TRADIRE: L’ALTRA FACCIA DELL’AMORE

Presentazione del libro Tradire: l’altra faccia dell’amore del dott.Pasquale Romeo Edito da Bastogi

Questo scritto nasce un pò sul serio e un pò sul faceto e tende a considerare la coppia in una modalità diversa dal precedente Amore e Caos in cui la valutazione è principalmente sugli aspetti affettivi.

Questo lavoro in un certo senso è anche collegato al primo SOLI SOLI SOLI, si fa riferimento a se stessi, nella vita di coppia ed a tutto ciò che non riusciamo a capire di noi, forse perché non sufficientemente analizzato in solitudine, che ritorna prepotentemente sotto forma di destino, spesso infrangendo la vita di coppia e consengnandoci a situazioni diverse e fuorvianti che sono indispensabili per raggiungere degli aspetti di sé, che invocano, che chiamano, che rappresentano in un certo senso quel grido degli agnelli, il silenzio degli innocenti sapientemente descritto in qualche interpretazione cinematografica.

La scelta dell’argomento come quello del tradimento è perchè in esso è presente una traccia di una vita nascosta, di ciò che spesso facciamo fatica a manifestare e che si cela dentro di noi in varie forme, tanto che solo un.analisi attenta ne può dare pienamente conto.

L’analisi terapeutica ci consente a volte di scoprire parti di noi misteriose che solo con la relazione alchemica, vissuta con l’analista, si svelano nella sua profondità, nelle sue forme più arcane e diventano un modus operandi tanto veemente da costringerci a prendere scelte, o a farci prendere da quello che comunemente chiamiamo destino e che forse corrisponde solo a parti recondite di noi.

Da SOLI SOLI SOLI a AMORE E CAOS ad oggi vi è una visione più scanzonata ed allegra al problema, ed in TRADIRE: l’altra faccia dell’amore si vuole solo trovare delle soluzioni alla mancanza di un senso, a ciò che spesso si muove al di fuori degli orizzonti razionali e spesso diviene misterioso ed insolvibile.

Si troveranno, perciò, degli aspetti teorici relativi al tradimento ed anche molti esempi pratici che mettono in luce attraverso dei commenti, nella nuda maniera, varie forme dello stare con l’altro, che inquietano e svelano ciò che raramente ci soffermiamo a vedere e che rappresenta parte della nostra vita quotidiana.

Questo lavoro nasce dall’intenzione di dare una visione differente al tradimento e fargli acquisire quella rilevanza che ha nella vita comune e che ci appartiene nonostante le nostre resistenze. Forse non è qualcosa da rifiutare da rinnegare da rendere come qualcosa di cattivo e nefasto che fuoriesce dall’umana specie.

Giuda luogo comune del tradimento, di cui si parlerà più avanti, rappresenta colui che è lo strumento perché Gesù venga tradito. Il tradimento di Giuda non è una cosa imprevedibile, fuori dalla quotidianità, ma invece ciò che sembra già previsto nei programmi divini. E’ la necessità che fa esprimere a Gesù la frase: prima che il gallo canti mi tradirai tre volte, proprio ad indicare che lo farai tu Giuda, che sei la persona predestinata ed indispensabile per portare la verità: Dio si è fatto uomo ed è risuscitato. Il Vangelo ci fa riflettere sul tradimento e ci indica la strada della verità che si muove attraverso il tradere, il consegnare parti di se all’altro, affinché nuovi aspetti si realizzino ed ognuno possa trovare o ritrovare ciò che rappresenta la propria vocazione, la verità che vive e vegeta dentro di noi.

Questo lavoro non vuole essere una breve giustificazione al tradimento cosa che farebbe comodo a molti, né un modo per trovare nuove interpretazioni a una pratica che è sempre esistita con l’uomo e è rimasta sempre uguale nei millenni.

Questo breve scritto intende soltanto rimarcare la possibilità che il tradimento ci appartiene, vedi il caso di Giuda, che senza di questi manca qualcosa della nostra umana natura. Una corretta valutazione della tematica del tradimento ci consente di uscire dalle problematiche della colpa e trovare nuovi orientamenti in un campo complesso e pratico come quello degli aspetti psicologici.

Il tradimento nella sua chiave di lettura più vasta altro non è che una ricerca di un senso, un momento nuovo ed iniziatico per riscoprire parti nuove di sé. Mi è sembrato vicino per alcuni aspetti alla ricerca del Graal, alla ricerca della propria individuazione, alla ricerca di aspetti esoterici che sono sempre esistiti con l.uomo per trovare fuori ciò che in realtà noi abbiamo dentro.

Uno dei motivi di questo libello utilizzando il tradimento è forse psicoterapico. Come ogni psicoterapia ognuno di noi si muove alla ricerca di una strada interna, di una vocazione, del raggiungimento delle proprie risorse, della nostra capacità di esprimerci al di fuori delle prigioni della nostra mente.

Una mia paziente stava con un tizio da tanto tempo, ormai erano in procinto di sposarsi, tutto sarebbe accaduto serenamente, almeno per il momento, fino a quando durante la psicoterapia non successe qualcosa, la persona in seduta si accorse che qualcosa di importante non funzionava, che il matrimonio era solo la realizzazione di una spinta distruttiva e così improvvisamente senza accorgersene apparse miracolosamente un nuovo orizzonte una scogliera differente, una nuova grotta, il panorama assunse nuove tinte e la paziente lasciò il suo partner.

A volte improvvisamente si aprono nuovi scenari e tutto ciò che pensavamo appartenesse alla nostra vita cambia e repentinamente, come colui che vede la luce, si aprono nuovi spazi sapienti come in una nuova iniziazione In questa strada la verità è bendata, non si trova se non nel proprio cuore. A volte è necessario capovolgere ogni cosa per la ricerca di particolari significanti. Una valutazione psicoterapica può riuscire a capire ed a comprendere.

Alcuni riti esoterici si avvicinano molto in questa ricerca del luminoso e del divino e l. iniziazione può esprimere la ricerca di una nuova luce nascosta che ognuno di noi si porta dentro di sé se si distacca sufficientemente dai beni materiali.

Il tradimento a volte viene paragonato ad un momento illuminante, la persona con cui si tradisce alla luce, a colui che mette un senso nella propria vita che dà un forma e consente di mettere uno scheletro ad un momento invertebrato della nostra vita.

La luce e la musica sono molto vicine, la luce prende gli occhi, la musica le orecchia la in entrambi i casi nutrono la nostra mente di nuovi panorami.

Dott. Pasquale Romeo

Psichiatra – Psicoterapeuta

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

UNA LETTURA CORPOREA DEL DISTURBO DA DIPENDENZA AFFETTIVA

Come tutti i tipi di disturbi psicologici, anche nel caso dell’addiction è possibile riscontrare nel corpo difficoltà riconducibili alla relazione e la cui regolarizzazione, effettuata anche per mezzo di esercizi fisici, può influire positivamente nel recupero del disturbo specifico.

 

Nello scrivere questo breve articolo non posso fare a meno di alcune brevi premesse che, presentando il mio punto di vista, rendano più facilmente comprensibile quanto andrò dicendo.

Tali premesse sono tanto più necessarie quanto più mi rendo conto di un taglio particolare, e tuttora imperante, nella lettura delle cose psicologiche, nonostante i notevoli cambiamenti che sollecitano una collaborazione tra i diversi punti di vista.

La realtà psicologica è comunemente intesa come il frutto del funzionamento del cervello e quindi è spesso presentata come un epifenomeno. Ora, dato che il modo di considerare le cose psicologiche determina anche il tipo di approccio terapeutico, e quindi il tipo d’intervento che s’intende adottare nel contesto di un disturbo, ed essendo il cervello un continuo processo chimico, diventa facile pensare alla pillola che risolve il problema.

Ebbene, io non credo che quella che definiamo “la mente” sia prodotta dal solo funzionamento cerebrale e non credo che il cervello sarebbe in grado di funzionare senza il corpo; inoltre sono convinto assertore del fatto che sia il corpo a contenere il cervello e che insieme, cioè tutto il corpo, compongono l’essere che siamo nella sua capacità di leggere il reale e di interagire.

Così sono convinto che non esiste il cosiddetto “controllo dell’Io” se non anche nella capacità della persona di controllare gli occhi, il corpo e le sue funzioni integrate. Mentre quello che definiamo il Sé credo che sia relativo al sentimento che accompagna lo svolgimento delle funzioni stesse e che la sua consapevolezza sia molto più antica di quanto non vogliamo ammettere; forse risale a prima della nascita. Perciò penso che il Sé sia precedente alla nascita dell’Io e che ambedue le istanze, le loro funzioni e i processi, sono legate anche alle espressioni corporee e non credo quindi che siano solo aspetti cognitivi e mentali della nostra personalità. Questo vuol dire anche che i disturbi, e quello che definiamo disfunzionale nell’economia psicologica di una persona, deve essere verificabile anche nella dimensione corporea.

Perciò, quando nel corso dell’articolo parlerò dell’Io e delle sue funzioni, farò riferimento al complesso dell’organismo e alla complessità delle sue funzioni, sia psichiche sia fisiche, e le une avranno sempre un legame di rimando nelle altre, nel senso che il fisico è nello psichico e viceversa. Così tutte le istanze che definiamo psicologiche penso che debbano avere un’eco nel corpo allo stesso modo di come tutto ciò che avviene nel nostro corpo è rappresentato nella mente.

In sintesi, penso che ogni tentativo teorico speso nella definizione e analisi di eventuali disturbi debba tenere conto contemporaneamente dei livelli sia corporei che mentali e lo sforzo terapeutico debba a sua volta tenere conto di ambedue le dimensioni.

Questo deve valere anche per la “dipendenza affettiva”.

Spesso il DAP (Disturbo da Attacchi di Panico) è associato, se non addirittura assimilato, al disturbo che si rivela attraverso una difficile costanza dell’oggetto e che è definibile con la sindrome che esso genera. Appunto disturbo derivante da un’eccessiva dipendenza affettiva.

In realtà esistono similutidini e differenze in queste due evenienze come del resto in tante altre manifestazioni; differenze che vanno annotate e di cui sarebbe opportuno tenere conto in un eventuale intervento sia psicologico sia medico.

Come per la dipendenza affettiva, possiamo dire che l’attacco di panico non è una malattia ma il modo di reagire di alcune persone a determinati eventi della loro vita. Allo stesso modo altre persone, piuttosto che con il panico, reagiscono con lo sconforto, l’accoramento e a volte anche con la conversione.

In questi casi sindromici “quasi” simili la distinzione potrebbe essere ricercata nella genesi dei singoli disturbi supponendo sviluppi alternativi che rendano conto più puntualmente di alcuni aspetti.

Proviamo ad ipotizzare comportamenti risalenti ai primi anni dalla nascita.

Ciò che secondo il mio punto di vista ci porta ad accomunare erroneamente il disturbo di dipendenza affettiva al disturbo di panico, dipende dal fatto che ambedue i disturbi hanno un qualcosa a che vedere con la relazione. Infatti ambedue i casi di disturbo sono, dalla relazione e nell’ambito della stessa, scatenati anche quando, in apparenza, non esistono elementi evidenti cui è possibile ricondurre lo scatenamento.

Ciò che invece notiamo immediatamente come differente sono le diverse manifestazioni comportamentali di ansia, nel caso della dipendenza, e destabilizzazione nel caso del panico.

In alcuni casi la destabilizzazione espressa nel panico viene interpretata come un’espressione esasperata dell’incapacità di fare a meno dell’oggetto e quindi a volte, il portatore di panico viene incluso nella categoria dei sofferenti di addiction.

La manifestazione panica penso possa essere ricondotta all’ipotesi formulata nei miei articoli precedenti pubblicati sul sito della LIDAP ai seguenti indirizzi: http://www.lidap.it/ciardiello.html – http://www.lidap.it/ciardiello2.html).

In quegli articoli ipotizzo che il vissuto di panico possa essere ricondotto ad una realtà infantile in cui l’aggressività prodotta dalla frustrazione materna sia rivolta contro l’Io. Nell’addiction invece ho l’impressione che la dinamica infantile si forma intorno alla difficoltà interna del soggetto di pervenire alla costruzione di un Io che possa fare a meno del supporto di un elemento esterno di relazione che funga da “collante”.

In pratica, mentre nel panico l’aggressività derivante dalla disattenzione o dalla fuga o dalla distrazione materna (o della figura primaria di relazione) si rivolge contro l’Io sottraendogli il collante, che normalmente è vissuto come il “dono” che il bambino ha fatto alle figure importanti, nel caso dell’addiction è possibile ipotizzare che quel bambino non è stato in grado di produrre il collante o non è stato messo in grado di produrlo dalle figure di cura. Per cui la funzione di collante delle funzioni dell’Io continuano per tutta la vita ad essere svolte dalle figure significative di volta in volte diverse. È come dire che la persona affetta da questo disturbo continua a “proiettare” nelle/sulle persone che trova significative della sua vita, la capacità aggregante della sua personalità. Capacità che avrebbe dovuto imparare a fare propria in qualità di dono per la figura primaria.

Questa modalità di relazione è appartenuta praticamente a tutti nel corso della propria esistenza. Cioè ognuno di noi ha avuto un momento della propria vita in cui era importante proiettare sugli altri una capacità aggregante; era come un delegare agli altri significativi, il papà, la mamma o altri che si prendevano cura di noi, la responsabilità di ciò che eravamo.

Era da queste persone che ci arrivava la conferma, la rassicurazione, il supporto e l’appoggio di ciò che eravamo e che dovevamo essere.

Nella relazione di fiducia che si costruiva, e si confermava ogni giorno, si specchiava costantemente l’immagine e l’idea di ciò che eravamo e che negli anni ognuno di noi ha imparato a fare propria. Così io oggi probabilmente sono anche ciò che vedevo rispecchiato negli occhi di mia madre quando mi guardava quindi sono, nel contempo, ciò che voglio, ciò che ho voluto ma anche ciò che lei ha voluto che io diventassi e questo specialmente nelle prime fasi della mia esistenza..

Il momento successivo della nostra crescita è quello che vede il bambino acquisire tanta fiducia in sé, anche grazie a questi rimandi familiari, da cominciare a sentire come un requisito proprio e personale la costituzione di un essere unico. Impara a farlo anche appropriandosi gradatamente del comportamento dei genitori che dall’inizio della vita controllano le sue azioni e ne perfezionano i comportamenti. È un po’ come quando impariamo il corretto uso del cucchiaio che da piccoli si realizza con un graduale controllo interiore di volta in volta confermato dai genitori.

Ora, mentre nella manifestazione di panico si può ipotizzare che l’affetto della figura di riferimento è venuto meno dopoche il bambino ha raggiunto la costruzione dell’io, con la definitiva acquisizione della capacità di fornire le singole funzioni dell’Io del materiale aggregante (la “colla” che, per esempio, tiene insieme la capacità del bambino di tenere in mano il cucchiaio e, dall’altro lato, la capacità di compiere un gesto del braccio che porta il cucchiaio alla bocca. La gioia espressa dagli occhi della madre funge da alimento, sostegno e solidificazione per l’acquisizione di questa capacità che è ulteriormente sostenuta, nel bambino, dal desiderio di gratificare con l’autonomia la madre), nel caso dell’action invece si può pensare che la figura di sostegno non abbia operato alcun “tradimento” nei confronti del bambino, ma che, molto più semplicemente, non ha mai stimolato in lui l’acquisizione della capacità aggregante.

I motivi possono essere stati diversi.

La madre (o chi per lei) potrebbe aver avuto bisogno della dipendenza del bambino perché questa la faceva sentire utile, importante e poteva contribuire a dare senso alla sua vita.

Da questo punto di vista non dobbiamo cercare le colpe perché, malgrado l’apparenza, tale atteggiamento è molto più frequente di quanto non si immagini e inoltre non è affatto consapevole. Il bisogno di dare senso a un’esistenza non è solo delle madri e dei padri ma fa parte dell’essere uomini e individui. E un figlio dà un tale senso all’esistenza che a volte ci riempie tutta la testa e ci lasciamo prendere a tal punto da quest’amore da non riuscire più a distinguere la funzionalità di ciò che dovremmo fare ed essere per lui.

D’altro canto invece può essere accaduto che non ci fosse tempo per questo figlio; che gli eventi della vita fossero così esigenti da richiedere tutta l’attenzione di questa madre, che doveva farsi veramente in quattro, per la sopravvivenza.

Situazioni incresciose e di poco alimento (affettivo emozionale ma anche materiale, di cibo vero) possono aver determinato carenze di sostegno (anche fisico quindi) emotivo in relazione proprio ai vissuti di integrazione funzionale dell’Io. Quando questi eventi si presentano nel periodo di maggiore sensibilità evolutiva nella vita di una persona, e distolgono le attenzioni genitoriali da questa dinamica costruttiva, si rischia che il bisogno di supporto aggragante si “incisti” nella personalità di un individuo e si prefiguri come il frattale maggiormente ridondante nella sua vita.

Quali le conseguenze?

A parte gli aspetti psicologici come l’estrema dipendenza dalle figure importanti e il precipitare di crisi depressive reattive, mi sembra interessante il prefigurare la possibilità di far risalire questo disturbo di “mancanza di stabilità” (emotiva?) alla “mancanza di equilibrio”.

Questa lettura del disturbo ci consentirebbe di pensare ad un intervento terapeutico che preveda la disamina di esperienze psicologiche, associate ad esercitazioni anche fisiche, di appoggio, equilibrio, e focalizzazione dell’attenzione.

Queste esperienze, mirate per ogni singola persona e condotte con competenza tecnica, potrebbero rappresentare valide esperienze per dare un senso all’introiezione della capacità di farcela da soli.

Ulteriori suggestioni inerenti l’articolo possono essere sollecitate dalla lettura dei seguenti libri:

Ramachandran V. S., Blakeslee S., “La donna che morì dal ridere”, Saggi Mondadori, 1999.

Lowen Alexander, “Il linguaggio del corpo”, Feltrinelli Ed. XVIII, 1998

Glen O. Gabbard, “Psichiatria psicodinamica”, Raffaello Cortina Ed., 1995.

Dott. Giuseppe Ciardiello

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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RELAZIONI DIPENDENTI O CODIPENDENTI

Le relazioni nella dipendenza dal sesso spesso presentano caratteristiche di uno di due modelli comuni.

Il primo è quello di un dipendente ed un codipendente, con dinamiche in certo qual modo prevedibili.

Il secondo modello frequente è quello di un “dipendente affettivo” ed un individuo “evitante”.

Di seguito si trova una descrizione di entrambi i modelli ed il modo in cui agiscono nella fase di recupero.

Nessuno dei due modelli può essere considerato perfettamente esaustivo nella descrizione di una particolare relazione, ma può essere utile rilevare le loro caratteristiche.

 

MODELLO DIPENDENTE/CODIPENDENTE

Persona

 

Dipendente dal sesso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Codipendente

Desideri

 

Approvazione

 

Sensazioni d’intensità erotica/ distrazione

 

Un magico attaccamento sessuale che guarirà tutte le ferite

Paure :
Noia/
Senso di vuoto

Vergogna/intimità

 

Andare fuori controllo

 

 

Approvazione attraverso l’essere necessario all’altro,aiutare ed essere aiutati

 

Una relazione sicura

 

Paure:

L’abbandono

 

Vulnerabilità

Attratto da

 

Persone “sessualmente attraenti”

 

Fantasia: Approvazione proveniente dagli altri

 

Altre persone emotivamente stabili che si prendano cura di loro

 

 

 

 

 

 

 

 

Individui che hanno bisogno di genitorialità

(dipendenti o disfunzionali e bisognosi di essere aiutati, così come erano i genitori codipendenti)

 

Comportamenti

 

Sesso impersonale

 

Ricerca di approvazione momentanea con altri “perfetti” che poi si rivelano imperfetti.Ne risultano relazioni seriali e non intime

 

Coinvolgimento in relazioni con codipendenti, ne derivano interessi affettivi al di fuori della relazione

 

 

 

 

 

 

Aiutano le persone in crisi

 

Rimangono nella relazione anche quando chiaramente insoddisfacente

 

Cercano di controllare il comportamento del dipendente, perfino, a volte, rendendo incapace il dipendente di rimanere tale

Sviluppo delle relazioni

 

Arriva a toccare il fondo ed inzia il recupero provando notevole sofferenza

Si volge ad una approvazione romantica dagli altri o ripristina una relazione codipendente, in entrambi i casi senza affrontare adeguatamente i propri problemi d’intimità ed autostima. (In più l’individuo evitante si unisce al gruppo di recupero ma ne rimane ai confini).

La strategia di recupero fallisce, si ha una ricaduta che implica un toccare il fondo ancora più intenso.
Riprende il recupero, più lentamente questa volta, con più attenzione all’auto approvazione, all’intimità non sessuale, ed alla tolleranza di sentimenti di solitudine e vuoto

 

 

Possono voler possedere il dipendente
Divengono frustrati quando il comportamento del dipendente è più estremo di ciò che vogliono, ma rimangono nella relazione perché hanno paura di lasciarla

 

Se il dipendente inizia il recupero, il codipendente può ricercare un nuovo dipendente che apprezza ed ha bisogno delle sue capacità di aiuto

 

 

MODELLO “DIPENDENTE AFFETTIVO”/INDIVIDUO EVITANTE

 

Persona

Dipendente affettivo

Desideri

Sicurezza, approvazione,
“identità” (fusione)

Paure:

La paura più grande è l’abbandono

La paura soggiacente è quella di una sana intimità (nel rapporto il nucleo della persona rimane in realtà isolato).

 

 

 

Attratto da

Individui autonomi che appaiono forti, stabili (spesso evitanti o ossessivo compulsivi, come erano le loro famiglie d’origine)

Comportamenti

Costituire una nuova relazione prima di lasciare quella attuale, formando relazioni – triangolo

Vicinanza subitanea, ricerca di un sentimento “magico”

Idealizzazione del partner

Ossessione sul partner

Parlare ossessivamente con gli altri di “lui” o di “lei”

Mostrare rabbia e sentimenti di rivalsa per essere stati abbandonati

Sviluppo delle relazioni

Nega quanto in realtà si trova costretto e limitato nell’evitante

L’evitante gradualmente diviene distante e si chiude, in qualche modo abbandona la relazione

Il dipendente affettivo mostra rabbia e rivalsa, torna a rivolgersi a relazioni occasionali e sesso di tipo dipendente

 

Il partner si arrende e riprende la relazione oppure il dipendente affettivo instaura una nuova relazione.

Il senso di se’ e l’autostima non si sviluppano, il dipendente affettivo rimane in una posizione dipendente.

Si deve sviluppare la capacità di tollerare la paura ed il disagio perché sia possibile la crescita.

 

 

 

Evitante

 

Vuole unirsi ma non da vicino

Paure:

La paura più grande è l’intimità/coinvolgimento

Può risultare arduo per lui respingere gli altri o dire di no

 

Individui che provvedano ad entusiasmo ed intimità per entrambi

 

Completa ambivalenza. Possono vivere una relazione per il solo fatto di non saper dire di no.

 

Può mostrare un iniziale, tradizionale perseguimento romantico, ma fondamentalmente entra in relazione perché è il dipendente affettivo che procura l’ “energia intima”, può temere di non essere altrimenti in grado di affrontare una relazione.

Mentre il dipendente affettivo richiede sempre più attenzione, l’evitante cerca di accontentarlo, almeno inizialmente.

Infine l’evitante viene sopraffatto dal totale attaccamento e/o dagli eccessivi bisogni del dipendente affettivo, diviene critico ed in ultimo abbandona la relazione.

Percepisce il fallimento della relazione, a volte viene coinvolto in un comportamento dipendente o in relazioni occasionali per allontanarsi, distrarsi o stordirsi.

Può tornare alla relazione per senso di colpa o paura di essere completamente solo oppure muovere ad un nuovo partner.

Il ciclo

abbandono/ritorno

può andare avanti e ripetersi molte volte, specialmente se il dipendente affettivo si rivolge al di fuori della relazione

 I modelli riportati in queste tabelle sono stati descritti da Pia Mellody nel suo libro “Affrontare la dipendenza affettiva” – 1992.

 

Articolo tratto da http://www.healthymind.com/s-relationships.html

Traduzione di Elisabetta Vatielli ( www.myspace.com/elisapoesia )

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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TIPOLOGIE DEI DIPENDENTI AFFETTIVI (di Susan Peabody)

Introduzione

La dipendenza affettiva è un problema grave. Non solo è “la droga per eccellenza” per molte persone, ma ci sono migliaia di alcolisti e tossicodipendenti in recupero che soffrono di dipendenza affettiva e non ne sono coscienti.

La dipendenza affettiva può essere meno problematica rispetto alla loro dipendenza da droga o alcohol, ma può minare il loro recupero da queste sostanze.

Questo articolo è stato scritto originariamente per l’Associazione “Love Addicts Anonymous” (Dipendenti Affettivi Anonimi) per permettere alle persone di comprendere se soffrano di questo disturbo.

Categorie tipiche di dipendenti affettivi

Dalla prima pubblicazione di “Addiction to love” (Susan Peabody – 1989) non molto è cambiato nel mondo della Dipendenza Affettiva eccetto il modo in cui la consideriamo.

Nel 1989, ciò che sapevamo di questo disturbo emergeva ancora dalle nostre conoscenze sulla Codipendenza. Allora, per molti di noi, Dipendenza Affettiva e Codipendenza erano un’unica cosa. Tuttavia oggi comprendiamo che ciò non è vero.

Il dipendente affettivo codipendente è solo uno dei molti tipi di dipendente affettivo. Per comprendere in modo chiaro come i dipendenti affettivi si differenziano tra loro, ecco un’elenco:

Dipendente Affettivo Ossessivo

Gli OLA (Obsessed Love Addicts) non riescono a lasciar andare il partner, neanche se questi è: non disponibile, a livello emotivo o sessuale, impaurito di impegnarsi, incapace di comunicare, non amorevole, distante, abusivo, indagatore e dittatoriale, egocentrico, egoista, dipendente da qualcosa al di fuori della relazione (hobbies, droghe, alcohol, sesso, un’altra persona, il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, etc)…

Dipendente Affettivo Codipendente

CLA (Codependent Love Addicts) sono i più ampiamente riconosciuti. Rappresentano un profilo particolarmente comune. Molti di loro soffrono di scarsa autostima ed hanno un modo di pensare, sentire e comportarsi, in certo modo, prevedibile.

Ciò significa che da una condizione di insicurezza e bassa autostima cercano disperatamente di rimanere attaccati alla persona da cui sono dipendenti, manifestando un comportamento codipendente. Questo include: essere permissivi, aiutare, prendersi cura del partner, esercitare un controllo passivo – aggressivo ed accettazione di abbandono ed abusi. In generale, i CLA faranno di tutto per “prendersi cura” dei loro partner nella speranza di non essere lasciati o di essere un giorno ricambiati.

Dipendenti dalla Relazione

Gli RA (Relationship Addicts), a differenza degli altri dipendenti affettivi, non sono più innamorati dei loro partners ma sono incapaci di lasciarli andare, di rinunciare. Solitamente sono così infelici che la loro relazione mina la loro salute, il loro spirito e benessere emotivo.

Anche nel caso in cui i loro partners li picchino o sappiano di essere in pericolo, essi sono incapaci di rinunciare al rapporto. Hanno il terrore di rimanere soli. Hanno paura del cambiamento. Non vogliono ferire o abbandonare i loro partners. Tutto ciò può essere descritto come: “Ti odio, non lasciarmi”.

Dipendenti Affettivi Narcisisti

Gli NLA (Narcissistic Love Addicts) utilizzano il dominare l’altro, la seduzione ed il trattenere l’altro per controllare i propri partners. A differenza dei codipendenti, che sono disposti a tollerare un notevole disagio, i narcisisti non accondiscendono a nulla che possa interferire con la loro felicità.

Sono assorbiti da se stessi e la loro bassa autostima è mascherata dalla loro grandiosità. Inoltre, piuttosto che essere ossessionati dalla relazione, gli NLA appaiono distaccati ed indifferenti. Non sembrano affatto essere dipendenti. Raramente ci si può accorgere che gli NLA siano dipendenti finché il partner non cerca di lasciarli. Allora non saranno più distaccati ed indifferenti. Entreranno in uno stato di panico ed useranno qualsiasi mezzo a loro disposizione per protrarre la relazione, incluso l’uso di violenza.

Molti psicologi hanno rifiutato l’idea che i narcisisti possano essere dipendenti affettivi. Può darsi ciò sia avvenuto perché raramente i narcisisti ricercano un trattamento terapeutico. Tuttavia, se mai capiti di poter vedere come molti narcisisti reagiscono all’abbandono, temuto o reale, ci si accorgerà che certamente essi presentano le caratteristiche del dipendente affettivo.

Dipendenti Affettivi Ambivalenti

Gli ALA (Ambivalent Love Addicts) soffrono di un disturbo di personalità evitante. Non hanno particolari problemi a lasciar andare il partner, hanno invece molti problemi ad andare avanti. Bramano disperatamente l’amore ma allo stesso tempo sono terrorizzati dall’intimità. Questa combinazione di tendenze è agonizzante.

Gli ALA sono a loro volta divisibili in categorie:

Torch Bearers (portatori di una fiamma) sono ALA che sono ossessionati da persone non disponibili. Ciò può avvenire senza che questi compiano alcuna azione (soffrire in silenzio) oppure con la ricerca di contatto con la persona amata.

Alcuni Torch Bearers sono più dipendenti di altri. Questo tipo di dipendenza si nutre di fantasie ed illusioni. E’ anche conosciuta come “amore non corrisposto”.

Sabotatori sono ALA che distruggono le relazioni quando queste cominciano a diventare serie o in qualsiasi momento venga percepita la paura dell’intimità. Ciò può accadere in qualunque momento, prima del primo appuntamento, dopo il primo appuntamento, dopo il rapporto sessuale, dopo che si sia manifestato il timore dell’impegno.

Seduttori Rifiutanti (Seductive Withholders) sono degli ALA che ricercano una persona quando desiderano un rapporto sessuale o compagnia. Quando si sentono impauriti o in pericolo cominciano a rifiutare compagnia, sesso, affetto, qualsiasi cosa li renda ansiosi. Se lasciano la relazione sono soltanto Sabotatori. Se invece continuano a ripetere il modello disponibile/non disponibile sono Seduttori Rifiutanti.

Dipendenti Romantici sono ALA che dipendono da più partners. A differenza dei dipendenti dal sesso, i quali cercano di evitare del tutto il legame, i Dipendenti romantici si legano ad ognuno dei loro partners, in grado diverso, anche se i legami romantici sono brevi ed avvengono simultaneamente.

Con “romantica” intendo una passione sessuale ed una pseudo intimità emozionale. Da notare che, sebbene i Dipendenti romantici si leghino a ciascuno dei propri partners, in vario grado, il loro scopo, insieme alla ricerca dell’intensità delromance e del dramma, è di evitare l’impegno ed il legame su di un piano più profondo con il partner. Spesso i Dipendenti romantici vengono confusi con i Dipendenti dal sesso.

Nota sui Dipendenti Affettivi Ambivalenti:

Non tutti gli evitanti sono dipendenti affettivi. Se si accetta la propria paura dell’intimità e delle interazioni sociali e non ci si lascia attrarre da persone non disponibili o semplicemente si crea un piccolo cerchio sociale, non si è necessariamente dei Dipendenti Affettivi Ambivalenti.

Ma se ci si strugge, anno dopo anno, su di una persona non disponibile o si tende a sabotare una relazione dopo l’altra o si hanno relazioni romantiche occasionali seriali o si avverte la vicinanza solo con un altro evitante, allora si può parlare di Dipendenti Affettivi Ambivalenti.

Combinazioni

Si può scoprire di soffrire di più di un tipo di dipendenza affettiva. Molte di queste categorie si sovrappongono o combinano con altri problemi comportamentali. Per esempio si può avere il caso del codipendente, alcolista, dipendente affettivo. Oppure di un Dipendente Affettivo/Relazionale.

La cosa più importante è identificare il proprio profilo personale per sapere con che cosa ci si stia confrontando.

 

Susan Peabody (http://brightertomorrow.net/index.html)

Traduzione di Elisabetta Vatielli ( www.myspace.com/elisapoesia )

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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IL MASOCHISMO: IL PUNTO DI VISTA PSICOANALITICO

articolo della Dr.ssa Rossella Valdre’
Psichiatra, Psicoterapeuta membro della Società Psicoanalitica Italiana
scarlet@cocco.net

 

I comportamenti di alcune persone e, soprattutto nella sfera sentimentale, di alcune donne, sembrano chiaramente autolesionistici, inutilmente portati alla sofferenza, a volte persino piegati, oltre ogni ragionevolezza, all’umiliazione e al disprezzo da parte del partner. Questi comportamenti e atteggiamenti non sono ovviamente tutti della stessa entita’, ma si situano all’interno di uno spettro, possiamo dire, che va da sporadici e modesti tratti relazionali di sottomissione a veri e propri ‘stili’ comportamentali in cui la persona sembra ricercare, nel rapporto amoroso, tutto cio’ che la fa soffrire.
Come terapeuti, ci si domanda pertanto se tali comportamenti possano rientrare nell’ambito clinico chiamato ‘masochismo’.
Occorre fare un passo indietro. Il termine viene inizialmente usato da Freud (1905, Tre saggi sulla teoria sessuale) per indicare alcune deviazioni sessuali in cui il soggetto cerca, non solo accetta, la sofferenza fisica e psicologica come mezzo per ottenere il piacere, all’interno del registro perverso del sadomasochismo (Freud comprende presto, infatti, che i ruoli possono facilmente ribaltarsi e “laddove vi e’ il masochismo possiamo sempre ritrovare anche il polo opposto, il sadismo”). Questi primi studi di Freud, per quanto gia’ peculiarmente psicoanalitici, risentivano ancora dell’interesse che la scienza medica della fine del secolo scorso nutriva per le deviazioni sessuali, e sono in parte ancora ispirati al famoso trattato di Kraft-Ebing, Psychotapia Sexualis (1886). Freud chiama questa forma di masochismo come erogeno: esso designa quell tipo di persone che, piu’ o meno incosapevolmente, cercano un partner sessuale sadico, che abbia cioe’ caratteristiche opposte alle loro e che infligga dolore e sofferenza, realizzando cosi il rapporto perverso sadomasichistico.
Successivamente, l’interesse di Freud si sposta sull’analisi delle fantasie inconscie che stanno dietro alla posizione di sottomissione (1919, Un bambino viene picchiato), scoprendo che si tratta spesso di fantasie legate al desiderio edipico, nella bambina, di essere amata e sottomessa al padre, e creando cosi’ le basi per la futura suscettibilita’ adulta del masochista nei confronti di figure paterne o che rivestano autorita’. Piu’ avanti ancora, a conclusione del suo pensiero (1924, Il problema economico del masochismo), Freud estende il concetto di masochismo dal ristretto campo sessuale o dallo specifico della fantasia edipica, al comportamento umano piu’ generale e al carattere femminile. Al masochismo del primo tipo, detto appunto erogeno, si aggiunge cosi’ il masochismo morale e quello femminile.
La ricerca inconscia della sofferenza non si limita piu’, quindi, allo scenario sessuale, ma si puo’ estendere allo stile esistenziale globale della persona, caratterizzandone le scelte, le motivazioni, i comportamenti.
Poiche’ dobbiamo sempre tenere presente che la natura e la spinta profonda di un tale assetto psicologico e’ essenzialmente inconscia, noi potremmo avere una persona, ad esempio una donna per restare al nostro argomento, che vive ripetute relazioni sentimentali autolesionistiche ed infelici ma consapevolmente non le vorrebbe, sul piano razionale e cosciente desidera invece, in tutta sincerita’, trovare un partner adeguato a cui non sottomettersi e con cui vivere serenamente. La psicoanalisi ci ha insegnato da tempo che questi due registri, conscio ed incoscio, possono purtroppo convivere in piena contraddizione dentro di noi, portando avanti istanze del tutto diverse e opposte, ad esempio conscientemente possiamo sentirci attratti da A (supponiamo, il successo di una nostra iniziativa), ma inconsciamente remare contro verso B (lo scacco, il fallimento della stessa iniziativa), con il risultato di generare in noi un conflitto psichico inconscio. Lo stesso vale per le relazioni affettive: una persona puo’ consapevolmente ed in totale buona fede desiderare una vita sentimentale costruttiva ed appagante, ma inconsciamente ricercare proprio quel tipo di esperienze o di persone con le quali tali realizzazione e’ impossibile.

Il motore interno del masochismo (parliamo sempre, da ora in poi, di masochismo morale), la forza inconscia che ne costituisce la spinta, Freud la individuo’ nella presenza dell’istinto di morte (1920, Aldila’ del principio del piacere), una pulsione inconscia antitetica alla libido, cioe’ all’istinto di vita, che in queste persone e’ particolarmente elevata, o non sufficientemente fusa, mescolata cioe’ alla libido che ne dovrebbe attutire la distruttivita’, cosicche’ si ritrova libera ad operare all’interno della psiche, causando la ritorsione dell’aggressivita’ verso il Se’ (nel masochismo, appunto) o verso l’oggetto, l’Altro (nel sadismo). Il nostro inconscio e’ abitato da una lotta pressoche’ continua tra istinti di vita e istinti distruttuvi, per Freud (posizione, questa, non condivisa da tutto il corpus psicoanalitico), la notra salute e la nostra capacita’ di costruire legami positivi dipendono dalla prevalenza, in noi, di forze vitali; se prevale l’inconscio istinto di morte, la distruttivita’, di cui il masochismo e’ un’espressione, siamo portati a compiere scelte e comportamenti distruttivi per il nostro benessere, ad esempio con la scelta di relazioni amorose fallimentari e dolorosa (va precisato, naturalmente, che la distruttivita’, in quanto incoscia,non solo puo’ non apparire del tutto dall’esterno, ma puo’ essere mascherata da comportamenti di segno opposto, come e’ il caso si quei temperamenti cosiddetti maniacali sempre portati all’esuberanza e all’ottimismo).
La terza tipologia di masochismo, quello che Freud vedeva come connaturato alla femminilita’ e che chiamo’ pertanto femminile (1931, Sessualita’ femminile), e’ stato oggetto di molte critiche, come e’ noto, ed e’ da ritenersi oggi un concetto piuttosto desueto. Esso si identifica con la posizione femminile passiva, per Freud e alcuni allievi (in particolare Helene Deutch, con Psicologia della donna), legata alla differenza anatomica tra i sessi che vede il maschile in posizione di attivita’ (possessore del pene) e il femminile in posizione di passivita’ (in quanto mancante dell’organo maschile, castrata).

La psicoanalisi moderna ha portato aventi, in parte superandolo, il discorso freudiano, e vede nel masochismo un’origine plurideterminata: vi sono casi in cui effettivamente l’aggressivita’ del soggetto e’ rivolta verso se stesso, con necessita’ di autopunizone e quindi sofferenza masochistica, ma piu’ spesso troviamo casi in cui la ricerca inconscia della sofferenze e dell’umiliazione costituisce la ripetizione, in forma diretta o ribaltata, delle vicende traumatiche infantili. Il bambino o la la bambina che hanno subito traumi, come ad esempio genitori maltrattanti, sadici o trascuranti, possono ricercare lo stesso copione relazionale nella vita adulta, non gia’ per ricerca del piacere o per eccesso di aggressivita’ interna, ma per una sorta di perenne vicinanza all’area traumatica infantile, come se inconciamente si fosse destinati a ripetere, anche nel tentativo di modificare, un vissuto doloroso, e non si riuscisse a fare diversamente.
Siamo cosi’ arrivati al tema di questo sito. Una sofferenza masochistica di origine traumatica inconscia, talora avvertita in parte anche coscientemente, puo’ determinare alcuni dei comportamenti che qui prendono il nome di Mal d’Amore. Si tratta di donne, piu’ spesso, che ‘scelgono’ ripetutamente relazioni amorose frustranti, con uomini inaffidabili, respingenti o maltrattanti, apertamente o subdolamente, che talvolta impongono loro rinuncie, infliggono sofferenze gratuite e le espongono a umilizioni su piu’ versanti della vita, in ogni caso donne che possono essere perfettamente adulte e ‘funzionanti’ in altre aree della loro esistenza, come il lavoro, ma ritrovarsi come costrette, obbligate da una tirannia interna, a vivere relazioni di questo tipo. Come se vivessero in una prigione, talvolta in un lager interiore, di cui non riescono a vedere ne’ i confini, ne’ la via d’uscita.
L’esperienza analitica e psicoterapica rivela spesso, nell’infanzia di queste pazienti, una storia traumatica di deprivazione affettiva, o di violenza e abuso da parte di adulti significativi da cui dipendeva la vita del bambino, irrinunciabile per lui. Il trauma puo’ essere anche apparentemente modesto, ma ripetuto nel tempo (cosiddetto ‘trauma cumulativo’), come ad esempio una madre alternativamente affettuosa e maltrattante, e venire introiettato nella mente del bambino come l’unica realta’ possibile.
Nella mia esperienza clinica, di rado ho constatato la presenza di piacere nel subire maltrattamenti da parte di queste pazienti (sebbene sia possibile, nel tempo, che in via secondaria si instauri una certa erotizzazione della sofferenza, sulla quale occorre poi lavorare in terapia), piu’ spesso l’attaccamento al partner maltrattante o trascurante posa su altre ragioni: l’idea che cosi sara’ piu’ amata, la garanzia fantasticata contro l’abbandono, o perche’ e’ l’unica forma di relazione che conoscono.
Credo che quest’ultimo caso sia particolarmente significativo e meriti la nostra attenzione. Quando una bambina, nella prima infanzia, ha appreso emotivamente che per avere un po’ di attenzione e amore dai genitori doveva sopportarne gli accessi di rabbia, gli sbalzi d’umore, gli abusi o le imprevedibilita’, potra’ essere incosciamente portata nella vita adulta, anche quando non ne sussiste piu’ il bisogno, a ritenere quel tipo di relazione come naturale, l’unica possibile per lei, per lei che non e’ degna di altro.

Dal punto di vista psicoanalitico, e’ dunque importante conoscere a fondo il mondo interno della donna (o dell’uomo) che soffre di questa patologia relazionale, risalire alle radici infantili inconscie dove spesso il trauma e’ stato negato o minimizzato, essendone intollerabile l’elaborazione e l’integrazione con il resto della personalita’, allo scopo di ‘rimettere mano’, insieme al terapeuta, a questo insieme di rappresentazioni interne patogene e dolorose.
Credo sia importante che giunga a queste persone il messaggio che non si tratta di un destino ineluttabile, anche se il percorso puo’ essere talvolta lungo e difficoltoso, ma che noi possiamo sempre, tramite un lavoro psichico, ridare fiato e spazio alle nostre parti vitali, e riparare infine le nostre antiche ferite.
Concludo con una breve vignetta clinica, ad esemplificare la spinosita’ ma anche la potenzialita’ del percorso terapeutico. Una paziente in analisi, che e’ riuscita dopo molte incertezze a divorziare dal marito, un uomo dalla grave personalita’ narcisistico-sadica che la aveva sottoposta ad ogni genere di incuria ed umiliazioni, al progressivo liberarsi di questa penosa sudditanza ha iniziato a provare un profondo senso di spaesamento, quasi di smarrimento di identita’, durato diversi mesi. “Prima sapevo dove stare – disse la paziente – avevo il mio posto…ora non ce l’ho piu’”.
Solo un attento e paziente lavoro terapeutico condiviso puo’ portare questa donna brillante e intelligente, e altre come lei, a ritrovare un suo posto che non sia necessariamente quello della sudditanza ad un oggetto sprezzante e irragiungibile, come lo fu un tempo l’oggetto primario, la madre, ed in seguito tutti i suoi sadici sostituti. Quel posto, riteniamo, e’ necessariamente prima di tutto un luogo terapeutico, di qualsivoglia orientamento, purche’ capace di creare lo spazio per un nuovo discorso condiviso.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

LA DIPENDENZA AFFETTIVA: LE FASI DI UNA PATOLOGIA

Da quando è stata isolata e descritta nella sua autonomia strutturale, la sindrome delle «donne che amano troppo», della dipendenza affettiva, o love addiction – come viene definita nei paesi anglosassoni –, è balzata agli onori della cronaca. Da allora gli interventi sui media si sono moltiplicati a ritmo vertiginoso. Vorrei riportare in questa pagina il testo di una delle prime interviste che ho dato sull’argomento, per l’immediatezza e la spontaneità con le quali i concetti si sono organicamente disposti nel corso del piacevole dialogo.
Domanda: Gentile dott. Ghezzani, confrontandomi con alcune donne (mi pare siano loro ad essere le più colpite dalla patologia della «dipendenza affettiva»), mi è capitato di riscontrare da parte di molte di esse un’identificazione con i comportamenti descritti da lei nei suoi libri Volersi male e Quando l’amore e una schiavitù, entrambi editi da Franco Angeli, e di cui ho ritrovato traccia anche nel famoso libro Donne che amano troppo di Robin Norwood. Lei parla di psicopatologia, e anche la Norwood presenta casi molto estremi di disturbi, con alle spalle precedenti di famiglie lacerate o in generale gravi traumi. Ma l’ampia diffusione del problema non sta forse a indicare che, al di là dei casi più estremi e propriamente patologici, esista una generale tendenza di molte donne ad affrontare in questo modo deviante il rapporto amoroso? Non si può parlare, a fianco della vera e propria patologia, di una fenomenologia di minore gravità, ma molto estesa, legata a fattori sociali? Un senso di insicurezza generale che spinge molte donne ad adottare almeno in parte i comportamenti ossessivi tipici della love addiction.

Risposta: In effetti, la sindrome della dipendenza affettiva sembra avere ormai una diffusione da pandemia, sembra cioè una «malattia» in via di diffusione ovunque esistano rapporti fra uomini e donne. Da ciò possiamo dedurre che, per quanto la storia la documenti anche in altre epoche, la sua diffusione odierna testimonia di un malessere specifico dell’epoca attuale. La mia disciplina, la Psicoterapia dialettica, è una psicoanalisi di tipo socio-storico, e va appunto alla ricerca dei fattori ambientali (storici e sociali) che stanno alla base di tutte le psicopatologie, maggiori o minori.
Nel caso delle «donne che amano troppo» io vedo innanzitutto quei fattori storici e sociali che insegnano e impongono da millenni alle donne la devozione amorosa come la virtù massima che una donna debba possedere per sentirsi realmente donna. La devozione amorosa non riguarda solo il marito (o il «partner», nella versione moderna), ma anche un proprio genitore, i propri figli, spesso intere reti di parentela. Per la donna queste sono persone da amare in modo assoluto, in virtù di un vero e proprio annullamento di sé che rappresenta, in un certo senso, un vero e proprio «test di femminilità». Senza questa «abilità» a devolversi nel bene altrui e a farsi riconoscere «amabile», una donna semplicemente non si sente donna. Per cui, se un uomo la rifiuta, la donna rifiutata non solo si sente brutta o odiosa, ma non si sente più donna: la sua identità di genere è distrutta.

D: Quali sono i principali sintomi che una persona può cercare di riscontrare da sé?

R: Ansia più o meno marcata ad ogni distacco, sentimenti di vuoto e di smarrimento quando si è soli, gelosie immotivate e ossessive, controllo telefonico o anche fisico del partner, a gradi estremi odio mortale cui segue il bisogno di essere puniti, talvolta un dolore lacerante, lancinante al petto, apparentemente senza motivo, che rappresenta la sensazione di poter morire a causa dell’assenza della persona amata.

D: Ha avuto esperienze di questo genere tra le sue pazienti o ha conoscenza diretta di casi simili? Ce ne può raccontare uno che ritiene più emblematico?

R: Ci sono persone che sembrano del tutto perse nel loro malessere, incapaci di capirlo in alcuno dei suoi aspetti, ma che invece mancano solo di pochi nessi logici, di poche rigorose deduzioni, per comprenderlo a fondo e risolverlo. Cristina è una di queste. La conobbi attraverso Internet, dopo aver pubblicato sul mio sito Psicoterapia dialettica, (indirizzo www.psyche.altervista.org), un articolo sulla dipendenza affettiva. Dalle sue parole vorrei estrapolare i concetti più interessanti, punteggiandoli con delle interpretazioni.
Dice Cristina:
«E’ da quando ho diciassette anni che sono consapevole di essere una donna che ama troppo (ora ho venticinque anni). Ho avuto un’infanzia molto tormentata con genitori che chiunque ha sempre definito pazzi, infatti uno dei due si è tolto la vita qualche anno fa. A diciotto anni ho conosciuto un uomo che ha fatto cambiare in negativo il corso della mia vita… In quei durissimi tre anni ho affrontato per la prima volta la mia «malattia»… Non riuscivo a darmi una spiegazione dell’ansia, degli struggimenti, del mio farmi calpestare in tutti i modi…»
Cristina pone alla base del suo malessere la crisi di coppia dei genitori e il suicidio di uno dei due: intuisce che la loro autodistruzione esistenziale ha prodotto in lei un’analoga tendenza masochistica. Di conseguenza, si rende anche conto che, alla base della sua dipendenza affettiva c’è una vocazione non solo ad amare, ma soprattutto a «farsi calpestare in tutti i modi», intuisce, dunque, la relazione esistente fra masochismo e ricerca dell’umiliazione amorosa.
Prosegue:
«In conseguenza di questa prima storia, ho avuto un esaurimento nervoso, ho dovuto abbandonare il lavoro per curarmi…, ma alla fine sono riuscita a lasciare quell’uomo, e sono diventata dai vent’anni in poi di un cinismo incredibile, dovevo apparire sempre a me stessa e agli altri forte, magnetica, indistruttibile. Il mio amor proprio aveva preso in passato troppi duri colpi. Ora, volevo essere io a fare la parte della stronza con i ragazzi, purtroppo anche con chi amavo e quindi con le storie importanti che sono seguite».
Cristina è consapevole anche di questo secondo passaggio. Dopo la ricerca dell’umiliazione masochistica, il soggetto malato di dipendenza affettiva vuole «vendicarsi».
Ecco cosa dice:
«Sono consapevole di aver trattato il mio nuovo ragazzo veramente male. Mi ha dimostrato una dolcezza, una comprensione e una devozione incredibili anche quando soffriva a causa mia. E’ una via di mezzo tra il ragazzo che a noi «donne che ci vogliamo male» può piacere – per le sue negatività – e un bravo ragazzo. A noi la negatività maschile ci eccita particolarmente…»
Questo è un passaggio importante per capire lo strutturarsi della patologia da dipendenza. Chi è affetto da dipendenza affettiva patologica ha: 1) una tendenza masochistica di base, dovuta a una bassa autostima. 2) L’asservimento affettivo è il primo tentativo che egli fa per ottenere dal partner segni di gratitudine e stima e riscattare questa penosa autopercezione. Tuttavia, se pure questi segni arrivano, il soggetto dipendente finisce per sentirsi umiliato della sua condizione servile, pensa di essere ingannato e sfruttato, sicché avvia una nuova fase. 3) Tenta a questo punto di riscattare la percezione negativa di sé mediante una «ribellione»: il soggetto diviene insensibile, aggressivo, sfidante, fino a livelli di esaltazione maniacale, per ribaltare il rapporto di potere. 4) Ma così facendo aggrava il senso di colpa originario e l’autostima peggiora. Infine, 5) il soggetto ha bisogno di farsi punire a causa della sua ripetuta negatività, e lo fa attraverso vecchi o nuovi partner.
Dice ancora Cristina:
«Ovviamente mi sono sempre scelta persone che non facevano per me, persone nevrotiche o psicopatiche: i classici stronzi. All’inizio era splendido ripagare persone che sapevo mi avrebbero già dall’inizio fatta soffrire usando le loro stesse tattiche e strategie. Mi sentivo forte, potente. Ai miei compagni ne ho fatte passare di tutti i colori, mi piaceva vederli soffrire. Sono consapevole di essermi comportata da pazza, ma volevo farmi vedere pericolosa per tutelarmi, per dimostrare che nessuno poteva più umiliarmi e farmi del male. Ho recitato questa parte per anni… Infine ho capito che ero io a trovare loro dei pretesti per farmi trattare male, e che usavo poi quegli stessi pretesti contro di me, per potermi dire che se loro mi facevano del male era tutta colpa mia…».

Questa complessa dinamica può infine facilmente cronicizzare nella depressione.
Sono dunque queste in sintesi le fasi di instaurazione della dipendenza affettiva:
1) Soggezione morale e fisica (tendenza masochista di base): il soggetto (uomo o donna che sia) si sente di scarso valore o di valore negativo, quindi ha bisogno di «servire» qualcuno per ottenere da lui un giudizio positivo. All’idea di averlo ottenuto, sperimenta un esaltante sentimento di sollievo e di gratitudine.
2) Ciclicità depressivo-maniacale: il soggetto prende coscienza della propria immagine interna negativa (di persona debole o cattiva o pervertita), si addolora di ciò e se dapprima si sacrifica per il bene del partner poi, sentendosi umiliato, odia il proprio servilismo e/o il dominio da parte del partner, quindi si vuole vendicare.
3) Vendetta: egli/ella si vendica divenendo freddo e sfidante nei confronti del partner.
4) Senso di colpa: di conseguenza, prova sensi di colpa e bisogno di essere punito.
5) Ciclicità sadomasochista (bisogno di punizione e rilancio della sfida): alla fine, il soggetto scivola in una nuova e più grave depressione. La depressione può implicare giudizi negativi su di sè o sul mondo, quindi di bisogno di mortificarsi o di farsi punire o può sfociare in un drammatico senso di vuoto. Oppure può virare – per ribellione – verso una nuova sfida.
Dice Cristina:
«A parte certe tragedie famigliari, non mi manca veramente niente… ho buoni amici, quest’anno ho ottenuto il lavoro che sognavo, leggo, scrivo, coltivo anche un interesse artistico in una compagnia teatrale. Ma anche se mi sento appagata, avverto puntuale una sorta di vuoto, di depressione latente, un senso di noia e di inutilità. Sicché mi rimetto alla ricerca di una relazione totalizzante per colmare quel terribile sentimento. La mia è stata una continua fuga più che da me stessa, da questa atroce sensazione di non essere viva, da questa impalpabile percezione che va oltre qualsiasi razionalità. Ciò che faccio ogni giorno lo faccio per dimenticare questa sensazione. Da qui anche le relazioni: quando ci si attacca a «quel tipo» di persone non è per vero amore. Io, quando trovo un uomo di «quel genere», ho una sensazione di innamoramento non perché lo amo davvero, ma perché amo quel senso di totalità che mi dà l’illusione di sentirmi viva, annullando la sensazione del vuoto. Arrivando al bandolo della matassa, della mia matassa, il punto da cui iniziano certi orrori nasce proprio da questo grande vuoto iniziale, o esistenziale».

Per capire appieno il significato di questo angoscioso senso di vuoto occorre prendere la parola «vuoto» non come una metafora ma alla lettera. In effetti, la donna che ha annullato se stessa in funzione delle esigenze maschili, e che ha fatto il deserto intorno a sé (deserto di persone, di interessi, di vocazioni personali e di futuro…) ha realmente fatto il vuoto intorno e dentro di sé. Ogni cosa che non sia il suo uomo è allontanata dall’angoscia di perderlo e dal senso di colpa di «tradirlo»: il vuoto che infine la donna sperimenta è dunque la sua oggettiva realtà, è l’angoscia morale per ciò che ha fatto a se stessa.
Dal mio punto di vista, dunque, questo sentimento di nullità è l’inizio e la fine del percorso. Si comincia con la bassa stima di sé (legata all’educazione tradizionale, cioè dal vuoto imposto dalla cultura familiare e sociale), e si finisce con una stima ancora più bassa, dovuta alla percezione di una negatività personale irrimediabile.

D: Dottor Ghezzani, per finire, qual è in questi casi, in genere, il ruolo giocato dai partner?

R: Spesso il partner tipico che si lega a persone affette da love addiction ha una patologia affine. Di solito è una persona fortemente insicura e allo stesso tempo narcisista, che ottiene un lenimento delle sue angosce e una certa soddisfazione dell’autostima proprio grazie all’adorazione e al masochismo del suo partner dipendente affettivo. Ormai si parla infatti di co-dipendenza. Questo termine tecnico vuol dire che entrambi i contraenti di questo tipo di rapporto sono dipendenti l’uno dall’altro, ma in modi diversi. Nei miei libri, io chiamo questa forma complessa di rapporto a due patologie «collusione sado-masochista».

di NICOLA GHEZZANI
Psicoterapeuta – Roma 

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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ANORESSIA SENTIMENTALE – DOTT. NICOLA GHEZZANI

Uomini e donne si frequentano, al giorno d’oggi, con una intensità di cui non si ha riscontro in altre epoche storiche; le occasioni di contatto si moltiplicano e proliferano sotto ogni forma (scuole, università, luoghi di lavoro, attività turistiche e di svago, società sportive, club, locali, agenzie matrimoniali, luoghi d’incontro virtuali…), eppure vi sono uomini e donne che hanno rimosso e dimenticato cosa sia l’amore. In senso stretto, l’anoressia sentimentale , l’incapacità di amare, è una vera e propria pandemia che colpisce, su larghissima scala, tutte le età ed entrambi i sessi, soprattutto nel mondo a modello occidentale.

La fenomenologia è la più varia: chi ne è affetto può essere tanto un individuo solitario quanto una persona in apparenza socievole, amante della buona compagnia e dei divertimenti. Ma la struttura di fondo del disturbo è identica: il bisogno affettivo è rimosso in virtù di una personalità autarchica, chiusa in se stessa, regolata da abitudini e ritmi personali e ogni qual volta la possibilità di amare si apre un varco nella rigida armatura difensiva sorge dal fondo dell’animo in taluni una malinconia profonda, in altri una rabbia cieca e devastante, in altri ancora una fredda razionalità che vede nell’oggetto amato (nella persona che ha penetrato il cuore) solo vizi e difetti e nella nuova opportunità una fonte incessante di dubbi e preoccupazioni. A questo punto, l’indifferente può diventare – con l’incertezza, il disprezzo o il sadismo – un persecutore di colui/colei che ha osato turbare il suo equilibrio.

Ecco come lo descrive lo psicoanalista Otto Kernberg:

“In circostanze patologiche, come la patologia narcisistica grave, lo smantellamento del mondo interno di relazioni oggettuali può portare all’incapacità di desiderio erotico, accompagnata da una diffusa, non selettiva e perpetuamente insoddisfatta manifestazione casuale di eccitazione sessuale, o perfino dalla mancanza di una capacità di eccitazione sessuale.”

L’incapace di amare talvolta si tormenta per ciò che è divenuto; talaltra invece se ne fa un vanto, perché la sua resistenza alla lusinga è – secondo lui – una superiore prova di forza; infine, altre volte ancora vive in una razionalità così astratta da non accorgersi nemmeno della solitudine dell’anima e della aridità del cuore che ha generato dentro di sé.

Intuibile che la patologia narcisistica cui fa riferimento Kernberg ha almeno due possibili sviluppi: uno sul versante ossessivo coincide con l’uomo – o la donna – che vive in un suo ordine solitario, rigido ed efficiente e più o meno relazionato (l’incapace di amare può essere un single, ma anche un uomo o una donna che vive in famiglia, ma che non degna più il partner delle proprie attenzioni giudicando la sessualità e l’amore delle inutili e scomode perdite di tempo o attività noiose, prive di senso o vagamente disgustose); l’altra è sul versante dell’isteria, dove l’incapace di amare oltre a ostentare indifferenza, può talvolta intrappolare i suoi partner in tormentose dinamiche nelle quali ora avvengono inattese fusioni sentimentali, spesso accompagnate da appassionate manifestazioni di tenerezze, cui seguono repentini distacchi, un fare freddo e scostante, talvolta contrassegnato dal disprezzo.

Chi vive in questa strana condizione esistenziale è qualcuno che ha individuato nell’amore la maggior fonte di sofferenza umana o, per via di traumi subiti, della sua personale sofferenza e ha deciso di non soffrire mai più. Talvolta è stato un bambino deprivato di amore in età nelle quali poteva avvertirne la mancanza e perciò soffrirne, oppure un bambino o un adolescente intenzionalmente trascurato, non amato o anche trattenuto in un rapporto ora seduttivo ora rifiutante. Altre volte, cresciuto fiducioso, è andato incontro a lunghe sofferenze sentimentali in età adulta. Altre ancora, illuso di poter realizzare nel mondo scopi di ordine superiore e deluso in profondità in questa aspettativa, rinuncia alla vita e fa pagare all’innamorato/a il prezzo di questa catastrofica delusione.

In termini più generali, egli ha smesso di credere nell’affidabilità degli esseri umani e nella capacità retributiva e restaurativa della fiducia e dell’amore. In modo più o meno consapevole, ha abbracciato l’ideologia anestetica contemporanea, intesa a far sentire forte, superiore, colui che relega la passione nell’altro, riservando per sé il ruolo del bell’indifferente, dello spassionato razionale, dello sprezzatore dell’umana vulnerabilità.

La mia esperienza umana e clinica mi suggerisce che questa condizione esistenziale va sempre più costituendo il “doppio speculare” della soggettività contemporanea. Per un verso animata da innumerevoli e frenetici desideri, l’umanità attuale va per altro verso elaborando una strategia di difesa per la quale ogni desiderio – ma soprattutto i bisogni relazionali – sono trappole da evitare.

Esce da questa patologia – invisibile in un mondo che la invidia e la favorisce – solo chi vuole uscirne e accetta l’idea che coraggioso non è chi reprime il desiderio, ma colui che accetta il rischio esistenziale di vivere fino in fondo le qualità specifiche della natura umana, fra le quali fa spicco proprio quella capacità di immedesimarsi, fondersi ed amare da cui l’anoressico sentimentale rifugge con disgusto e con paura.

Dott. Nicola Ghezzani

Psicologo, Psicoterapeuta

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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FREUD, HIMEROS E PEDRO SALINAS

Wyatt: Meg sei mai stato innamorato?
Meg: No, ho fatto il barista tutta la vita.
(da Sfida infernale)

“Il prototipo di ogni relazione amorosa è il succhiare del bambino al seno della madre da parte del bambino La scoperta dell’oggetto d’amore è infatti un ritrovare”.

Sigmund Freud da “Tre saggi sulla teoria sessuale” (1905)
“Si, al di là della gente ti cerco./ Non nel tuo nome, se lo dicono, non
nella tua immagine, se la dipingono./Al di là, più in là, più oltre./
Al di là ti cerco./ Non nel tuo specchio e nella tua scrittura, nella tua
Anima nemmeno. Di più, più oltre./ Al di là ancora, più oltre/ di me ti
Cerco. Non sei/ ciò che io sento di te./ Non sei ciò che mi sta
palpitando con sangue nelle mie vene/ e non è in me./Al di là, più
oltre ti cerco. E per trovarti, cessare/ di vivere in te, e in me,/ e negli
altri./ Vivere ormai al di là di tutto/per trovarti/ come se fosse morire.

Pedro Salinas

L’innamoramento avviene quando la libido narcisistica si trasforma in libido oggettuale”.

Sigmund Freud: da “Introduzione al narcisismo”


“La cosa più grande che tu possa imparare è amare e lasciarti amare”

(Da “Moulin Rouge”)

  1. Introduzione

Come definire quella zona notturna e misteriosa che chiamiamo passione?
Se ci accingiamo ad occuparci di questo termine, non possiamo che registrare un senso di frustante disagio; ogni termine (amore, sentimento, affetti…) infatti, non solo rimanda necessariamente all’altro, come in un gioco circolare (che segnala evidentemente una via di fuga) ma richiama di volta in volta un qualcosa di troppo intenso, di eccesso, di estremo o di un’assenza, una mancanza.
La parola “amore” deriva dall’etimo “kam” che è “desiderare”.
Il termine “passione” deriva, invece, dal greco “pascheia” ed indica un atteggiamento di passività, la condizione del subire l’azione di una realtà esterna.
Se ci affidiamo alla radice latina del termine passione, scopriamo che tale termine deriva da “pati”; “soffrire”, “patire” Tale etimo rimanda, inevitabilmente, a termini quali:”patema” (che è l’afflizione che ha malefica influenza sul corpo), “patetico”,”passivo”,”paziente”, “pazzia”,”patibolo”
Stesso destino del termine “affetto” (affectus che descrive “l’affici”, dell’essere appunto “affetti”) che rimanda alla passività della vita emotiva e viene contrapposta all’attività della ragione che esprime l’elemento essenziale della natura umana.

  1. La passione nella mitologia

Come ci ricorda Bergman:

“Afrodite è figlia di Urano (il dio del cielo ed il più antico degli dei) e di Gea, la dea della terra. Mentre era intento a far l’amore con Gea fu castrato da Crono.
L’organo reciso galleggiò sul mare, coprendolo di bianca schiuma, dalla quale emerse Afrodite. Afrodite è quindi figlia di un oggetto parziale. Ciò spiegherebbe perché la dea non ha rispetto per i legami coniugali, né per la vita familiare. Afrodite è un abitante dell’Olimpo ed è la moglie del dio zoppo Efesto, ma ha come amante Ares, il dio della guerra, con il quale ebbe tre figli: Daimos (Terrore), Phobus (Paura) ed Harmonia (Armonia). Afrodite è la dea della passione sessuale. Eros, (l’altro dio dell’amore che non abita l’Olimpo) è quello dell’amore e del desiderio (in senso lato).”

Ma come nacque Eros? Per istruire Socrate, Diotima si serve di una favola.

“Per festeggiare la nascita di Afrodite, gli dei tennero un banchetto, durante il quale il dio Risorsa si ubriacò e cadde addormentato. Mentre si trovava inerme in questo stato, Povertà lo sedusse e concepì Eros. In quanto figlio di Povertà, Eros non possiede né scarpe, né casa, dorme sulla nuda terra sotto le stelle, si riposa sul gradino della soglia. Come la madre è sempre in preda al bisogno; come il padre è intraprendente, intrigante, incantatore. Dal padre ha ereditato la sensazione di pienezza che si accompagna all’amore, dalla madre la disperazione degli innamorati.”

Come è noto Eros ebbe, successivamente, un fratello Antieros, dio dell’amore contraccambiato (il desiderio dell’essere amato) e gli furono anche affibbiati due inseparabili compagni: Pathos (personificazione della passione) ed Himeros (personificazione del desiderio).
Da ciò ne discende che, per i Greci, l’amore non è tale se non accompagnato dalla passione e dal desiderio.” Diotima nel Convivio di Platone chiamò l’amore “astrotos”
(che significa “senza alcun velo”) e i poeti lo dipingono nudo perché non può essere celato, in quanto gli occhi, volenti o nolenti lo rivelano.

  1. La passione nell’antichità
  2. a) L’amore come malattia

Se scorriamo i libri dell’antichità, scopriamo che la passione amorosa, malattia “incomprensibile” dell’anima ha giocato brutti scherzi agli umani: Serse si innamorò di un albero, Alcidio di Rodi di una statua di Venere cnidia, Narciso ed Etelida della loro ombra, Pigmalione di una statua.
Ma al di là degli “strani” sortilegi cui rimanevano vittima gli uomini, nessuno come Saffo è stato, però, in grado di descrivere quella forza che si impossessa dell’animo umano e che inonda il corpo, fino a travolgerlo quasi del tutto.

“…perché nel vedere la tua rara beltà
sento la mia vista venir meno.
La mia lingua s’intorpidisce,
e mi assale
un fuoco che fruga
sotto la mia tenera pelle,
tanto la tua beltà mi ha preso…
L’orecchio mi fischia,
un sudore freddo e malinconico
all’improvviso striscia dentro di me,
Divento preda dell’orrore,
della paura.
Sono più pallida e smorto della cima
Dell’erba avvizzita dal calore.
Già poco manca che la morte
non mi mandi
a bordo della sua barca
e improvvisamente mi si veda
esalare lo spirito moribondo.

b) L’amore nasce dalla vista

“Io vidi, e la follia s’impossessò di me” (Teocrito)

“Al primo sguardo perii: così un malvagio inganno rapì il mio cuore” (Virgilio). La passione prima ancora di essere una schermaglia di corpi è una schermaglia di sguardi; è un darsi con gli occhi.

  1. La passione e la cura

“Attraverso il polso si possono riconoscere gli innamorati passionali per via dell’agitazione dei loro spiriti.”
Per questo motivo Avicenna dichiara che se si vuole scoprire il nome della donna amata si deve prendere il polso all’amante e contemporaneamente pronunciare il nome di colei che si sospetta essere la causa della malattia, elogiarne la bellezza, la grazia, l’età, le parentele, i vestiti, le qualità dell’animo, in quanto da quel momento si noterà una notevole diversificazione e variazione del polso, a volte ineguale, a volte interrotto.”

“Prendete 1/2 scrupolo di semi di agnocasto, di porcellana, di ruta, 2 scrupoli di semi di lattuga e 2scrupoli di papavero bianco. Aggiungete 6 grammi di cervo bruciato, di corallo, di antera rosa, 3 dramme di semi di meloni. Aggiungete a questo punto una quantità adeguata di zucchero, di acqua di rose e di borraccia trinciata, mischiate il tutto e fate delle tavolette del peso di un dramma, che somministrerete prima del sonno o di mattina molto prima di mangiare.”

Conclusioni

Da Cicerone a Cartesio e nei secoli successivi l’anima è completamente passiva nel subire le passioni che provengono dal corpo. Con l’impronta cristiana le emozioni vennero assimilate agli impulsi, alle tentazioni, al peccato e quindi condannate.
Per Agostino la mente umana va sottomessa a Dio e le passioni moderate e frenate.
Per Ambrogio la felicità consiste nel dominare le passioni. Nell’amore non si desidera una cosa ma ancora meglio, il suo desiderio. Desiderare di essere desiderato. Desiderio del desiderio altrui. Il desiderio implica sempre una rappresentazione che ama spesso anticiparsi “nell’immaginazione” Ci si proietta in lui, cioè lo si identifica a noi, amandolo in sovrappiù di tutto l’amore che si porta a noi stessi. E solo allora la passione si carica di magia.

Dott.Ignazio Senatore
Dipartimento di Neuroscienze – Università “Federico II” di Napoli

sitoweb:cinemaepsicoanalisi

Bibliografia
Martin S. Bergmann: “Anatomia dell’amore” – Einaudi (1992)
Sigmund Freud: Al di là del principio del piacere – Boringhieri (1974)
Sigmund Freud: Contributi alla psicologia della vita amorosa” Boringhieri (1974)
Sigmund Freud: “Introduzione al narcisismo” Boringhieri (1975)
Sigmund Freud “Tre saggi sulla sessualità”
Ignazio Senatore: “L’analista in celluloide. La figura dello psicoterapauta al
cinema” Franco Angeli (1995)
Ignazio Senatore: “Curare con il cinema” Centro Scientifico Editore (2002)
Ignazio Senatore: Il cineforum del dottor Freud. Centro Scientifico Editore (2004)
Ignazio Senatore: Psichi cult – Centro Scientifico Editore (2006)

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

AMORE E TRADIMENTO – PERDONARE IL TRADIMENTO

Il seguente brano è tratto dal libro “Le cose dell’amore” edito da Feltrinelli e la cui pubblicazione su sito avviene per gentile concessione dell’autore il Prof. Umberto Galimberti

 

Non si dà amore senza possibilità di tradimento, così come non si dà tradimento se non all’interno di un rapporto d’amore. A tradire infatti non sono i nemici e tanto meno gli estranei, ma i padri, le madri, i figli, i fratelli, gli amanti, le mogli, i mariti, gli amici. Solo loro possono tradire, perchè su di loro un giorno abbiamo investito il nostro amore. Il tradimento appartiene all’amore come il giorno alla notte.

Non è infatti vero giorno quello che non conosce la notte, e perciò concede una vita e un’amore solo là dove ci possiamo fidare, dove siamo al sicuro, compresi, contenuti e contenti, dove non possiamo essere feriti e delusi, dove la parola data non e mai ritirata.

(….) Nel saggio Il tradimento , che è possibile leggere in Puer Aeternus , James Hillman prende in esame le possibili reazioni al tradimento, indicando tra queste quelle che bloccano la coscienza e quelle che la emancipano.

Innanzitutto la vendetta , che è una risposta emotiva che salda il conto ma non emancipa la coscienza perché quando è immediata non ha altro significato se non quello di scaricare una tensione, mentre quando è procrastinata, quando attende l’occasione buona, restringe la coscienza in fantasie di astiosità e crudeltà, impedendole di fare qualsiasi altra esperienza. La vendetta rattrappisce l’anima.

Non diversamente opera il meccanismo della negazione . Quando in un rapporto uno dei sue subisce una delusione, la tentazione è quella di negare il valore dell’altro prima idealizzato. Non si è voluto vedere l’ombra dell’altro quando si era innamorati, ora, dopo il tradimento, si ricaccia l’altro per intero nella sua ombra. Due eccessi, dove prima l’amore cieco e poi il cieco odio dicono quanto infantile e primitiva è la nostra anima.

Più pericoloso è il cinismo , che non solo nega il valore dell’altro, ma fa dire che l’amore è sempre una delusione, che i grandi amori sono per gli ingenui, cercando, in questo mondo, di cicatrizzare la fiducia infranta. Con i cocci dell’idealismo si costruisce la filosofia del rude cinismo, capace solo di offrire un ghigno a quella che un tempo era la propria stella.

Ma forse ancora più preoccupante del cinismo è il tradimento di se , per cui una confessione, una poesia, una lettera d’amore, un progetto fantastico, un segreto, un sogno, insomma i nostri valori emotivi più profondi diventano cose ridicole, da sbeffeggiare sguaiatamente, per evitare di vergognarsi di averle un giorno provate. E’ una strana esperienza quella di trovarsi a tradire se stessi e a trattare le proprie esperienze emotive vissute nel tempo dell’amore come esperienze negative e spregevoli.

Ma con la vendetta, la negazione, il cinismo, il tradimento di se non siamo ancora all’ultimo stadio in cui, per proteggerci dall’eventualità di essere nuovamente traditi, optiamo per la scelta paranoide che, per instaurare un rapporto esente dalla possibilità del tradimento, mette in atto ingenue liturgie, quali le dichiarazioni di fedeltà eterna, le prove di devozione, i giuramenti di mantenere il segreto. Sono atteggiamenti, questi, che attengono più alla sfera del potere che alla sfera dell’amore. Quando infatti un marito, un amante, un discepolo, o un amico si sforzano di soddisfare i requisiti di un rapporto paranoide, dando assicurazioni di fedeltà per cancellare la possibilità del tradimento, è garantito che ci si sta allontanando dall’amore, perchè amore e tradimento attingono alla stessa fonte.

Se evitiamo di cadere nei pericoli fin qui descritti e quindi di rimanere in essi sterilmente fissati, allora l’esperienza del tradimento può rivelare il suo aspetto più creativo ed evolutivo della coscienza che, per Hillman, come del resto per la tradizione cristiana, trova la sua espressione nel perdono. Riconoscendo il tradimento e passando oltre, il perdono toglie all’amore il suo aspetto più infantile, che è l’ingenuità e l’incapacità di amare se appena si annuncia un profilo d’ombra. Del resto, scrive Hillman:

Senza l’esperienza del tradimento, ne fiducia ne perdono acquisterebbero piena realtà. Il tradimento è il lato oscuro dell’una e dell’altro, ciò che conferisce loro significato, ciò che li rende possibili.

Ma si può davvero perdonare, se è vero che l’Io si mantiene vitale solo grazie al suo amor proprio, al suo orgoglio, al suo senso dell’onore? Anche quando vorremmo sinceramente perdonare, scopriamo che proprio non riusciamo, perchè il perdono non viene dall’Io. E allora forse, meglio del perdono, che probabilmente è pratica insincera, a me sembra più costruttivo percorrere il sentiero del reciproco riconoscimento , dove chi ha tradito deve reggere la tensione senza cercare di rappezzare la situazione e, con brutalità cosciente, deve al limite rifiutare di rendere conto di se.

Il rifiuto di spiegare significa da un lato non misconoscere il tradimento ma lasciarlo intatto nella sua cruda realtà, e dall’altro che la spiegazione deve venire sempre dalla parte offesa. Del resto chi, dopo essere stato tradito, sarebbe in grado di ascoltare le spiegazioni dell’altro?

Lo stimolo creativo presente nel tradimento dà i suoi frutti solo se è l’individuo tradito a fare un passo avanti, dandosi da se una spiegazione dell’accaduto. Ma per questo è necessario che il traditore non giustifichi il suo tradimento, non tenti di attenuarlo con spiegazioni razionali, perchè questa elusione di ciò che è realmente accaduto è, di tutte le offese, la più bruciante per il tradito, e allora il tradimento continua, anzi si accentua.

Siccome i due sono ancora legati in un rapporto nei nuovi ruoli di traditore e di tradito, possono soccorrersi solo se il traditore non attenua la crudeltà del tradimento e, riconoscendolo senza ammorbidirlo con false giustificazioni, consente all’altro di trovare da se la spiegazione, e così di passare dalla beata innocenza della fiducia originaria, dove mai neanche lontanamente si profilava il male, a quella coscienza adulta, la quale sa che il bene e il male sono inanellati, il piacere si intreccia con il dolore, la maledizione con la benedizione, la luce del giorno con il buio della notte, perchè tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate e insieme tradite, senza una visibile distinzione, perchè l’abisso dell’anima, vuole che così si ami il mondo.

Del resto, se vogliamo seguire il messaggio di Nietszche che ci ha insegnato a scoprire, sotto ogni virtù, il vizio che lo origina, la paura inconfessata che la genera, la debolezza che si vuole nascondere, scopriamo che, ogni volta che siamo in relazione con l’altro, mettiamo in atto anche il nostro desiderio di non annullarci nell’altro. Vogliamo essere con l’altro, ma nello stesso tempo, per salvare la nostra individualità, vogliamo non esserci completamente. Di qui quell’esserci e non-esserci, quel rincorrersi e tradire, che fa parte della relazione amorosa. Perchè l’amore è una relazione, non una fusione. Se infatti non esistessimo come individualità autonome, non solo non potremmo incontrare l’altro e metterci in relazione, ma non avremmo neppure nulla da raccontare all’altro fuso simbioticamente con noi.

Come dice Gabriella Turnaturi nel suo libro Tradimenti , quando lei o lui iniziano un viaggio fuori dal “noi”, e che prescinde dal “noi”, solo per le attese sociali, solo per i precetti religiosi tradiscono, mentre in realtà salvano la loro individualità dell’abbraccio mortale del “noi” che non emancipa, non consente nè crescite nè arricchimenti, e neppure parole da scambiare che non siano già dette o già sapute prima che siano pronunciate.

Tutto questo per dire che l’amore non è possesso, perchè il possesso non tende al bene dell’altro, ne alla lealtà verso l’altro, ma solo al mantenimento della relazione che, lungi dal garantire la felicità, che è sempre nella ricerca e nella conoscenza di se, la sacrificano in cambio della sicurezza. Siamo in due, non sappiamo più chi siamo, ma siamo insieme ad affrontare il mondo. Due esistenze negate, ma tutelate.

Amore è cosa intricata, perchè sempre ci confonde a non ci si chiarisce se si ama l’altro o si ama la relazione, se si soddisfa il nostro bisogno di sicurezza o il nostro bisogno di felicità. Oppure si vuole la felicità, ma non la sua noia. Amore è un gioco di forze dove si decide a quale dio offrire la propria vita: al dio della felicità che sempre accompagna la realizzazione di se, o al dio della sicurezza che molto spesso si affianca alla negazione di se.

Una cosa è certa: che nella relazione, nel “noi” non ci si può seppellire come in una tomba. Ogni tanto bisogna uscire, se non altro per sapere chi siamo senza di lei o di lui. solo gli altri, infatti, ci raccontano le parti sconosciute di noi. Gli altri, se li lasciamo parlare, senza soffocarli con il nostro bisogno di conferme che di solito, sbagliando, siamo soliti chiamare bisogno d’amore.

Nel viaggio che si intraprende fuori dal “noi” e che prescinde dal “noi”, è il “noi” che si tradisce, raramente il “tu”. Quel che si imputa al traditore è di essere diventato diverso e di muoversi non più in sintonia, ma da solo. Soltanto se si accetta il cambiamento dell’altro e lo si accoglie come una sfida a ridefinirsi e a ridefinire la relazione, il tradimento non è più percepito come tale. Ma ridefinirsi è difficile, così come accettare il cambiamento. Per questo le vie più combattute sono quelle della fedeltà, o in alternativa quelle del risentimento e della vendetta.

Se queste considerazioni hanno una loro plausibilità occorre riscattare, almeno in parte, i traditori dell’infamia di cui solitamente si sono ricoperti, perchè in ogni tradimento c’è un lampeggiare di verità e autenticità che ci è tradito non vuol mai vedere. Tradire un amore, tradire un amico, tradire un’idea, tradire un partito, tradire persino la patria significa svincolarsi da un’appartenenza e creare uno spazio d’identità non protetta da alcun rapporto fiduciario,e quindi in un certo senso più autentica e vera.

Nasciamo infatti nella fiducia che qualcuno ci nutra e ci ami, ma non possiamo crescere e diventare noi stessi solo se usciamo da questa fiducia, se non ne restiamo prigionieri, se a coloro che per primi ci hanno amato e a tutti quelli che dopo di loro sono venuti, un giorno sappiamo dire: “Non sono come tu mi vuoi”.

C’è infatti in ogni amore, da quello dei genitori a quello dei mariti, delle mogli, degli amici, degli amanti, una forma di possesso che arresta la nostra crescita e costringe la nostra identità a costituirsi solo all’interno di quel recinto che è l’amore che non dobbiamo tradire. Ma in ogni amore che non conosce il tradimento e neppure ne ipotizza la possibilità c’è troppa infanzia, troppa ingenuità, troppa paura di vivere con le sole nostre forze, troppa incapacità di amare se appena si annuncia un profilo d’ombra.

Eppure senza profilo d’ombra, quella che puerilmente chiamiamo “amore”, c’è l’incapacità di abbandonare lidi protetti, di uscire a briglia sciolta e a proprio rischio verso le regioni sconosciute della vita, che si offrono solo a quanti sanno dire per davvero addio. E in ogni addio c’è lo stigma del tradimento e insieme dell’emancipazione. C’è il lato oscuro dell’amore, che però è anche ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende possibile.

Amore e tradimento devono infatti l’un l’altro la densità del loro essere, che emancipa non solo per il traditore ma anche il tradito, risvegliando l’un l’altro dal loro sonno e dalla loro pigrizia emancipativa, impropriamente scambiata per amore. Gioco di prestigio di parole per confondere le carte e barare al gioco della vita.

Il traditore di solito queste cose le sa, meno il tradito che, quando non si rifugia nella vendetta, nel cinismo, nella negazione o nella scelta paranoide, finisce per consegnarsi a quel tradimento di se che è la svalutazione di se stesso per non essere più amato dall’altro, senza così accorgersi che allora, nel tempo dell’amore, la sua identità ara solo un dono dell’altro. Tradendolo, l’altro lo consegna a se stesso, e niente impedisce di dire a tutti coloro che si sentono traditi che forse un giorno hanno scelto chi li avrebbe traditi per poter incontrare se stessi, come “un giorno Gesù scelse Giuda per incontrare il suo destino”.

Sembra infatti che la legge della vita sia scritta più nel segno del tradimento che in quello della fedeltà. Forse perchè la vita preferisce chi ha incontrato se stesso e sa chi davvero è, rispetto a chi ha evitato di farlo per stare rannicchiato in una casa protetta, dove il camuffamento dei nomi fa chiamare “amore” quello che in realtà è insicurezza o addirittura rifiuto di sapere chi si è davvero, per il terrore di incontrare se stessi, un giorno almeno, prima di morire, con il rischio di non essere mai davvero nati.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

I DIVERSI DESIDERI SESSUALI NELLA COPPIA

Sintesi dell’ articolo pubblicato sul mensile “Silhouette Donna” di febbraio 2009 dal titolo “Le insidie per la coppia”scritto dalla giornalista Elena Goretti con la collaborazione del Dott. Roberto Cavaliere

 

IL SESSO: se i desideri sono diversi

Non è raro che una coppia affiatata e innamorata, poi, sotto le lenzuola abbia difficoltà a trovare un’intesa. Magari perché entrambi i partner sono impacciati, perché uno dei due ha paura di sbagliare oppure perché, nella passione del momento, si compiono gesti inattesi. Nella maggior parte dei casi, però, il problema è uno solo: la (naturale) differenza di aspettative che lui e lei hanno nei confronti del rapporto sessuale, un universo di fantasie e desideri diversi che si rivela nel momento decisivo e che può provocare reazioni spiacevoli, come delusioni, incomprensioni o sottili offese. Lui, ad esempio, può pretendere la luce accesa, mentre lei il buio totale; oppure cerca di arrivare subito al rapporto vero e proprio, mentre lei rimane male se non può prepararsi all’amore con una serie di preliminari.

* Il fatto di desiderare gesti, attenzioni e persino posizioni diverse, insomma è del tutto normale. Non significa che si è incompatibili, né tanto meno che la relazione ne risentirà. Basta avere la disponibilità a comprendere che ogni sesso ha le sue preferenze naturali, evitare di dare significati “ulteriori” alle esigenze dell’altro e imparare piano piano a conoscersi, per venirsi incontro senza delusioni o risentimenti.

 

Cosa piace a lui…

Sì alla luce accesa

Se la donna spesso si vergogna o si sente intimidita nel mostrare il proprio corpo nudo, l’uomo quasi sempre preferisce la luce accesa. Certo, non un’illuminazione piena ma di certo una leggera penombra che gli consenta di vedere il corpo della sua compagna. Contrariamente a quanto credono le donne, quando un uomo ha la sua compagna nuda davanti agli occhi, non ha il minimo istinto di controllare se sia troppo magra o troppo grassa, desidera solo guardarla.

Provocare eccitazione

I motivi per cui un uomo si eccita sono infiniti, ma tra i tanti occorre tenere presente alcune preferenze. Ad esempio, viene attratto da un aspetto ordinato, da una pelle morbida e liscia e da un tipo di abbigliamento intimo scelto con cura. Autoreggenti e completini intimi rendono felice una buona parte dell’universo maschile, ma esistono anche uomini che preferiscono la propria donna completamente nuda o con indumenti che scoprano una parte del suo corpo. Creme e prodotti cosmetici preziosissimi per la bellezza del viso e del corpo, invece, non sono “funzionali” ai momenti di intimità. Il profumo e la texture delle creme possono infatti diventare un vero e proprio ostacolo anche per l’amante con le intenzioni più appassionate.

Subito all’obiettivo

Nel rapporto sessuale la più evidente differenza fra l’uomo e la donna è la concezione del tempo. Per eccitare un uomo non occorre perdersi in troppi preamboli come dare baci sul petto e lungo il corpo (anche se sono sempre graditi), ma dare il via immediatamente al rapporto sessuale. L’uomo vive il piacere sessuale con maggior velocità non per una mancanza di attenzione nei confronti della sua compagna, ma per una questione puramente fisiologica. L’atto sessuale nel maschio è provocato da un accumulo di testosterone che provoca una pulsione verso l’orgasmo. Per questo motivo quando lui è eccitato, cerca automaticamente la liberazione cioè lo sfogo della tensione sessuale. Per la donna i tempi sono completamente diversi. Il suo appagamento è dato dal crescere della tensione sessuale e dall’assaporare il desiderio, dall’essere toccata su tutto il corpo e non solo direttamente sugli organi genitali. E’ un percorso diverso che la coppia deve conoscere per trarre il massimo godimento dal rapporto sessuale.

Manifestargli il piacere

L’uomo per misurare la propria prestazione guarda soprattutto l’appagamento della sua compagna. Manifestare in modo esplicito questo piacere, cioè il raggiungimento dell’orgasmo, contribuisce a dargli fiducia e serenità e a migliorare la qualità della rapporto di coppia. Anche se l’orgasmo non arriva, è importante mostrargli partecipazione al rapporto sessuale ed evitare di dimostrare delusione o distacco, altrimenti si sentirà avvilito e “colpevole”.

Gemiti e parole

Esprimere le proprie sensazioni è importante per la buona salute del rapporto, ma non si deve esagerare. Gli uomini amano i gemiti delle loro compagne e sentirle abbandonate al piacere, ma vengono letteralmente paralizzati da quelle che fanno discorsi nel bel mezzo del rapporto sessuale. Una frase compiuta detta in un certo momento indica che lei non sta partecipando e godendo come lui credeva. Un episodio di questo tipo può far spegnere anche un momento di passione bruciante.

Farlo sentire amato

Per dare il massimo di se stesso e della sua prestazione sessuale l’uomo deve sentirsi amato e apprezzato. Non significa rassicurarlo continuamente rispetto alle sue capacità sessuali ma semplicemente prestare attenzione alla sua sensibilità, la stessa che si pretende da lui. Attenzione a non offendere la sua suscettibilità con commenti bruschi e negativi perché bloccano il suo desiderio. Se un tocco o una carezza non sono mirati o provocano addirittura fastidio, meglio non dirlo apertamente ma spostare con dolcezza la sua mano verso il punto preferito senza fare commenti e senza interrompere il ritmo del rapporto.

Lasciargli gestire – in parte – il gioco

Le donne in genere vogliono che il loro uomo si mostri sicuro e padrone della situazione ma non vale anche il contrario. Una certa disinvoltura è sicuramente seduttiva, ma troppa sicurezza spesso lo intimidisce. La donna-pantera può essere la protagonista principale di fantasie erotiche ma difficilmente lui desidera che la propria compagna gli assomigli. Questo non vuol dire frenare la propria verve seduttiva, anzi, ma lasciare la conduzione di una parte del gioco a lui.

…e cosa piace a lei

Stimolazione fisica e visiva

Per la donna, la possibilità di provare piacere durante il rapporto sessuale è garantita da due componenti “essenziali”: la corretta stimolazione del clitoride e l’attrazione fisica nei confronti del partner. Se il secondo requisito è più semplice da avere, visto che è la donna stessa a scegliere e desiderare il partner, il secondo è in genere più difficile da soddisfare, specie se il compagno non è disponibile (o preparato) a dare piacere alla propria compagna.

L’eccitazione femminile dipende strettamente dal clitoride, in cui convergono e si concentrano tutte le sensazioni erotiche provenienti anche dalle altre zone del corpo. La sollecitazione prodotta dal rapporto sessuale non è quasi mai sufficiente a consentire l’orgasmo, salvo il caso in cui la zona del clitoride non entri in stretto contatto con il pube dell’uomo. Se, dunque, durante l’amplesso si dovessero avvertire solo sensazioni tiepide o dovesse risultare faticoso ottenere l’orgasmo può essere sufficiente accarezzarsi, o farsi accarezzare dal partner. Tenendo presente che questa stimolazione non deve essere né troppo diretta, né esageratamente vigorosa.

Carezze mirate

La stimolazione del seno oltre a risultare piacevole in se stessa può accelerare la comparsa del piacere nella donna. Quando il seno viene sollecitato da carezze e baci, l’ipofisi, che è una ghiandola situata al centro della testa, rilascia piccole quantità di ossitocina. Si tratta di un particolare ormone che, per sua caratteristica, favorisce la comparsa delle contrazioni legate all’orgasmo e potenzia le sensazioni di piacere che ne derivano.

Prepararsi all’amore

Iniziare a fare l’amore molto prima di farlo è una strategia molto efficace per arrivare al momento del rapporto sessuale già su di giri e quindi più aperte al piacere. Non c’è nulla di complicato in questo accorgimento, anche qualora il partner sia poco disponibile a “perdere tempo” in preliminari. Nelle ore che precedono l’incontro con il proprio amante, ci si può soffermare con il pensiero su una fantasia particolarmente intrigante e trasgressiva. Il trucco funziona in termini di potenziamento della risposta erotica perché regala lievi sensazioni di euforia e di eccitazione che permettono poi di affrontare il sesso con più trasporto ed, eventualmente, meno inibizioni.

pubblicato sul sito il 04 marzo 2009

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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