare il “senso del dovere dell’educatore”, oppure il senso di “peso sulle spalle” che fisicamente la relazione con il disabile dà all’educatore. L’IO ausiliario ha pertanto la funzione di rendere percepibili e visibili (e pertanto passibili di interazione e di confronto) gli altri reali e fantasmatici che popolano l’esperienza del protagonista.

L’IO ausiliario dal punto di vista del direttore ha la funzione di prolungamento dell’intenzionalità terapeutica o formativa; d’altro canto l’IO ausiliario fa’ da protezione alla trasposizione di attributi transferali sul conduttore. Nello psicodramma infatti il transfert viene agito sugli IO ausiliari e non sul terapeuta o formatore.

II.3.5. Le tre tecniche-chiave dello psicodramma: Doppio, Specchio, Inversione di ruolo

Doppio . Per capire che cosa si intende per doppio nello psicodramma basta pensare a ciò che la madre fa con il neonato quando tenta di intuire e rispondere ai suoi bisogni. La madre è il primo IO ausiliario della storia personale e sociale del bambino: una madre riesce a rispondere ai bisogni del suo bambino se riesce a “doppiarlo”, cioè a dare voce a quanto il bambino sente, desidera, teme ecc…

Il termine doppio rimanda al duplice significato di “doppiaggio cinematografico” (= dare voce a…) e di doppio nel senso di “altro uguale a me che vive accanto a me le stesse mie esperienze” (è frequente nei bambini la creazione del doppio immaginario fantastizzato, che li affianca nelle esperienze di vita). La tecnica del doppio consente in un gruppo di far percepire la universalità del percepire e far esaltare contenuti interni inespressi.

Specchio . Anche in questo caso è utile ricorrere all’immagine della figura materna che, dopo una prima fase nella quale deve soprattutto “doppiare” il bambino, inizia a fargli da specchio, rimandandogli la sua immagine e ristrutturando con dati di realtà la percezione egocentrica del bambino.

La tecnica dello specchio consiste nel riprodurre una scena o una postura del protagonista (ad esempio un atteggiamento perplesso di un educatore di fronte ad un collega) da parte degli Io ausiliari in modo che il protagonista stesso possa vedersi dall’esterno.

Si ha una situazione di specchio e di rispecchiamento nello psicodramma sia quando un membro del gruppo ha la possibilità di vedersi dall’esterno (percependo talvolta aspetti inediti o sconosciuti di sé), sia quando il rimando di realtà degli altri membri del gruppo (“Io ti vedo così…”) favorisce un insight di realtà e di maggiore consapevolezza dell’etero-percezione.

Inversione di ruolo : è la tecnica chiave dello psicodramma. Nello sviluppo psico-affettivo del bambino la capacità di inversione di ruolo (mettersi nei panni degli altri, vedere le cose dal loro punto di vista) segna il passaggio dall’egocentrismo alla capacità di relazione sociale e d’intimità. La tecnica dell’inversione di ruolo consente di allargare la consapevolezza delle proprie relazioni psicosociali ed al tempo stesso favorisce la capacità di individuazione dell’altro: non vi è infatti completa conoscenza di sé senza una almeno parziale uscita da sé, che consente un decentramento percettivo. L’inversione di ruolo è uno strumento potentissimo di ristrutturazione delle relazioni fortemente condizionate da elementi transferali, poiché avvicina alla vera umanità dell’altro, al suo peculiare modo di vedere la vita. Parafrasando il Vangelo Moreno dice: ” Ama il prossimo tuo attraverso l’inversione di ruolo ”

( Moreno, 1984: 158)

Realtà, semi-realtà e plus-realtà

E’ necessario definire questi tre termini poiché nel contesto psicodrammatico essi si alternano e si integrano in fasi successive. Gli spazi di realtà sono quelli nei quali il gruppo e il singolo si confrontano con problemi di realtà, con contenuti intellettuali o con piani di relazione reale (IO operatore X di fronte a te operatore Y). Solitamente si parte in un gruppo di formazione da un piano di realtà, che ricompare altre volte nel corso del lavoro e diventa centrale nella fase conclusiva.

La semi-realtà : è la condizione nella quale il gruppo o l’individuo si trova quando ci si sposta in un piano di gioco “come se”. In questo caso si parla di semi-realtà poiché le situazioni sono fittizie (l’IO ausiliario fa la parte del bambino disabile ma non è il bambino disabile ) ma le emozioni e i vissuti sono veri ed autentici. Quando vengono introdotte le tecniche psico- drammatiche si passa automaticamente ad un piano di semi-realtà.

Plus-realtà : è una “realtà arricchita” dal desiderio o da risorse aggiuntive (Moreno deriva questo concetto da un parallelo col plus-valore di marxiana memoria). E’ utile sia in formazione che in terapia provare a sperimentare come sarebbe o potrebbe essere la realtà se si modificassero alcune condizioni. In tal senso entrare in un piano di plus-realtà significa esplorare il mondo del possibile, del desiderato, del realistico e dell’irrealistico.

Da “Tele. Manuale di psicodramma classico”, Giovanni Boria, Franco Angeli/psicosociologia, 1988

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

SEPARARSI

IL DISTACCO COME OCCASIONE DI CRESCITA E DI TRASFORMAZIONE

 

Lo scorrere della vita ci espone alla separazione. La stabilità non esiste, l’illusione della sicurezza ci ingessa in un involucro che spesso non ci appartiene più. Lasciare un lavoro, una persona, una casa, o parti noi, ci pone al cospetto del sentimento della mancanza e del vuoto, un vuoto che ci consente l’atto creativo, un vuoto che è la molla propulsiva e generativa della costruzione di una nuova visione del futuro. Se non c’è la consapevolezza della nostra paura del cambiamento neghiamo bisogni ed emozioni come anestesia che ci preserva dal distacco da persone, cose, parti noi che non ci appartengono più.

E’ possibile affrontare la tristezza come risorsa positiva che ci permette di porre il confine tra il sé e l’altro. La tristezza è spazio introspettivo che introduce alla creatività, che da forma al nostro essere al mondo e ci permette di squarciare i veli dell’indistinto. Tristezza e dolore ci rendono sensibili e ci permettono di guardare la nostra “ferita” amandola; un processo che ci porta ad assumere il carico della nostra sofferenza per scoprire le strade che si diramano verso nuove possibilità.

La separazione, e la tristezza che la accompagna, ci pone dunque al cospetto della affermazione del nostro “essere al mondo” e del diritto di esistere, con i propri tempi, bisogni e confini e distanze: è il processo di affermazione della responsabilità e della possibilità di scegliere. Valorizzare le risorse interne significa ascoltare, accudire e soddisfare i nostri bisogni.

Spesso separarsi viene percepito come un “atto sanguinoso” portatore di una colpa che chiede una riparazione. La riappropriazione del senso di colpa ci preserva dall’essere vittime e carnefici di noi stessi. Sotto la colpa cova la rabbia dei nostri bisogni insoddisfatti; valorizzare il significato della colpa come uno degli elementi fondanti l’esperienza della separazione ci pone al cospetto del perdono che possiamo concederci e concedere.

Questo lavoro ci aiuta ad affrontare il guado di un distacco che non è distruzione della relazione ma cambiamento della relazione. Per separarsi bisogna incontrarsi, per incontrarsi bisogna separarsi.

OBIETTIVI

  • Esplorare i sentieri del cambiamento come avventura in cui potere immergersi accettandone la sfida e il rischio del nuovo.
  • Riconoscere la separazione come momento per fare emergere tutte le emozioni collegate al nostro sentimento del vuoto e individuare i bisogni che tali emozioni sottendono.
  • Riconoscere l’altro come distinto e non come prolungamento del sé e sperimentare la dimensione dell’incontro.
  • Scoprire, riconoscere, individuare il proprio diritto ad esistere con i propri tempi e i propri spazi.

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

UN VIAGGIO RIGENERANTE

Viaggiare. Andare via, lontano. Da tutto e tutti.
Quanto spesso abbiamo desiderato allontanarci dalla nostra vita quotidiana, dalle preoccupazioni, dallo stress o da determinate situazioni ?
Tutti, prima o poi, nella nostra vita, abbiamo pensato di “scappare” da quella che è la nostra situazione di tutti i giorni per recarci in “nuovi luoghi”, preferibilmente mai visti e mai conosciuti, alla ricerca di novità, o solo di riposo (fisico e mentale), ma spesso alla ricerca di una nuova consapevolezza di noi stessi, di quel che siamo o vorremmo essere.
Spesso si decide di andare via, lontano, a seguito di problematiche sentimentali: una storia finita, un periodo di riflessione, ma anche la consapevolezza di un amore impossibile.
Il viaggio diventa così “strumento di cura”. Cura soprattutto per la mente. Sovente il viaggio è necessario per il superamento di una dipendenza affettiva che è diventata troppo forte, persino patologica. O per affrontare la fine di un amore.
Quando una storia d’amore finisce, soprattutto se è stata lunga, può portare con sé tutta una serie di dinamiche psico-emotive, a volte persino a livello inconscio, che possono costituire un pesante fardello per andare avanti nella propria vita quotidiana.
Si può andare da una inquietudine leggera ma generale fino a livelli che possono divenire patologici. A mettere in guardia dalle conseguenze, spesso tragiche, dell’amore non corrisposto è uno psicologo londinese, Frank Tallis, sulle pagine della rivista “The Psycologist”. Soffrire per passione, sostiene Tallis, può diventare una vera e propria malattia. L’innamoramento, in molto casi, può essere un’esperienza “destabilizzante’” per l’individuo. Soprattutto se non si è corrisposti dall’oggetto del desiderio o quando un Amore finisce.
Ecco che il superamento di un’importante storia d’amore può, in tal modo, diventare il fulcro centrale e necessario per il proseguimento di una vita “normale”, per poter andare avanti con la propria vita quotidiana, per poter affrontare “quel che verrà dopo”.
Liberare il cuore dai residui di una storia d’amore non è una cosa facile, non per tutti almeno.
Il viaggio può essere d’aiuto in queste situazioni.
Come detto, l’allontanamento da particolari situazioni e contesti può essere fondamentale nel coadiuvare l’individuo in questo difficile processo di abbandono. Un processo spesso lento e graduale, che il viaggio contribuisce a rendere più agevole e meno traumatico.
Il fulcro del discorso va ricercato innanzitutto nelle motivazioni che spingono un soggetto al viaggio come “allontamento da situazioni cariche di valenza emotiva”.
Già diversi studiosi (Meyer 1977, Gulotta 1986, Przeclawki) hanno identificato diverse motivazioni alla base del viaggio: particolarmente importanti per il nostro discorso sono le motivazioni fisiologiche (turismo di salute, turismo ricreativo), le motivazioni interpersonali (desiderio di intraprendere nuove attività e di nuovi contatti con pesone diverse) e le motivazioni psicologiche (bisogni di tranquillità, relax, serenità, svago).
L’allontanarsi dal proprio contesto quotidiano, dove tutto ricorda la persona amata e la delusione d’amore, può già essere una forte motivazione a priori per decidere di viaggiare e andare lontano dalla propria routine quotidiana. Le motivazioni descritte costituiscono quindi un rafforzamento di una motivazione già presente nell’individuo.
In riferimento a queste motivazioni possiamo senz’altro richiamare la teoria bi-dimensionale di Iso Ahola (1987) secondo cui il comportamento turistico, quindi anche il viaggiare in seguito a una “delusione d’amore”, è condizionato da due forze che agiscono simultaneamente:
– la fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana
– la ricerca di ricompense psicologiche

In particolare, quello che ci interessa per il nostro discorso, è il primo punto della teoria, cioè la fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana. Secondo Iso Ahola per quel che riguarda il “mondo personale” del soggetto questa fuga dal quotidiano è motivata dall’evitamento di problemi personali, dubbi, difficoltà, fallimenti. Per quel che concerne il “mondo interpersonale” vi è invece l’evitamento di compagnia, amici, membri della famiglia.
Allontanarsi da una situazione quotidiana che richiama alla fine della “propria storia” (propria e di nessun altro), è un comportamento che può senza dubbio rientrare nella prima dimensione di questa teoria, quella della fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana appunto. Vi è infatti, dal punto di vista personale, il cercare di evitare tramite il viaggio i pensieri, i problemi e le situazioni che richiamano alla propria situazione particolare; dal punto di vista interpersonale vi può essere la propensione ad evitare ogni tipo di compagnia conosciuta per cercare nuove interazioni sociali con persone nuove.
Bisogna però ricordare che il legame fra motivazioni e comportamento non è così automatico: spesso la vacanza può essere abbastanza lunga da permettere una vasta e differente gamma di attività, ognuna delle quali è svolta per rispondere a esigenze e motivazioni particolari che possono essere del tutto nuovo e non essere state considerate nel momento in cui la vacanza era stata progettata. Inoltre, in particolari situazioni, come può essere quella del cercare di affrontare una delusione d’amore, il soggetto-turista non è neppure cosciente di tutte le ragioni delle sue scelte.
Oltre a tutto quello fin qui considerato c’è un altro aspetto fondamentale da prendere in considerazione: la soddisfazione.
Quando termina un amore, o meglio, una storia d’amore particolarmente importante, nell’allontanarsi dal proprio contesto di vita quotidiana vi può essere la voglia di una ricerca di soddisfazione, di nuove gratificazioni, spesso di una soddisfazione interiore, una ricerca “dentro sé stessi” per realizzare una nuova coscienza del proprio io interiore. È un modo per andare oltre, per superare il momento particolare che l’individuo (ed il suo io personale) sta vivendo.
Secondo l’approccio della motivazione post-hoc, definito da Mannell e Iso-Ahola (1987), le differenze verso certe attività e le soddisfazioni che ne deriverebbero sono basate su una varietà di bisogni determinati biologicamente e appresi socialmente. Gli individui, dunque, sarebbero coscienti dei propri bisogni e delle proprie motivazioni di tempo libero, sarebbero di conseguenza capaci di elaborare giudizi molto accurati sul proprio grado di soddisfazione. Eventi che hanno un grosso impatto sulla sfera emotiva individuale e che (spesso) si è incapaci di affrontare, come appunto la Fine di un Amore, porterebbero dunque alla ricerca di determinate attività e soddisfazioni piuttosto che altre. Gli individui, come detto “coscienti dei propri bisogni e delle proprie motivazioni di tempo libero”, in questi casi potrebbero propendere per un allontanamento totale dal contesto di vita quotidiana, alla ricerca di attività e soddisfazioni del tutto nuove.
In definitiva, il viaggio come superamento della fine di un amore o di una dipendenza affettiva può essere una terapia molto efficace. L’allontanarsi, anche fisicamente, dalla “propria storia d’amore” porta ad una riflessione più accurata e critica del proprio vissuto, di quello che è stato, di quello che è e persino di quello che potrà essere. Ecco che nel viaggio può subentrare un “accettarsi diversamente”, come conseguenza della scoperta di un diverso sé, del tutto nuovo, che può fare da base di partenza verso “il resto della propria vita”. Il viaggio, infatti, può aiutare a riflettere più efficacemente, senza distrazioni, può aiutare a guardare in faccia la realtà, può riuscire a mettere l’individuo davanti all’evidenza delle cose e a chiamarle col proprio nome (tradimento, perdita, separazione, distacco, cambiamento).
Naturalmente non c’è una ricetta assoluta, una panacea per risolvere il mal d’amore attraverso il viaggio.
Anche dell’allontanamento, del viaggio, se ne può fare uso differente. Può essere un tempo di riflessione, una occasione per orientare la propria vita verso nuovi punti di riferimento meno illusori. Si può trovare un nuovo equilibrio, dando un nuovo significato alla propria vita senza il “vecchio amore”.
Oppure anche il viaggio, senza andare alla ricerca di un nuovo significato per la propria esistenza, può divenire semplicemente lo strumento per dimenticare la fine del proprio amore attraverso la ricerca di nuove esperienze, di nuove attività, di nuove persone. In questo caso, il Mal d’Amore spesso è solo riposto in un angolino della propria coscienza, raramente viene superato.
Il confine tra questi due modi di affrontare questa situazione è spesso molto vicino e confuso.
Quel che è certo, al di là di tutto, è che comunque il viaggio può essere certamente d’aiuto, anche solo per il fatto che allontanarsi da un contesto carico di emotività porta l’individuo ad una prima riflessione più critica ed accurata della proria situazione.
E questo può già essere un primo importante passo.

Alessandro Mereu
Psicologo
Esperto in Psicologia del Turismo 

www.psicologiaturistica.it

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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