CERCHIAMO DI CAPIRCI, CERCHIAMO DI PIACERCI

Si tratta di due cose non facili ma veramente molto importanti. Chi vi scrive è un medico specialista in malattie allergiche e respiratorie, diplomato in medicina psicosomatica ed in psicografologia nonché counselor rogersiano ma è soprattutto una persona che studia da 25 anni le reazioni del nostro corpo e della nostra psiche a tutto gli eventi che capitano… e che non capitano.
Come molti di voi forse già sapranno, il nostro corpo ci parla. Continuamente.
Se ad esempio la pressione si alza vuol dire che forse siamo arrabbiati per qualcosa o più specificamente, se è la pressione minima che si alza, che probabilmente siamo “compressi” da qualche cosa (che può anche essere un pensiero, una paura, una mancanza , anche una rabbia per qualcosa che appunto non abbiamo fatto).
Se si riacutizza la gastrite o peggio ancora l’ulcera potrebbe darsi che siamo costretti a “sorbirci” una situazione (o una compagnia, o un lavoro) che non ci piace, e cioè, simbolicamente, un “nutrimento” che ci fa male , ci irrita, che intimamente e profondamente vorremmo evitare o magari sostituire con qualche altra “pietanza” più consona ai nostri gusti.
A questo proposito mi capita sempre più spesso di vedere persone che in maniera conscia (quindi con la mente e con la verbalizzazione) oppure in maniera inconscia (quindi con il corpo e con segni e sintomi vari) esprimono il loro disagio ed il loro malessere perché vorrebbero accoppiarsi, incontrare una persona con cui condividere qualcosa.
Vi posso dire che molti sintomi e addirittura molte malattie sono campanelli d’allarme del nostro organismo che chiede qualcosa di più dalla nostra vita , che desidera un attenzione, un affetto, un contatto fisico. In questo caso il sintomo o la malattia esprimono spesso il disappunto, la rabbia perché la cosa desiderata non avviene.
D’altra parte è stato dimostrato che lo scambio affettivo, l’accoppiamento, la convivenza , così come l’attività sessuale fanno bene, riducono l’incidenza di svariate patologie, allungano e migliorano la vita.
Purchè naturalmente questa relazione o questa convivenza non diventino un’inferno!
Come avrete notato abbiamo parlato di diversi gradi di relazione (lo scambio affettivo, l’accoppiamento, la convivenza..la semplice attività sessuale…).
Ed ecco spiegato il mio titolo: cerchiamo di capirlo , cioè cerchiamo di capirci !
Per tante ragioni questo può non essere facile!
Molte volte infatti non è chiaro il tipo di rapporto che si desidera: uno sposo/a, un compagno/a, un amico/a; un amante; una persona con cui avere rapporti occasionali ? Possiamo provare a capirlo , cioè a ritagliarci l’abito su misura, quello adatto per noi e questo ci faciliterà l’incontro con la persona giusta.
Magari ci troviamo in una condizione tale che non possiamo (cioè non vogliamo) sposarci o non possiamo (non vogliamo) avere una convivenza. Non c’è problema .. troveremo un’amicizia piacevole con cui condividere le nostre cose per il momento e poi, eventualmente si vedrà.
E quando l’incontro avviene il corpo e la mente ci potranno aiutare a capire! Ma dobbiamo stare attenti a non sfuggire o se questo succede per lo meno a capire perché accade !
E quindi ancora una volta, cerchiamo di capirci !
Ma cerchiamo anche di piacerci. Se siamo veramente convinti di stare bene come stiamo e di stare bene con noi stessi allora va bene così. Niente di meglio. Se invece no, cerchiamo di capire cos’è che non va ! Dobbiamo forse migliorare il nostro look ? E allora facciamolo. Non stiamo a sentire le pedanterie di qualche falso filosofo castigatore dei costumi. Anche solo un particolare ricercato, un accessorio elegante, un “vestito bello”, una pettinatura diverso, degli occhiali più belli se sono in sintonia con noi stessi potrebbero aiutarci ad incontrare la persona giusta.
Perché non dirci: oggi metto il vestito più bello o meglio, lo ripeto, l’abito più adatto a noi, anche in senso strettamente materiale!
Tutte le cose in cui ci identifichiamo, che riflettono in maniera particolarmente efficace la nostra personalità possono aiutarci e possono catturare l’attenzione degli altri e, in effetti, la ricerca delle cose che sono in sintonia con la nostra energia psico-fisica, ma anche delle attività , delle occupazioni, degli hobby, degli amici a noi più consoni ci aiuterà a ritrovarci in questo senso.
In fondo questa ricerca , rappresenta uno degli scopi della vita!
Se poi sentiamo c’è qualcosa che proprio non va dentro di noi, di più profondo, perché non provare a guardarci dentro… oggi abbiamo a disposizione un ventaglio di professionisti qualificati di cui possiamo avvalerci! Mi sapete dire perché non possiamo farlo. Dobbiamo solo scegliere la persona giusta, magari fidandoci più di un sano passaparola tra i nostri amici e conoscenti e della nostra sana impressione istintiva , piuttosto che di titoli o di targhe fuori al portone.
Tutti ( e dico veramente TUTTI) siamo persone interessanti se: A) stiamo bene con noi stessi B) sappiamo valorizzarci e le due cose di solito vengono di pari passo e si influenzano a vicenda.
Se vogliamo veramente stare meglio cerchiamo di raccogliere questa sfida, ma prendendola senza drammi, quasi come un gioco. Impariamo a gestire al meglio questa dote che abbiamo avuto in sorte dal destino.
Allora cerchiamo di piacerci e di piacere! E stiamo anche attenti falsi amici che vogliono buttarci addosso le loro depressioni e magari farci ingollare l’ennesima pizza inutile per accumulare ancora chili di troppo e anche al nostro “nemico” interno, le nostre resistenze, che ci fanno magari aspirare a mete (leggi anche persone ) irraggiungibili e non ci fanno vedere tutte le persone e le cose valide ed interessanti che abbiamo intorno.
Non importa se siamo alti, bassi, magri o grassi, belli o brutti. Chi vi parla ha senz’altro diversi chili di troppo che regolarmente cerca di smaltire ed ha i suoi problemi psichici e fisici, ma ciò nondimeno non ha mai avuto problemi ad interessare chi poteva interessargli.
E’ la cura che abbiamo di noi che conta ! Dentro e fuori.
E quindi ancora una volta cerchiamo di capirci, cerchiamo di piacerci.

Invito alla psicografologia
Uno dei tanti modi per aiutarci a capire meglio noi stessi e quindi per aiutarci a stare meglio è l’interpretazione della scrittura.
La scrittura libera è uno dei più semplici test proiettivi dell’io oggi esistenti. La sua validità è stata documentata dalle varie Scuole che a livello internazionale hanno studiato ed elaborato le teorie e le tecniche della psico-grafologia.
Saggi e perizie grafologiche vengono oggi utilizzati oltre che come metodo di autenticazione di firme e di scritti a livello legale (essendo la scrittura quasi una sorta di impronta digitale psichica del soggetto), come supporto a perizie psichiatriche per vari scopi, come test valutativo per la selezione del personale e per le assunzioni nelle Aziende e anche come test valutativo dalle agenzie matrimoniali!

Questo sito vi offre la possibilità di un saggio psico-grafologico effettuato secondo i canoni del Metodo Marchesan (Università Internazionale della Nuova Medicina Milano) su alcuni dei caratteri salienti della vostra scrittura.
Per effettuare il saggio potete inviare via fax un saggio della vostra scrittura su foglio A4 senza righe e riempiendo completamente il foglio con un brano a vostro piacere scritto possibilmente senza andare a capo.
Inizieremo dal mese di Aprile 2006!
Il brano dovrà essere scritto in posizione comoda e con penna a scelta del candidato ma di colore nero.
Verranno esaminati ogni mese, naturalmente gratuitamente e senza alcun impegno i primi cinque scritti che perverranno al numero di fax 0815609514.
Le risposte verranno inviate al vostro indirizzo e-mail che indicherete nell’ultimo rigo dello scritto.
Gli scritti a cui non verrà risposto potranno essere inviati nuovamente il mese successivo.

 

Dott. Carlo Masi

Medico – Counsellor

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

 

IL PICCOLO PRINCIPE E LA DIPENDENZA AFFETTIVA

“ Certo – disse la volpe – tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. Ed ancora: “… se tu mi addomestichi la mia vita sarà come illuminata.”(da Il Piccolo Principe)
Così la volpe al Piccolo Principe, ed in queste frasi si potrebbe cogliere quasi l’annullamento della propria personalità, dei propri bisogni e delle proprie esigenze rispetto a quelle di chi amiamo e ci addomestica. “Creare legami…” così poi l’animale spiega al ragazzino il significato del verbo “addomesticare” ma è pur vero che chi viene addomesticato diventa dipendente di chi lo addomestica, quest’ultimo appare ai suoi occhi il punto primario della sua vita e con lui stabilisce un legame esclusivo ed opprimente. Se in un rapporto sano l’esclusività si manifesta ad esempio con la fedeltà verso il proprio partner, in una relazione retta dalla dipendenza affettiva essa è un chiudersi all’esterno, un isolarsi completamente per vivere nutrendosi soltanto dell’altro e di ciò che si può fare per lui. Il partner è origine e fine ultimo di pensieri e gesti, ci si riempie di lui non lasciando spazio per nient’altro che possa dare ossigeno benefico alla coppia, in lui si riversano tutte le aspettative di gratificazione perché solo lui ha il dovere di renderci felici. Non ci si rende conto, invece, che l’altro non può adempiere ad un così assurdo compito e si entra in un rapporto conflittuale con l’esterno a cui addossare le colpe della infelicità che si ricava dalla dipendenza affettiva. Chi ne soffre difatti è possessivo ed estremamente geloso di tutto quello che può rappresentare una sorta di distrazione per il partner. Nulla deve scalfire il mondo ovattato ed asfissiante che ha creato, ed in questa infelicità prodotta a proprio uso e consumo ogni gestualità, ogni parola è amplificata, dilatata fino a che non si arriva al punto di rottura. Quello in cui il partner decide di ribellarsi andando via, lasciando l’altro con un grande e quasi insormontabile senso d’abbandono, figlio della dipendenza affettiva. Così il Piccolo Principe risponde alla volpe quando questa, al momento della sua partenza, gli dice che piangerà: “E’ colpa tua, io,non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…” Questa affermazione è terribile, nessuno si sognerebbe di accusare il partner di essersi innamorato di lui, a meno che chi parla non ha a che fare con il desiderio di scrollarsi di dosso una responsabilità divenuta opprimente.
Un sano legame d’amore, invece, contempla in sé il momento della separazione o di un momentaneo allontanamento, per un viaggio di lavoro ad esempio, mentre il lutto della separazione definitiva è vissuto con un dolore affrontabile, a cui la ragione corre in aiuto sostenendo la ripresa di chi lo prova.

ADELAIDE SPALLINO

BLOG ISOLA EMERSA

IL PICCOLO PRINCIPE (capitolo XXI) di Antoine de Saint-Exupery

In quel momento apparve la volpe.
“Buon giorno”, disse la volpe.
“Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
“Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo… ”
“Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino… ”
“Sono una volpe”, disse la volpe.
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono così triste… ”
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomesticata”.
“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
“Che cosa vuol dire “addomesticare”?”
“Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe, “che cosa cerchi?”
“Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe.
“Che cosa vuol dire “addomesticare”?”
“Gli uomini” disse la volpe, “hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?”
“No”, disse il piccolo principe. “Cerco degli amici. Che cosa vuol dire “addomesticare?”
“È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
“Comincio a capire” disse il piccolo principe. “C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…”
“È possibile”, disse la volpe. “Capita di tutto sulla Terra… ”
“Oh! non è sulla Terra”, disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa:
“Su un altro pianeta?” “Si”.
“Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?” “No”.
“Questo mi interessa. E delle galline?”
“No”.
“Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea:
“La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano… ”
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
“Per favore… addomesticami”, disse.
“Volentieri”, disse il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”.
“Non ci conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”
“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino… ”
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe.
“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro,dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore. Ci vogliono i riti”.
“Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe.
“Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedi ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedi è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza”.
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò”.
“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi… ”
“È vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“È certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore …del grano”.
Poi soggiunse: “Và a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto”.
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente”, disse. “Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo”.
E le rose erano a disagio.
“Voi siete belle, ma siete vuote”, disse ancora. “Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perchè è lei che ho innaffiata. Perchè è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perchè è lei che ho riparata col paravento. Perchè su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perchè è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perchè è la mia rosa”.
E ritornò dalla volpe.
“Addio”, disse.
“Addio”,…disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.
“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.
“È il tempo che ho perduto per la mia rosa… ” sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa… ”
“Io sono responsabile della mia rosa… ” ripeté il piccolo principe per ricordarselo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

L’AMAVA A TAL PUNTO…

L’AMAVA A TAL PUNTO…

…che se la sarebbe mangiata con gli occhi. 
Quando l’amore diventa dipendenza.

dipendenza affettiva e disturbi del comportamento alimentare

 

E’ capitato a tutti, durante l’innamoramento, di sperimentare una fase psico-temporale di dipendenza affettiva dall’oggetto del nostro amore.

Capita quando una donna si innamora di un uomo (e viceversa) ma anche in talune amicizie; capita anche tra genitore e figlio.

Ogni rapporto contrassegnato da forti legami affettivi oscilla spontaneamente su un continuum i cui estremi sono la DIPENDENZA e l’INDIPENDENZA reciproca o di un solo membro della coppia rispetto all’altro.

Erroneamente si pensa che l’amore implichi dipendenza psicologica, fisica e materiale tra gli individui: non si riesce a vivere senza l’altro neppure per brevi periodi, non si riescono a prendere decisioni se non dopo averlo consultato (o se è un bimbo, solo in sua funzione), in assenza dell’altro si sperimentano stati di insicurezza, disagio, ansia e si necessita di continue rassicurazioni su quanto egli ci ami.
LA DIPENDENZA NON E’ AMORE, MA UNO STATO PATOLOGICO.

Un buon attaccamento tra madre e figlio, ad esempio, prevede che quest’ultimo riesca serenamente a distaccarsi dalla madre, così come un rapporto d’amore tra due adulti dovrebbe preservare gli spazi di autonomia psicologica e fisica di ciascuno.
Spesso, nei casi in cui la famiglia sia colpita da un DCA evidenziato in uno dei suoi membri, questi complessi meccanismi di DIPENDENZA/INDIPENDENZA sono in qualche modo “bloccati” su stili relazionali invischiati: coloro che condividono una relazione affettiva sono come legati insieme da meccanismi dannosi per tutti.
Non è facile, specialmente per un bambino, esprimere verbalmente o con un comportamento adeguato la sua condizione di OGGETTO D’AMORE DA CUI DIPENDE IL GENITORE. I bambini “sentono”, sono molto percettivi: sentono gli stati d’animo e le tensioni materne anche se la madre li vuole celare, sentono il clima familiare e assorbono come spugne i metamessaggi veicolati attraverso il linguaggio simbolico del corpo (§prossemica, tono della voce) e dei comportamenti.
Ecco che in una famiglia dove la comunicazione non risulta chiara e diretta all’oggetto, il cibo (come altri aspetti del quotidiano) può fungere da veicolo comunicativo, assumendo significati simbolici che vanno al di là del suo valore strumentale.
Se i genitori usano il cibo come simbolo, il bambino imparerà anch’esso ad utilizzare i momenti dei pasti come privilegiati per “dire”, attraverso l’uso degli alimenti, qualcosa che andrebbe invece espresso in altra sede e con altri mezzi comunicativi.
Ecco che CIBO – AMORE – DIPENDENZA possono diventare i vertici di un triangolo che racchiude in sé parte delle cause dell’insorgere di un DCA; non tutte ovviamente, essendo tali Disturbi a genesi multifattoriale.
Diventa allora importante informarsi e formarsi anche ad amare in modo corretto i propri familiari, figli e partner, per consentire ad ogni membro del nucleo familiare uno sviluppo personale autonomo e sano e per non alimentare in seno alla famiglia un rapporto sbagliato con il cibo e l’alimentarsi.
Dott.ssa Chiara Rizzello

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

LO STALKING

Il termine mutuato dell’inglese “stalking” deriva dal verbo “to stalk” (fare la posta, seguire, cacciare) e definisce una serie di comportamenti intrusivi, di controllo, di sorveglianza nei confronti di una vittima che subisce attenzioni in modo non gradito e molesto.

Nella maggior parte dei casi condotte assillanti riguardano partner o ex partner di sesso maschile (in Italia il 70% è un uomo) con un’età compresa tra i 18 ed i 25 anni (il 55% ei casi) quando si tratta di abbandono o della fine di una relazione sentimentale, o superiore ai 55 anni quando si tratta specificamente di una separazione o di un divorzio.

La norma italiana del codice penale più vicina a tale condotta è il reato per “Molestie o disturbo alle persone :

“Chiunque,in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con mezzo

 del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno

 molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda

 fino a 516 euro ( art.660 c.p.)”.

E’ un “modus vivendi” entro il quale si intrecciano dinamiche psicologiche e relazionali “malate”, “petulanti” e “persecutorie” di ex partners gelosi, livorosi, abbandonati o semplicemente incapaci di elaborare il “rifiuto” in situazioni in cui questi elementi vengono letti come attacchi all’ “io”, e pertanto difficile l’orientamento attraverso i “canali normali” del senso della realtà.

Ne deriva un atteggiamento intrusivo, ossessivo e persecutorio di imposizione della “presenza” attraverso telefonate, sms, mms, e-mail, aggressioni e pedinamenti.

Nei soggetti interessati, spesso con problemi relazionali, risulta offuscata la capacità ideativa ed empatica, in virtù della spinta motivazionale polarizzata verso la rappresentazione assolutizzante della vittima che, talvolta, è sconosciuta.

La vittima del molestatore in molti casi è ansiosa e stressata.

Vittime impaurite dai deliri di onnipotenza di uomini che non si stimano nè sono stimati a loro volta, a causa delle allucinazioni che somministrano ed elargiscono attraverso il disprezzo, la disistima e soprattutto la violenza psicologica.

La sua vita è difficile, inquieta, non solo perché la modalità relazionale con lo stolker è devastante, ma anche per il conseguente e progressivo decadimento della vitalità che deriva sempre dalla perdita di riferimenti.

Ed anche nella fase risolutiva della “consapevolezza” di una relazione fuori dai canoni della “vivibilità normale”, la via della ricostruzione personale dell’ ex vittima è molto complicata poiché, in genere, comporta un cambiamento radicale dello stile di vita (città, lavoro, amici) unito ad una destabilizzazione degli equilibri affettivi. Emotivi e relazionali, violati e demoliti giorno dopo giorno.

Il fenomeno è attualmente all’attenzione dei media oltre che di notevole rilevanza socio-politica, anche perché le dinamiche relazionali entro le quali lo “stalker” interagisce e si esprime sono, in molti casi, l’effetto del cambiamento e della evoluzione di dinamiche comunicative interpersonali tipiche della società odierna.

Proprio per questo il fenomeno oggi ha una maggiore visibilità, sebbene l’esternazione del disagio che lo stolker manifesta non è propriamente un fatto recente, se non nelle modalità. Si tratta, infatti, di un antico disagio psicologico e, nei casi più gravi, di malattia mentale.

Personalmente mi soffermerei un attimo a comprendere cosa renda così vulnerabili e fragili tante, troppe donne-vittime e artefici di un processo di costruzione della propria demolizione ad opera di individui violenti. Donne inconsapevoli della loro forza, abusate nella loro “pars construens”, fiaccate e mortificate nella libertà e nella consapevolezza che pur tutti possediamo.

Donne che si sono affidate in autogestione all’unico scopo di onorare ed essere devote alla forza distruttiva dell’ “homo denstruens”.

Il prezzo della salute mentale della vittima è altissimo e proporzionale al consolidamento della relazione nel tempo, per reiterati attacchi alla “persona”, al “senso della realtà”,”alla verità”.

E’ un dato di fatto che l’uomo sia l’unico primate che perseguita e tortura, senza motivi apparenti, traendone soddisfazione.

In virtù di questo elemento storicamente certo l’aggressività umana va sempre controllata e mai sottovalutata in quanto pericolosa.

Se non ci soffermiamo e lavoriamo sulle risorse “sane” e “normali” che dobbiamo sentire dentro, e che per fortuna la gran parte degli uomini possiede, non saremo in grado di riconoscere i principi semplicissimi della “verità” e della “giustizia” intesi non nell’accezione dogmatica della mortificazione del pensiero, ma come “ricerca”, ”dubbio” ,”criterio di conoscenza”, “forza interiore” per operare scelte responsabili ed andare avanti.

Libertà genuina, indipendenza e soprattutto il saper riconoscere ogni forma di controllo e di sfruttamento ritengo siano le premesse per riconoscere atteggiamenti e modalità “devianti” come la condotta dello stolker, di cui si è parlato molto, ma ancora troppo poco del “vivaio” socio-culturale-religioso che feconda la predisposizione alla “devozione”, “sottomissione”, “riverenza”.

L’amore per la vita, riuscire a contaminare ogni cosa della dialetticità del cambiamento, considerare formativi i percorsi personali dolorosi, ma sempre piccoli pezzi di strada da cui fuggire e gambe levate, ritengo siano l’unico conforto quando troviamo normale l’assurdo.

Saper riconoscere l’assurdo è il criterio per non sopportarlo più.

Uscire dal “pensatoio” delle stranezze ossessive dove l’unica possibilità sembra quella di farsi fare del male.

L’amore ed i rapporti umani, i sentimenti sani e normali interagiscono sempre con la ricerca del bene, eppure capita spesso che le relazioni vengano fraintese con altre cose, e coltivate di conseguenza su un terreno di assoluta violazione dei diritti umani.

Infatti,, spesso, lo stalker non si limita soltanto a molestare la vittima, ma pone in essere comportamenti illeciti ulteriori, costituenti autonome figure di reato oggetto di specifiche ed ulteriori sanzioni, quali: l’omicidio (art. 575 c.p.), le lesioni personali (art. 582 c.p.), l’ingiuria (art. 594 c.p.), la diffamazione (art. 595 c.p.), la violenza privata (art. 610 c.p.), la minaccia (art. 612 c.p.), la violazione di domicilio (art. 614 c.p.), il danneggiamento (635 c.p.).

 

Prof. Di Lunardo Concetta

Docente di Filosofia e Psicologia

Counselor psico-filosofa

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

LA DANZA INCONTROLLATA: OSSESSIONE E DIPENDENZA

“Scarpette Rosse” La danza incontrollata: Ossessione e Dipendenza

La dipendenza si connota attraverso un esplosivo agire “furtivamente” che si verifica laddove l’individuo sopprime ampie parti dell’Io tra le ombre della psiche. Egli reprime gli istinti positivi e negativi, i bisogni e i sentimenti dell’inconscio e fa si che essi dimorino nel regno delle ombre. Succede così che tale individuo si trovi a condurre una vita simulata, come se non volesse sentire o vedere qualcosa: una parte sconosciuta di sé che egli avverte in modo angoscioso. E allora procede furtivamente, ingannando sé stesso, gettando via il tesoro dei propri bisogni, delle proprie tensioni di dolore e di paura, che gli potrebbero indicare una strada per colmarli e ritrovare una gioia reale. In questo modo egli è costretto a rubacchiare morsi e pezzetti ovunque.

Quando non accettiamo una parte di noi o una nostra emozione rimaniamo soli. Fingiamo di non essere così e combattiamo in silenzio. E’ come se non respirassimo: o forse alcune volte proviamo a respirare troppo velocemente o non respiriamo affatto rifacendoci ad un ideale di perfezione del tutto o niente. L’unica alternativa al furto del piacere è un atto di coraggio rispetto all’affermazione di ciò che sentiamo e siamo fino in fondo. Ciò significa imparare ad ascoltarci anche nelle tensioni spiacevoli: imparare ad essere noi fino in fondo con i nostri limiti e le nostre risorse.

Abbiamo un’alternativa di fronte ad una falsa vita rubata: guardare e riconoscere la fame del bambino deprivato che è dentro di noi e che protesta a gran voce. Nascondere la fame di questo bambino ed il dolore e il senso di vuoto che questo comporta significa rischiare che essa ci bruci e ci consumi attraverso atti rubati compiuti come un rito magico da non rivelare agli altri.

Quando non riconosciamo la fame ci illudiamo che altri ci regalino “Le scarpette rosse” che sono in grado di stordirla e di non sentirla, di farci danzare in un mondo meraviglioso e fantastico in cui non esistono bisogni. In questo modo, ci rifiutano di vivere la vita con i suoi cicli ed i suoi ritmi di crescita e decrescita, di vita e di morte per poi arrivare ancora alla vita. Intanto la nostra fame non viene saziata ma continua ogni volta a crescere ed a diventare un buco incolmabile che ci divora.

Con le nostre scarpette ideali diamo inizio all’ultima danza: una danza nel vuoto dell’inconsapevolezza. Siamo come bambini che volteggiano lontano dalla vita e ci rifiutiamo di prendere il cibo adatto e concreto per saziarci, perché questo costa fatica e lotta. Continuiamo a danzare frenetici pensando che qualcosa di magico ci fermi o che ci fermeremo quando lo decideremo.

Ma non è così: finché non riconosciamo la fame e non sappiamo procurarci un cibo che costa fatica, dolore ma anche gioia di un pieno concreto, continueremo la nostra infinita azione senza mai fermarci. E’ necessario riappropriarci del nostro istinto vitale per riconoscere le trappole di un facile paradiso e saper dire basta. Non è la gioia di questo paradiso irreale a rendere sempre più grande il nostro vuoto, ma piuttosto la mancanza di gioia che sentiamo mentre siamo all’interno di esso.

Quando non ci rendiamo conto della nostra fame, continuiamo a danzare ed a nascondere il nostro dolore e la nostra tristezza di fronte a qualcosa che è rimasto vuoto in noi, sia solo per guardare e sentire questo vuoto, per poi decidere l’azione adeguata per poterlo colmare.

Dipendenza e fame del nostro bambino deprivato sono connesse. Finché non ci assumiamo la responsabilità della nostra parte adulta che può essere in grado di nutrire e colmare la fame del nostro io bambino continueremo a negare le nostre libertà interiori ed esterne accettando continui soprusi su di noi e le persone che amiamo. Finche non riconosciamo questo bambino deprivato, sarà lui a prendere l’intero controllo su di noi ed a ricercare qualsiasi cosa: sostanza, persona, azione, lavoro, ecce… che in quel momento subito lo possa placare. E’ necessario riprendere la capacità di sentire fino in fondo tutte le emozioni di questo bambino interiore: piacevoli e spiacevoli, per poi imparare ad essere “Buoni genitori” che sanno prendersi cura di lui. Nessun altro lo potrà fare se non noi.

Le persone trascinate dalle “Scarpette Rosse” all’inizio pensano che possa esistere un intervento esterno da parte di qualcuno o di qualcosa (es. la sostanza) che in qualche modo possa colmarle e ritrovare la risoluzione illusoria di tutte le loro tensioni. E’ come se fossero dei neonati e cercassero un grande seno con un latte non nutriente in grado di placare ogni loro bisogno. In realtà la dipendenza è una grande mamma che divora tutti i bambini che si sono perduti e li getta sulla porta del Boia.

E’ necessario tornare alla vita fatta a mano, modellata giorni per giorno: è necessario riprenderci l’adulto in grado di provvedere al bambino, anche se ciò comporta dolore.

Separarsi dalle “Scarpette Rosse” e dalla vita ideale è doloroso. Ma la separazione è una benedizione.

Troveremo la nostra strada e ricominceremo a correre con le scarpe fatte da noi magari più imperfette, ma che ci daranno la gioia di una nostra creazione.

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

PSICODRAMMA E SOCIODRAMMA

INCONTRO

“Un incontro di due:

occhi negli occhi, volto nel volto.

E quando tu sarai vicino:

io coglierò i tuoi occhi,

e li metterò al posto dei miei,

e tu prenderai i miei occhi

e li metterai al posto dei tuoi.

Così io guarderò te con i tuoi occhi

e tu guarderai me con i miei.

Così persino la cosa comune impone il silenzio

e il nostro incontro rimane la meta della libertà:

il luogo indefinito, in un tempo indefinito,

la parola indefinita per l’uomo indefinito.”

( J.L. Moreno 1985: 7 ).

 

Psicodramma, Sociodramma e Sociometria debbono la loro origine e la loro prima diffusione nel mondo alla persona di J.L. Moreno , psichiatra di origine romena, che svolse la sua pratica e ricerca professionale prima nella Vienna degli anni ‘20 e successivamente negli Stati Uniti d’America.

Riferimenti storici: j.l. Moreno

J.L.Moreno nacque a Bucarest nel 1889 ma trascorse l’infanzia e la prima giovinezza a Vienna dove ebbe la sua formazione culturale e professionale, studiando dapprima filosofia e laureandosi successivamente in medicina. Uomo portato a condividere il clima ed i fermenti culturali della Vienna degli anni ’20, fondò insieme a Martin Buber e ad altri intellettuali viennesi la rivista “Daimon” ed iniziò le prime esperienze di avanguardia teatrale alternandole al lavoro clinico come medico psichiatra. Nel 1925 si trasferì negli Stati Uniti a causa del clima politico ed autoritario che si andava profilando in Europa e che non facilitava lo sviluppo delle sue idee e dei suoi progetti. Lavorò dapprima con lo Psicodramma con i bambini del Plymouth Institute of Brooklyn e con gli adulti alla clinica psichiatrica dell’ospedale Monte Sinai di New York. Continuava nel frattempo il lavoro di integrazione di teatro e Psicodramma all’Improptu Group Theatre presso la Carnegie Hall (New York).

Nel 1936 aprì una clinica privata a Beacon (vicino a New York) dove realizzò il primo teatro di Psicodramma. Gradualmente Beacon divenne un centro di formazione per Direttori di Psicodramma e punto di incontro e formazione per clinici provenienti da tutto il mondo. Oltre a “Il teatro della spontaneità” (scritto negli anni di Vienna), pubblicò “Psycodrama I”, “Psychodrama II”, “Psychodrama III” (opere sistematiche sullo Psycodramma) e “Who shall survive?”, opera nella quale sistematizza le ricerche e le esperienze sociometriche, sociodrammatiche e terapeutiche svolte presso il riformatorio femminile di Hudson. Fu il fondatore della prima organizzazione internazionale di terapia di gruppo (lo I.A.G.P. = International Association of Group Psychotherapy), che attualmente riunisce terapeuti e conduttori di gruppo dei più diversi orientamenti teorici. Nel maggio 1974 moriva a Beacon.

Teatro della spontaneità e giornale vivente

I presupposti della nascita di psicodramma e sociodramma vanno ricercati nell’intersezione dei due orientamenti culturali e ideali compresenti in Moreno:

? l’interesse per la sperimentazione teatrale ad orientamento sociale;

? l’interesse per la sofferenza psichica.

Negli anni venti Moreno creò un gruppo teatrale che realizzava rappresentazioni con il pubblico, senza utilizzare copioni, sceneggiature, ma creando al momento l’azione drammatica a partire da tematiche sociali rilevanti o da temi suggeriti dal pubblico. Nasceva il teatro della spontaneità, matrice di fertili intuizioni creative sul ruolo e sul funzionamento della dinamica psichica, sulla funzione della spontaneità e della creatività, sul gruppo e su tutti quei concetti sui quali si edificherà lo psicodramma.

” Il giornale vivente ” è il prototipo del teatro della spontaneità. Gli attori con l’ausilio del pubblico rendevano concreti, percepibili e ”drammatici” alcuni fatti e situazioni di cronaca, oggetto d’interesse e dibattito per il pubblico.

Il teatro della spontaneità si orientò successivamente alla rappresentazione ed alla elaborazione, mediante il coinvolgimento del pubblico, di problemi e situazioni esistenziali emergenti “in situ” dai partecipanti. Gli attori si trasformavano progressivamente da “dramatis personae” in IO ausiliari, specchi stimolanti per i drammi reali della vita di tutti i giorni delle persone. Il pubblico da una posizione passiva si trasformava in attore partecipe, assumendo il ruolo di contenitore o di cassa di risonanza, come nel coro della tragedia greca.

E’ in questo ambito di fermento creativo che Moreno scopre la valenza terapeutica dei metodi di azione . E’ noto a tal riguardo il caso di Barbara, che consentì a Moreno di sviluppare la metodica dello psicodramma terapeutico. Barbara, giovane attrice del “Teatro della spontaneità”, si era da poco sposata con uno scrittore, George. Ella ricopriva sempre il ruolo di fanciulle gentili ed ingenue. Un giorno il marito George, in preda a disperazione, si confidò con Moreno rilevandogli che a casa la moglie si mostrava una donna intrattabile, dal linguaggio volgare, che addirittura lo picchiava quando cercava di fare l’amore con lei.

Qualche giorno dopo il giornale riporto in cronaca nera la notizia dell’assassinio di una prostituta per mano del suo protettore. Moreno ebbe un’intuizione: convincere Barbara a rappresentare la parte della prostituta. Così fece: ed ella ricoprì quel ruolo con tale forza, stimolando l’attore che faceva da protettore ad una risposta così frenetica che al culmine della scena del delitto il pubblico si alzò in piedi gridando: “basta!”.

A casa, dopo lo spettacolo, temporaneamente liberata della sua carica aggressiva, Barbara fu insolitamente tenera con George. Moreno continuò a farle rappresentare caratteri violenti, ed ella diventava sempre più trattabile quando si allontanava dal teatro. Un giorno Moreno invitò George sul palcoscenico accanto a Barbara, per duplicare gli episodi della loro vita privata. “Alcuni mesi più tardi” – egli racconta – “essi si sedevano con me in teatro, pieni di gratitudine. Avevano riscoperto se stessi e il loro rapporto”.

L’episodio di Barbara aveva concretizzato un elemento che rimane fondamentale nello psicodramma, un elemento già noto agli antichi drammaturghi greci: la “catarsi”.

Lo psicodramma

Psicodramma deriva dai termini greci “PSYCHE'” (psiche o anima) e ”DRAMA” (azione). E’ quindi quel metodo che consente di esplorare il mondo psichico attraverso l’azione. Fu negli Stati Uniti, a contatto con le problematiche della malattia mentale, che lo psicodramma si strutturò come metodo terapeutico-curativo. Inizialmente le sessioni si realizzavano con uno o pochi pazienti ed uno staff di IO ausiliari professionisti che avevano la funzione di esternare il mondo reale e fantasmatico dei pazienti.

Successivamente lo psicodramma si strutturò sempre più (fino ad assumere le caratteristiche attuali) come terapia di gruppo, ove la funzione di IO ausiliario viene assunta dai pazienti stessi, rendendo non più necessaria la presenza di IO ausiliari professionisti.

Lo psicodramma manteneva tuttavia collegamenti con ambiti extra-terapeutici, sia nelle sessioni aperte (incontri di psicodramma aperti al pubblico, ove era il pubblico stesso ad entrare in azione) sia nello psicodramma addestrativo (rivolto ad allievi e professionisti), che possedeva somiglianze con le metodologie attuali di supervisione con modalità psicodrammatiche.

Il sociodramma

Il sociodramma nasce dall’esigenza di confrontarsi con quelle contraddizioni sociali e culturali che rimandano contemporaneamente sia alla dimensione psicologica intrapsichica che a quella social-culturale.

Negli Stati Uniti, in particolare, era cruciale la problematica razziale, con le sue implicazioni di pregiudizio, paura, difesa e discriminazione sociale. Il sociodramma, come strumento di intervento sui grandi gruppi, si prestava ad elaborare costruttivamente le problematiche cruciali di una comunità (sesso, conflitto generazionale o razziale, pregiudizio verso determinate categorie quali carcerati, malati di mente, ecc.). A differenza dello psicodramma, il sociodramma non si interessa tanto al mondo interno del singolo, quanto a quelle dimensioni che appartengono e trapassano trasversalmente gli individui di una determinata categoria o realtà sociale. Detto in altre parole, il sociodramma si occupa di ruoli sociali e delle loro rappresentazioni interne e culturalizzate.

L’addestramento al ruolo

L’interesse per l’addestramento e la formazione è dato in Moreno dalla prima esperienza del Teatro della spontaneità. Si trattava in questo contesto di addestrare l’attore alla spontaneità e alla creatività, alla capacità di inventare il ruolo e di sapere fronteggiare e concretizzare in modo spontaneo le imprevedibili situazioni proposte dal pubblico.

La preoccupazione principale era il superamento delle “CRISTALLIZZAZIONI CULTURALI” (stereotipi e rigidità di ruolo) per giungere alla condizione di spontaneità, premessa alla possibilità di creatività nella realizzazione del ruolo. Questo lavoro di preparazione dell’attore richiama alcune delle tecniche tuttora utilizzate nell’addestramento e nella formazione (le simulazioni e le attività di warming-up, o riscaldamento).

Fu però soprattutto nel lavoro con la comunità femminile di Hudson che Moreno utilizzò le tecniche di azione con finalità di addestramento professionale e di elaborazione delle dinamiche di gruppo delle ragazze ospiti. Queste ragazze adolescenti provenivano da esperienze di criminalità e prostituzione e si poneva alla struttura che le ospitava il compito di reinserirle nella società, fornendo loro competenze sociali e professionali, oltre che una possibilità di riequilibrio psico-affettivo. Moreno lavorò con loro con i metodi del Role-playing, dell’anticipazione delle situazioni future e anche con interventi di psico-terapia di gruppo.

L’accento era posto sull’intreccio di acquisizione di specifiche competenze di ruolo lavorativo e di formazione di una personalità capace di interazione positiva e di spontaneità.

“Un adattamento ottimale a più ambienti richiede una personalità adattabile e spontanea. […] Il nostro metodo ha parecchi vantaggi su quello consistente nel formare gli individui ad un buon adattamento sociale mediante la diretta esperienza di situazioni di vita reale. […] Prima di tutto, la serietà delle situazioni reali impedisce all’individuo di prendere coscienza dei suoi errori : la sua ansia gli farà ripetere gli stessi errori quando si ritroverà di fronte a situazioni analoghe. […] In secondo luogo le situazioni reali creano in numerosi individui una specie di inerzia affettiva dovuta al fatto che, essendo riusciti positivamente in un certo ruolo, si comportano come se non venisse loro richiesto qualcosa di più . […] Inoltre, se le situazioni reali formano un individuo in modo che possa adattarsi perfettamente ad un certo ruolo, […] tendono ad escludere dal suo orizzonte altri orizzonti. […] Per tutto ciò l’apprendimento della spontaneità, in quanto METODO DI SVILUPPO, è superiore all’apprendimento che può venire offerto dalla vita. […] Il problema dell’apprendimento non sta più nel suscitare o nel mantenere delle abitudini, bensì nel formare la spontaneità, nello sviluppare negli uomini l’abitudine a tale spontaneità ” (Moreno, 1980: 165)

La sociometria

L’interesse per la misurazione e la rilevazione qualitativa e quantitativa delle relazioni nei piccoli e nei grandi gruppi ha sempre contraddistinto il lavoro di Moreno. Tuttavia è solo nel 1934, con la pubblicazione di “Who Shall Survive?”, che Moreno sistematizza quella che lui definisce sociometria.

La sociometria moreniana (o misurazione dei rapporti sociali) ha avuto un’ampia diffusione in ambito educativo e nella ricerca sociale. Anche in questo caso, come per numerose tecniche dello psicodramma, e avvenuto una specie di “saccheggio” di fertili intuizioni operative, riutilizzate in campo sociale, educativo e terapeutico da operatori che facevano riferimento a modelli teorici anche lontani dallo psicodramma.

La sociometria, intesa come mera tecnica di rilevazione o “diagnosi statica” (che produce grafici, sociogrammi e dati numerici), è molto distante dal significato operativo e trasformativo che Moreno aveva inteso dare. Per Moreno, infatti, la sociometria è uno strumento volto alla comprensione degli spostamenti relazionali all’interno di un gruppo, in funzione di una trasformazione evolutiva delle possibilità del gruppo stesso e delle persone. La vera sociometria moreniana è la “sociometria d’azione”, fotografia immediata e mutevole delle relazioni gruppali, con l’intento di agire subito in modo spontaneo e creativo sui nodi critici di tali relazioni.

E’ tale l’uso che Moreno fece della sociometria nella comunità di Hudson sopracitata. In questa realtà Moreno utilizzò il sociogramma come strumento per modificare e migliorare le relazioni fra le giovani ospiti di Hudson: le ragazze grazie all’indagine sociometrica avevano la possibilità di strutturare la vita quotidiana in funzione combinata dei loro bisogni affettivi e degli obiettivi futuri di reinserimento sociale.

ELEMENTI CARDINE DELLA TEORIA MORENIANA

Teoria del ruolo

Per capire a fondo il significato di “RUOLO” nella teoria moreniana occorre subito differenziare tale concetto dalle due accezioni di ruolo più diffuse:

? Ruolo in senso sociologico;

? Ruolo in senso teatrale.

Il ruolo sociologico fa riferimento soprattutto alle concrete realizzazioni sociali dei ruoli, rimandando a categorie culturali e sociali di rappresentazione della vita sociale. Un ruolo sociale (es.: vigile, medico) ha determinati confini prestabiliti, compiti, sanzioni e gerarchie di status ecc., che prescindono dall’individuo e dalla persona che deve assumere questo ruolo.

Il ruolo in senso teatrale si riferisce immediatamente al concetto di “MASCHERA”, finzione ed illusione. In questo caso si parla di recitare un ruolo o una parte, non di essere quella parte.

In entrambi i casi, sia che si parli di ruolo sociale “appiccicato” ad un individuo, sia che si parli di recitare un ruolo, vi è una separazione tra la soggettività e l’apparenza .

La specificità dell’apporto moreniano alla teoria del ruolo riguarda da un lato l’estensione del concetto di ruolo a tutti gli ambiti del comportamento umano, dall’altro il collegamento ad aspetti corporei, soggettivo-intrapsichici e sociali.

Moreno definisce il ruolo come:

“ La forma operativa che l’individuo assume nel momento specifico in cui reagisce ad una situazione specifica nella quale sono coinvolte altre persone od oggetti ” (Moreno, op. cit., pag. 158) .

Per capire come i ruoli siano interconnessi con l’individuo e non siano soltanto una sovrapposizione esterna, bisogna pensare alla funzione strutturante del ruolo per la personalità. E’ l’IO che emerge dai ruoli e non viceversa. L’esperienza diretta di molteplici ruoli da parte del bambino appena nato struttura una percezione corporea, emotiva e successivamente rappresentativa del suo sé e della sua collocazione nel mondo. Il lattante sperimenta gradualmente vari ruoli, di succhiatore, di dormitore, di cucciolo coccolato, accettato o rifiutato, ecc. e sarà la confluenza e l’unificazione corporeo-emotiva e rappresentativa di tali esperienze a fare emergere l’IO.

In tal senso è evidente come l’IO si sviluppa mediante e grazie ad una notevole penetrazione del sociale nell’individuale. Moreno individua quattro categorie di ruoli che si sovrappongono successivamente nello sviluppo dell’essere umano:

  • ruoli psicosomatici (corporei), sono i primi ad emergere nello sviluppo del bambino. Sono tutti quei ruoli che riguardano le funzioni corporee (mangiare, dormire, sensazioni propriocettive, ecc.);
  • ruoli fantasmatici o psicodrammatici. Iniziano a comparire prestissimo quando si abbozza la vita rappresentativa nel bambino. Sono quei ruoli che riguardano il mondo interno della persona e racchiudono la peculiarità fantastica ed emotiva di ogni essere umano (il ruolo di “bambino ubbidiente” o cattivo, di sognatore, magico, ruoli fantastici di fate e di streghe, fantasmi divoratori e immagini oniriche…);
  • ruoli sociali . Esperienzialmente compaiono alla nascita (infatti un lattante vive già il ruolo sociale di figlio anche se non ne è cosciente), però la loro strutturazione interna rappresentativa (intesa come capacità di percepire gli individui come appartenenti a categorie sociali) data all’inizio della scuola elementare. Sono quei ruoli che appartengono alla società nella quale l’individuo vive e si sviluppa. Essi vengono codificati culturalmente e socialmente (ruoli di figlio, genitore, maschio o femmina, lavorativo ecc…).

N.B.: Per chiarire ulteriormente: se parliamo DEL genitore (il suo ruolo, i suoi compiti) ci riferiamo ad un ruolo sociale; se parliamo di UN genitore specifico, per come è vissuto, concettualizzato ed interpretato da un singolo individuo, ci riferiamo ad un ruolo psicodrammatico.

  • ruoli valoriali (o trascendentali). Hanno la loro comparsa ed esplosione “emotiva” nell’adolescenza (tempo elettivo di sogni, illusioni, progetti e “filosofia di vita”). I ruoli valoriali concernano il senso e la finalità dell’operato dell’uomo: sono il contenitore che orienta la vita attraverso gerarchie di valori, utopie e progettualità esistenziali.

N.B.: I ruoli valoriali sono connessi fortemente sia ai ruoli psicodrammatici che ai ruoli sociali: infatti da un lato rappresentano la specificità esistenziale dell’individuo (i suoi valori), dall’altro sono anche il prodotto di rappresentazioni sociali (ad esempio il ruolo di educatore porta con sé una serie di valenze valoriali quali: l’aiutare gli altri e riparare ciò che non è giusto, ecc…).

I l fattore S-C (spontaneità-creatività)

I riferimenti filosofici dello psicodramma rimandano ad una concezione dell’uomo come essere capace di liberarsi dai limiti impostigli dalla sua condizione, e capace di liberare spontaneità e creatività.

Da questo punto di vista l’orientamento psicodrammatico può essere inquadrato come finalistico, espansivo, volto alla valorizzazione delle risorse dell’essere umano; l’orientamento psicoanalitico, al contrario, può essere visto come deterministico e centrato maggiormente sui limiti ed i segni lasciati nella persona dalla sua storia.

L’ipotesi teorica ed immediatamente operativa dello psicodramma postula la compresenza nell’esperienza in ogni individuo (e nei gruppi) di due dimensioni intimamente collegate: la spontaneità e la creatività. Ogni essere è dotato della possibilità di essere spontaneo e di un certo grado di creatività.

Per evitare fraintendimenti è necessario chiarire che cosa intende Moreno per spontaneità. Essa non è ciò che il linguaggio comune definisce: un comportamento privo di regole che fa uscire in modo incontrollato emozioni, pensieri o azioni indipendentemente dalle esigenze della. La spontaneità è piuttosto una condizione che può essere creata in ogni individuo, uno stato interno che può essere prodotto e che costituisce la base per l’espletarsi della creatività.

La spontaneità è pertanto un catalizzatore per la creatività e l’una senza l’altra portano conseguenze negative e non produttive. Moreno definisce due estremi a tal riguardo:

? il deficiente spontaneo , colui che in uno stato perenne di “spontaneità”, ma privo di risorse creative, fornisce in continuazione risposte inadeguate all’ambiente e dettate solo da bisogni e stati interni;

? il creatore disarmato , colui che, ricco di potenzialità creative, non riuscendo a creare in sé uno stato di spontaneità, resta paralizzato e non riesce ad esternare le potenzialità creative (al pari della parabola evangelica dei talenti, nella quale il servitore con tanti talenti non necessariamente li mette a frutto).

E’ importante sottolineare che la spontaneità può essere educata, sviluppata e ricreata mediante un processo di riscaldamento.

La metodologia psicodrammatica parte dal presupposto che la spontaneità può manifestarsi in determinate situazioni (esempio uso del corpo, umorismo, situazioni di intimità e di contatto con l’altro, ecc.) e in tutte le persone, anche quelle più limitate o malate. E’ per questo che metodologicamente la fase di riscaldamento (o warming-up) è particolarmente curata nei gruppi di psicodramma.

Da questo punto di vista quello che il formatore è chiamato a fare, in psicoterapia, in formazione e nelle situazioni di apprendimento, non è altro che una risposta creativa scaturita dopo una fase di incubazione, in un momento di adeguata spontaneità.

Un buon equilibrio del fattore S-C porta da un lato alla capacità di dare risposte adeguate ad una situazione nuova e imprevista, e dall’altro di saper dare una risposta nuova e creativa ad una situazione vecchia e cristallizzata.

Tele e incontro

Sviluppando operativamente gli apporti filosofici di MAX BUBER, Moreno individua nella possibilità di INCONTRO (inteso come capacità dell’essere umano di entrare in relazione emotiva con i suoi simili, in modo autentico e non distorto) la chiave di lettura della salute mentale e dell’equilibrio della personalità. La capacità d’incontro presuppone che siano attivi i processi di tele .

TELE significa “a distanza”, ed indica la capacità presente in ogni individuo fin dalla nascita di entrare in relazione emotiva con gli altri esseri umani. Il tele si differenzia dall’empatia, la quale e un processo ad una via (una persona è empatica verso un’altra, ma non necessariamente tale atteggiamento viene corrisposto). Potremmo definire il tele come un’empatia a doppia via, ove centrale diventa le reciprocità. A tale riguardo la poesia di Moreno INCONTRO pubblicata in apertura dell’articolo esprime in modo figurato il processo attivato dal tele.

Il tele si differenzia notevolmente dal transfert, processo chiave del trattamento psicoanalitico. Il tele precede storicamente il transfert che del tele è la manifestazione patologica. Potremmo dire che man mano che crescono le relazioni teliche diminuiscono le relazioni transferali, e viceversa un ampio spazio alle relazioni transferali riduce la possibilità di incontro autentico e profondo.

Ancora una volta notiamo come operativamente lo psicodramma punti maggiormente allo sviluppo della capacità telica, rispetto alla elaborazione delle distorsioni transferali.

II.2.4. Teatro terapeutico e catarsi

Fin dai tempi antichi il teatro ha avuto funzioni educative, sociali e terapeutiche per la comunità.

Aristotele nelle sue riflessioni sulla funzione della tragedia sostiene che la stessa “purifica” lo spettatore poiché mobilita la compassione ed il terrore. Il pubblico, partecipando alle vicende dei personaggi del dramma, identificandosi nelle loro valenze paradigmatiche e simboliche (vedi la tragedia di Edipo), ricostruisce la sua identità personale e sviluppa la sua appartenenza alla comunità.

La grande innovazione di Moreno è stata lo spostamento del focus dal pubblico all’attore. Non è più solo lo spettatore che trae beneficiò dalla partecipazione emotiva alle vicende delle DRAMATIS PERSONAE, (catarsi indiretta), ma è soprattutto l’attore in quanto protagonista che, grazie all’azione scenica, può rivivere e ricreare il suo dramma esistenziale, cercando creativamente le soluzioni e gli sviluppi più consoni ai suoi bisogni e desideri (catarsi del protagonista). A tal riguardo è utile richiamare l’aneddoto del giovane Moreno che alla domanda di Freud che gli chiedeva che cosa facesse, rispose: ” cominciò da dove lei finisce Professore. Lei insegna alla gente a capire i suoi sogni, io cerco di dare alle persone il coraggio di sognare ancora ” (Moreno, 1987: 26).

Un’ultima cosa è necessario dire sul concetto di catarsi, per i frequenti fraintendimenti che questo termine produce. Lo psicodramma non è tout-court un “Teatro della catarsi”, anche se il processo di catarsi ha un suo ruolo specifico ed una sua funzione sia in terapia che in formazione.

La catarsi non è la semplice liberazione emotiva di sentimenti né lo scaricamento compensatorio di frustrazioni accumulate nell’ambiente di vita o lavorativo. Per Moreno la catarsi e un processo in due fasi strettamente connesse fra di loro:

? una fase di abreazione emotiva di un affetto o di un contenuto interno rimasto imbavagliato nella vita quotidiana;

? una fase di integrazione di questo nuovo contenuto nel sistema di riferimenti relazionali ed oggettuali della persona.

Da questo punto di vista la catarsi non coincide con l’abreazione, ma diventa un processo integrativo e ristrutturante. E’ più corretto allora parlare di integrazione catartica nello psicodramma più che di catarsi in senso stretto.

PSICODRAMMA E SOCIODRAMMA IN AZIONE

Le considerazioni fatte nei punti precedenti rendono evidente che, per la base filosofica e per il tipo di visione dell’uomo da parte della teoria moreniana, non è corretto parlare di tecniche psicodrammatiche avulse dal loro contesto, ma e più opportuno parlare di modalità psicodrammatiche . Questo non significa che le tecniche psicodrammatiche non possano essere usate al di fuori del loro contesto teorico; significa solo che le potenzialità di queste tecniche si esaltano se il contesto formativo o terapeutico fa riferimento anche ad alcuni aspetti della “filosofia” psicodrammatica.

Cercherò ora brevemente di illustrare alcuni aspetti operativi e tecnici dello psicodramma per rendere più esplicito il particolare setting formativo di cui stiamo parlando.

Azione e riscaldamento

La caratteristica centrale delle modalità psicodrammatiche è sicuramente l’attenzione a tradurre in “AZIONE” quanto rischierebbe di rimanere su un piano di “RACCONTO”, razionalizzazione o intellettualismo.

Azione nello psicodramma non significa però né agire incontrollato né fare senza pensare. Si parla piuttosto di “contesto di azione”, che significa inserire i contenuti emotivi e razionali in un contesto situazionale che renda percepibile plasticamente e comunicabile, mediante un linguaggio diretto, tali contenuti.

Per fare un esempio: è sostanzialmente diverso che un operatore “racconti” il suo rapporto professionale con un utente, oppure che in un contesto psicodrammatico entri nei panni dell’utente, e da quel punto di vista descriva come sente e valuta quell’operatore…

Nel primo caso prevale il racconto e il filtro razionale, nel secondo caso prevale l’azione intesa come confluenza di dati spaziali, situazionali, corporei, razionali ed emotivi.

Il contesto di azione è sempre attivo e solitamente precede il contesto di verbalizzazione, intellettualizzazione e sistematizzazione teorica che viene comunque tenuto presente.

Vi è quindi una spirale continua che parte dal racconto all’azione e dall’azione all’intellettualizzazione per ritornare all’azione, se si rende ancora necessaria…

Direttamente collegato al concetto di azione vi è quello di “ riscaldamento ” (o warming-up). L’azione da un lato è “riscaldamento” o preparazione all’emergenza della spontaneità e della creatività; d’altra parte è necessario in un gruppo creare gradualmente le condizioni (relazionali ed emotive) affinché l’azione possa espletarsi in tutte le sue potenzialità formative e terapeutiche.

E’ per questo che un’attività di riscaldamento precede e crea le condizioni per l’espletarsi dell’attività formativa: infatti vi è un’equazione che vede da un lato spontaneità e riscaldamento e dall’altro ansia e assenza di riscaldamento. Citando Moreno possiamo dire che:

“L’ansia è in funzione della spontaneità.

La spontaneità, secondo la nostra definizione, è la risposta adeguata alla presente situazione. Se la risposta alle circostanze è adeguata, se c’è “pienezza” di spontaneità, l’ansia decresce e scompare.

[…] Partire dall’aspetto negativo, dall’ansia sarebbe un errore dialettico .

Il problema vero sta nell’individuare il fattore dinamico che fa insorgere l’ansia.

L’ansia si manifesta quando fa difetto la spontaneità: non è l’ansia che compare per prima e che comporta a causa della propria comparsa l’attenuazione della spontaneità ”.

(J.L. Moreno, 1980: 185-186).

Direttore

La definizione più corretta del ruolo di conduttore di gruppi terapeutici o formativi con modalità psicodrammatiche è quella di “DIRETTORE”. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare a prima vista, è proprio la valorizzazione delle dimensioni di “spontaneità” e “creatività” che richiede un atteggiamento direttivo da parte del conduttore.

Preoccupazione principale del direttore di psicodramma è quella di creare un contesto con alcune regole certe ed alcuni riferimenti spazio-temporali che fungano da contenitore per l’ansia che le situazioni di gruppo o non strutturate potrebbero potenzialmente indurre. Solo se l’ansia viene attenuata, in un contesto di gruppo caldo e contenitivo, è possibile portare a buon fine le potenzialità dei partecipanti e la realizzazione degli obiettivi formativi.

Questo non è un processo magico o mistificante: semplicemente il direttore deve evitare di indurre ansie aggiuntive o situazionali quando esse non sono necessarie. L’atteggiamento di fondo del direttore di psicodramma rimanda al parametro paterno, unendo in sé direttività, empatia, genuino calore umano, unito a capacità d’individuazione.

Se vogliamo usare ancora parametri di tipo familiare, potremmo dire che alle caratteristiche paterne del direttore, nello psicodramma si devono affiancare le caratteristiche “materne” e contenitive del gruppo.

Gruppo

Il gruppo nello psicodramma è concepito in due prospettive:

  • la prima come contenitore positivo dei bisogni, desideri ed ansie dei suoi membri;
  • la seconda come terreno composito di relazioni teliche (o non teliche) perennemente in movimento ed in evoluzione.

Pertanto si rende continuamente necessario operare a due livelli:

à da un lato costruire un gruppo che nell’insieme “contenga” i suoi membri;

à dall’altro operare, soprattutto con l’ausilio delle tecniche sociometriche, per rendere trasparenti e passibili di modificazione ed evoluzione positiva le relazioni fra i singoli membri del gruppo.

IO ausiliario

L’io ausiliario è una persona del gruppo che riveste in un determinato momento dell’azione psicodrammatica il ruolo di un altro significativo del mondo relazionale (e/o professionale) o del mondo interno del protagonista (= la persona che è in quel momento al centro dell’azione).

Forse un esempio può far capire che cosa è concretamente l’IO ausiliario nello psicodramma. In una situazione di supervisione, un educatore (il protagonista) rappresenta le difficoltà di rapporto con un ragazzo disabile. In questa situazione altri membri del gruppo possono diventare IO ausiliari, entrando nei panni degli altri “significativi”: il ragazzo disabile la madre, il collega, il responsabile della struttura, ma anche personaggi interni quali il padre dell’educatore stesso, la cui presenza interna determina i vissuti e i comportamenti dell’educatore nei confronti del disabile .

L’IO ausiliario può anche rappresentare parti simboliche o fantastiche: ad esempio nel caso di prima può diventare il “senso del dovere dell’educatore”, oppure il senso di “peso sulle spalle” che fisicamente la relazione con il disabile dà all’educatore. L’IO ausiliario ha pertanto la funzione di rendere percepibili e visibili (e pertanto passibili di interazione e di confronto) gli altri reali e fantasmatici che popolano l’esperienza del protagonista.

L’IO ausiliario dal punto di vista del direttore ha la funzione di prolungamento dell’intenzionalità terapeutica o formativa; d’altro canto l’IO ausiliario fa’ da protezione alla trasposizione di attributi transferali sul conduttore. Nello psicodramma infatti il transfert viene agito sugli IO ausiliari e non sul terapeuta o formatore.

II.3.5. Le tre tecniche-chiave dello psicodramma: Doppio, Specchio, Inversione di ruolo

Doppio . Per capire che cosa si intende per doppio nello psicodramma basta pensare a ciò che la madre fa con il neonato quando tenta di intuire e rispondere ai suoi bisogni. La madre è il primo IO ausiliario della storia personale e sociale del bambino: una madre riesce a rispondere ai bisogni del suo bambino se riesce a “doppiarlo”, cioè a dare voce a quanto il bambino sente, desidera, teme ecc…

Il termine doppio rimanda al duplice significato di “doppiaggio cinematografico” (= dare voce a…) e di doppio nel senso di “altro uguale a me che vive accanto a me le stesse mie esperienze” (è frequente nei bambini la creazione del doppio immaginario fantastizzato, che li affianca nelle esperienze di vita). La tecnica del doppio consente in un gruppo di far percepire la universalità del percepire e far esaltare contenuti interni inespressi.

Specchio . Anche in questo caso è utile ricorrere all’immagine della figura materna che, dopo una prima fase nella quale deve soprattutto “doppiare” il bambino, inizia a fargli da specchio, rimandandogli la sua immagine e ristrutturando con dati di realtà la percezione egocentrica del bambino.

La tecnica dello specchio consiste nel riprodurre una scena o una postura del protagonista (ad esempio un atteggiamento perplesso di un educatore di fronte ad un collega) da parte degli Io ausiliari in modo che il protagonista stesso possa vedersi dall’esterno.

Si ha una situazione di specchio e di rispecchiamento nello psicodramma sia quando un membro del gruppo ha la possibilità di vedersi dall’esterno (percependo talvolta aspetti inediti o sconosciuti di sé), sia quando il rimando di realtà degli altri membri del gruppo (“Io ti vedo così…”) favorisce un insight di realtà e di maggiore consapevolezza dell’etero-percezione.

Inversione di ruolo : è la tecnica chiave dello psicodramma. Nello sviluppo psico-affettivo del bambino la capacità di inversione di ruolo (mettersi nei panni degli altri, vedere le cose dal loro punto di vista) segna il passaggio dall’egocentrismo alla capacità di relazione sociale e d’intimità. La tecnica dell’inversione di ruolo consente di allargare la consapevolezza delle proprie relazioni psicosociali ed al tempo stesso favorisce la capacità di individuazione dell’altro: non vi è infatti completa conoscenza di sé senza una almeno parziale uscita da sé, che consente un decentramento percettivo. L’inversione di ruolo è uno strumento potentissimo di ristrutturazione delle relazioni fortemente condizionate da elementi transferali, poiché avvicina alla vera umanità dell’altro, al suo peculiare modo di vedere la vita. Parafrasando il Vangelo Moreno dice: ” Ama il prossimo tuo attraverso l’inversione di ruolo ”

( Moreno, 1984: 158)

Realtà, semi-realtà e plus-realtà

E’ necessario definire questi tre termini poiché nel contesto psicodrammatico essi si alternano e si integrano in fasi successive. Gli spazi di realtà sono quelli nei quali il gruppo e il singolo si confrontano con problemi di realtà, con contenuti intellettuali o con piani di relazione reale (IO operatore X di fronte a te operatore Y). Solitamente si parte in un gruppo di formazione da un piano di realtà, che ricompare altre volte nel corso del lavoro e diventa centrale nella fase conclusiva.

La semi-realtà : è la condizione nella quale il gruppo o l’individuo si trova quando ci si sposta in un piano di gioco “come se”. In questo caso si parla di semi-realtà poiché le situazioni sono fittizie (l’IO ausiliario fa la parte del bambino disabile ma non è il bambino disabile ) ma le emozioni e i vissuti sono veri ed autentici. Quando vengono introdotte le tecniche psico- drammatiche si passa automaticamente ad un piano di semi-realtà.

Plus-realtà : è una “realtà arricchita” dal desiderio o da risorse aggiuntive (Moreno deriva questo concetto da un parallelo col plus-valore di marxiana memoria). E’ utile sia in formazione che in terapia provare a sperimentare come sarebbe o potrebbe essere la realtà se si modificassero alcune condizioni. In tal senso entrare in un piano di plus-realtà significa esplorare il mondo del possibile, del desiderato, del realistico e dell’irrealistico.

Da “Tele. Manuale di psicodramma classico”, Giovanni Boria, Franco Angeli/psicosociologia, 1988

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

SEPARARSI

IL DISTACCO COME OCCASIONE DI CRESCITA E DI TRASFORMAZIONE

 

Lo scorrere della vita ci espone alla separazione. La stabilità non esiste, l’illusione della sicurezza ci ingessa in un involucro che spesso non ci appartiene più. Lasciare un lavoro, una persona, una casa, o parti noi, ci pone al cospetto del sentimento della mancanza e del vuoto, un vuoto che ci consente l’atto creativo, un vuoto che è la molla propulsiva e generativa della costruzione di una nuova visione del futuro. Se non c’è la consapevolezza della nostra paura del cambiamento neghiamo bisogni ed emozioni come anestesia che ci preserva dal distacco da persone, cose, parti noi che non ci appartengono più.

E’ possibile affrontare la tristezza come risorsa positiva che ci permette di porre il confine tra il sé e l’altro. La tristezza è spazio introspettivo che introduce alla creatività, che da forma al nostro essere al mondo e ci permette di squarciare i veli dell’indistinto. Tristezza e dolore ci rendono sensibili e ci permettono di guardare la nostra “ferita” amandola; un processo che ci porta ad assumere il carico della nostra sofferenza per scoprire le strade che si diramano verso nuove possibilità.

La separazione, e la tristezza che la accompagna, ci pone dunque al cospetto della affermazione del nostro “essere al mondo” e del diritto di esistere, con i propri tempi, bisogni e confini e distanze: è il processo di affermazione della responsabilità e della possibilità di scegliere. Valorizzare le risorse interne significa ascoltare, accudire e soddisfare i nostri bisogni.

Spesso separarsi viene percepito come un “atto sanguinoso” portatore di una colpa che chiede una riparazione. La riappropriazione del senso di colpa ci preserva dall’essere vittime e carnefici di noi stessi. Sotto la colpa cova la rabbia dei nostri bisogni insoddisfatti; valorizzare il significato della colpa come uno degli elementi fondanti l’esperienza della separazione ci pone al cospetto del perdono che possiamo concederci e concedere.

Questo lavoro ci aiuta ad affrontare il guado di un distacco che non è distruzione della relazione ma cambiamento della relazione. Per separarsi bisogna incontrarsi, per incontrarsi bisogna separarsi.

OBIETTIVI

  • Esplorare i sentieri del cambiamento come avventura in cui potere immergersi accettandone la sfida e il rischio del nuovo.
  • Riconoscere la separazione come momento per fare emergere tutte le emozioni collegate al nostro sentimento del vuoto e individuare i bisogni che tali emozioni sottendono.
  • Riconoscere l’altro come distinto e non come prolungamento del sé e sperimentare la dimensione dell’incontro.
  • Scoprire, riconoscere, individuare il proprio diritto ad esistere con i propri tempi e i propri spazi.

Dott.ssa Flavia Accini

Formatrice, Psicodrammatista, esperta in tecniche di conduzione di gruppo.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

UN VIAGGIO RIGENERANTE

Viaggiare. Andare via, lontano. Da tutto e tutti.
Quanto spesso abbiamo desiderato allontanarci dalla nostra vita quotidiana, dalle preoccupazioni, dallo stress o da determinate situazioni ?
Tutti, prima o poi, nella nostra vita, abbiamo pensato di “scappare” da quella che è la nostra situazione di tutti i giorni per recarci in “nuovi luoghi”, preferibilmente mai visti e mai conosciuti, alla ricerca di novità, o solo di riposo (fisico e mentale), ma spesso alla ricerca di una nuova consapevolezza di noi stessi, di quel che siamo o vorremmo essere.
Spesso si decide di andare via, lontano, a seguito di problematiche sentimentali: una storia finita, un periodo di riflessione, ma anche la consapevolezza di un amore impossibile.
Il viaggio diventa così “strumento di cura”. Cura soprattutto per la mente. Sovente il viaggio è necessario per il superamento di una dipendenza affettiva che è diventata troppo forte, persino patologica. O per affrontare la fine di un amore.
Quando una storia d’amore finisce, soprattutto se è stata lunga, può portare con sé tutta una serie di dinamiche psico-emotive, a volte persino a livello inconscio, che possono costituire un pesante fardello per andare avanti nella propria vita quotidiana.
Si può andare da una inquietudine leggera ma generale fino a livelli che possono divenire patologici. A mettere in guardia dalle conseguenze, spesso tragiche, dell’amore non corrisposto è uno psicologo londinese, Frank Tallis, sulle pagine della rivista “The Psycologist”. Soffrire per passione, sostiene Tallis, può diventare una vera e propria malattia. L’innamoramento, in molto casi, può essere un’esperienza “destabilizzante’” per l’individuo. Soprattutto se non si è corrisposti dall’oggetto del desiderio o quando un Amore finisce.
Ecco che il superamento di un’importante storia d’amore può, in tal modo, diventare il fulcro centrale e necessario per il proseguimento di una vita “normale”, per poter andare avanti con la propria vita quotidiana, per poter affrontare “quel che verrà dopo”.
Liberare il cuore dai residui di una storia d’amore non è una cosa facile, non per tutti almeno.
Il viaggio può essere d’aiuto in queste situazioni.
Come detto, l’allontanamento da particolari situazioni e contesti può essere fondamentale nel coadiuvare l’individuo in questo difficile processo di abbandono. Un processo spesso lento e graduale, che il viaggio contribuisce a rendere più agevole e meno traumatico.
Il fulcro del discorso va ricercato innanzitutto nelle motivazioni che spingono un soggetto al viaggio come “allontamento da situazioni cariche di valenza emotiva”.
Già diversi studiosi (Meyer 1977, Gulotta 1986, Przeclawki) hanno identificato diverse motivazioni alla base del viaggio: particolarmente importanti per il nostro discorso sono le motivazioni fisiologiche (turismo di salute, turismo ricreativo), le motivazioni interpersonali (desiderio di intraprendere nuove attività e di nuovi contatti con pesone diverse) e le motivazioni psicologiche (bisogni di tranquillità, relax, serenità, svago).
L’allontanarsi dal proprio contesto quotidiano, dove tutto ricorda la persona amata e la delusione d’amore, può già essere una forte motivazione a priori per decidere di viaggiare e andare lontano dalla propria routine quotidiana. Le motivazioni descritte costituiscono quindi un rafforzamento di una motivazione già presente nell’individuo.
In riferimento a queste motivazioni possiamo senz’altro richiamare la teoria bi-dimensionale di Iso Ahola (1987) secondo cui il comportamento turistico, quindi anche il viaggiare in seguito a una “delusione d’amore”, è condizionato da due forze che agiscono simultaneamente:
– la fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana
– la ricerca di ricompense psicologiche

In particolare, quello che ci interessa per il nostro discorso, è il primo punto della teoria, cioè la fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana. Secondo Iso Ahola per quel che riguarda il “mondo personale” del soggetto questa fuga dal quotidiano è motivata dall’evitamento di problemi personali, dubbi, difficoltà, fallimenti. Per quel che concerne il “mondo interpersonale” vi è invece l’evitamento di compagnia, amici, membri della famiglia.
Allontanarsi da una situazione quotidiana che richiama alla fine della “propria storia” (propria e di nessun altro), è un comportamento che può senza dubbio rientrare nella prima dimensione di questa teoria, quella della fuga dall’ambiente e dalla routine quotidiana appunto. Vi è infatti, dal punto di vista personale, il cercare di evitare tramite il viaggio i pensieri, i problemi e le situazioni che richiamano alla propria situazione particolare; dal punto di vista interpersonale vi può essere la propensione ad evitare ogni tipo di compagnia conosciuta per cercare nuove interazioni sociali con persone nuove.
Bisogna però ricordare che il legame fra motivazioni e comportamento non è così automatico: spesso la vacanza può essere abbastanza lunga da permettere una vasta e differente gamma di attività, ognuna delle quali è svolta per rispondere a esigenze e motivazioni particolari che possono essere del tutto nuovo e non essere state considerate nel momento in cui la vacanza era stata progettata. Inoltre, in particolari situazioni, come può essere quella del cercare di affrontare una delusione d’amore, il soggetto-turista non è neppure cosciente di tutte le ragioni delle sue scelte.
Oltre a tutto quello fin qui considerato c’è un altro aspetto fondamentale da prendere in considerazione: la soddisfazione.
Quando termina un amore, o meglio, una storia d’amore particolarmente importante, nell’allontanarsi dal proprio contesto di vita quotidiana vi può essere la voglia di una ricerca di soddisfazione, di nuove gratificazioni, spesso di una soddisfazione interiore, una ricerca “dentro sé stessi” per realizzare una nuova coscienza del proprio io interiore. È un modo per andare oltre, per superare il momento particolare che l’individuo (ed il suo io personale) sta vivendo.
Secondo l’approccio della motivazione post-hoc, definito da Mannell e Iso-Ahola (1987), le differenze verso certe attività e le soddisfazioni che ne deriverebbero sono basate su una varietà di bisogni determinati biologicamente e appresi socialmente. Gli individui, dunque, sarebbero coscienti dei propri bisogni e delle proprie motivazioni di tempo libero, sarebbero di conseguenza capaci di elaborare giudizi molto accurati sul proprio grado di soddisfazione. Eventi che hanno un grosso impatto sulla sfera emotiva individuale e che (spesso) si è incapaci di affrontare, come appunto la Fine di un Amore, porterebbero dunque alla ricerca di determinate attività e soddisfazioni piuttosto che altre. Gli individui, come detto “coscienti dei propri bisogni e delle proprie motivazioni di tempo libero”, in questi casi potrebbero propendere per un allontanamento totale dal contesto di vita quotidiana, alla ricerca di attività e soddisfazioni del tutto nuove.
In definitiva, il viaggio come superamento della fine di un amore o di una dipendenza affettiva può essere una terapia molto efficace. L’allontanarsi, anche fisicamente, dalla “propria storia d’amore” porta ad una riflessione più accurata e critica del proprio vissuto, di quello che è stato, di quello che è e persino di quello che potrà essere. Ecco che nel viaggio può subentrare un “accettarsi diversamente”, come conseguenza della scoperta di un diverso sé, del tutto nuovo, che può fare da base di partenza verso “il resto della propria vita”. Il viaggio, infatti, può aiutare a riflettere più efficacemente, senza distrazioni, può aiutare a guardare in faccia la realtà, può riuscire a mettere l’individuo davanti all’evidenza delle cose e a chiamarle col proprio nome (tradimento, perdita, separazione, distacco, cambiamento).
Naturalmente non c’è una ricetta assoluta, una panacea per risolvere il mal d’amore attraverso il viaggio.
Anche dell’allontanamento, del viaggio, se ne può fare uso differente. Può essere un tempo di riflessione, una occasione per orientare la propria vita verso nuovi punti di riferimento meno illusori. Si può trovare un nuovo equilibrio, dando un nuovo significato alla propria vita senza il “vecchio amore”.
Oppure anche il viaggio, senza andare alla ricerca di un nuovo significato per la propria esistenza, può divenire semplicemente lo strumento per dimenticare la fine del proprio amore attraverso la ricerca di nuove esperienze, di nuove attività, di nuove persone. In questo caso, il Mal d’Amore spesso è solo riposto in un angolino della propria coscienza, raramente viene superato.
Il confine tra questi due modi di affrontare questa situazione è spesso molto vicino e confuso.
Quel che è certo, al di là di tutto, è che comunque il viaggio può essere certamente d’aiuto, anche solo per il fatto che allontanarsi da un contesto carico di emotività porta l’individuo ad una prima riflessione più critica ed accurata della proria situazione.
E questo può già essere un primo importante passo.

Alessandro Mereu
Psicologo
Esperto in Psicologia del Turismo 

www.psicologiaturistica.it

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

DIPENDERE DA UN AMORE IMPOSSIBILE

Cosa bisogna fare per una persona che nasce come una pozzo vuoto senza fondo perchè diventi una persona piena capace di amarsi e sentire l’amore come uno stato di diritto? Quale strategia adottare per affrontare il vuoto e trasformarlo in pieno, e dilatare lo spazio? Dilatare l’amore e la coscienza?

Forse appena consideriamo noi stessi e l’altro come un valore inestimabile, entriamo in un’ottica di spontanea attenzione all’amore ed alla felicità che non dipende mai da nessuno se non dalla nostra attitudine!

L’amore è un attitudine spirituale! Da oriente ad occidente e dall’antichità ad oggi dove ridondano sempre gli stessi messaggi. Quando siamo bambini ci dicono di amare i nostri fratellini, Dio ci dice di amare i nostri fratelli … Per vivere bene è deve avere un amore vero. Ma si può fare dell’amore un dovere?

Nessuno ci ha mai detto che amare è uno stile di vita e che non si compra e non si vende e non si impara: si lascia andare, anche per niente! L’amore è una sorta di volontariato. “…pensavo di voler tanto bene a mia madre ma temevo sempre di perdere il suo affetto. La mia affettività è rimasta per numerosi anni ingabbiata in questo amore/paura, e quindi, troppo preoccupata di essere amata, non ho saputo amare…”

Spesso, innamorarsi vuol dire creare relazioni in cui si cerca solo di riconquistare finalmente la madre o quel padre persi da bambini, quando si anelava uno sguardo, una carezza, un tocco, ed il vuoto invece pervadeva la nostra giornata fatta da fantasie e rifugi romantici su come avremmo voluto vicino nostro padre o nostra madre. Siamo persi anche da adulti in quel vuoto con in più l’illusione di riempire quel vuoto con tanti affetti di tante persone che non vediamo, in quanto specchio di figure mai state presenti come e quanto volevamo. Sperimentiamo ancora la fame. A volte ci fermiamo e ci chiediamo chi è questo Dio/amore impossibile, e dolorosamente sentiamo la paura che Dio possa non esistere. Con un lavoro più profondo possiamo giungere alla conclusione che per amare, dobbiamo iniziare ad amare noi stessi, unica garanzia di sincero amore. Inizia così ad avere un senso il grande comandamento: “ama il tuo prossimo come te stesso” .

Non siamo mai soddisfatti delle prestazioni amorose degli altri, sempre in credito di amore anche a cinquant’anni, non sapendo ancora bene cosa l’altro rappresenta per noi. Per sentirci amati accettiamo spesso inconsapevolmente una grossa manipolazione dei sentimenti. La tensione interiore che si produce per riuscire ad avere l’amore vero che ci spetta, paradossalmente ostacola il libero flusso dell’amore. Così rimaniamo stupiti quando scopriamo il sacrosanto diritto che l’altro ama a suo modo e sol così può farlo: in realtà stiamo scoprendo finalmente che l’altro è un altro e che non è neanche nostro padre o nostra madre.

Esiste qualcuno che sa amare? Certo: ad immagine e somiglianza di qualcuno. Di mia madre o mio padre di altri che ho idealizzato. Cerchiamo così di essere accolti, anziché accogliere, di essere amati anziché cedere nel bisogno altrui che reclama amore. Amare è rivelare all’altro la sua bellezza intrinseca, la sua capacità di essere al mondo, e questi non aspetta altro che la nostra fiducia come dono per questo riconoscimento. Appena guardiamo l’altro come un valore, entriamo in un’ottica di spontanea attenzione che ci lascia vedere quanto amiamo. Questo sguardo è purtroppo offuscato da filtri di giudizi, ostacolato dalla paura di soffrire.

La capacità d’amare è arrugginita rimasta bloccata, ripiegata come una fisarmonica non usata per anni. Come spesso i bambini dopo la nascita di un fratello, che appare come rivale o addirittura come negazione del valore di cui si godeva in quanto primogenito, l’adolescente fa di tutto per conquistare l’affetto del padre, come se dovesse per questo sorpassare in tutto gli altri. Diventa più intelligente degli altri dieci fratelli, nati prima di lui da donne meno amate di sua madre dal padre. Diventa uno dei tanti geni che hanno avuto una vita affettiva di una povertà sconcertante! Viene giudicato probabilmente “senza cuore”, senza capire la disperazione nascosta dietro al suo handicap emotivo. Si estenua per dimostrare quanto lui sia bravo o brava (specialmente ad amare).

Questo personaggio infatti prova ancora il bisogno di valorizzarsi, raccontando questa volta la sua bravura a saper amare. La sua ricerca affannosa di conferma lo spinge ad ostentare amore e quindi a farsi rifiutare. Il baratro diventa ancora più spaventoso. Come può un bambino in cerca di conferme, non essere super obbediente ai genitori? Delusi si continua a dimostrare un essere eccezionale. Dovere a tutti costi farsi non solo accettare ma ammirare. Comprato dal bisogno degli altri che si innamorano di lui. Il bisogno di d’essere amati si incontra per ragioni diverse col bisogno di raccontare la proprio storia all’altro, questo suscita innamoramenti continui che spesso rappresentano semplicemente il bisogno di presentarsi e di raccontarsi per scegliere poi se offrirsi all’altro o meno.

A questo punto la preoccupazione di perfezione non permette di percepire la parte di strumentalizzazione che induce a sedurre l’altro pur di non fallire.

C’è un tempo per “rientrare in sé”. Il momento necessario della riflessione sulla relazione che induce a fare autoanalisi, prendere coscienza di tutto quello che capita, di chi in passato ci ha sempre guidato verso la conferma di “essere” e che ora si riproduce sotto mentite spoglie.

Coloro che non ci hanno ascoltato in tempo ora sono assenti e scegliamo gli altri perché ci ascoltino e confondiamo così l’amore per il bisogno di essere accolti nelle nostre richieste.

È necessario non temere più di rivivere il vuoto iniziale dove c’era l’assenza di un ascoltatore, ma fidarsi della presenza attuale di un Lui o di una Lei reale ed attuale. Iniziare ad aprirsi alle ricchezze della vita, a guardarsi intorno anziché restare fissato sul modo di “provocare” l’amore, in una perpetua tensione angosciosa verso la ricerca della perfezione di chi possa sentire i nostri reclami.

Il cuore si dilata ora nella fiducia di essere un valore per l’altro e per se. La fragilità, dovuta al vuoto in cui abbiamo fluttuato per anni, ora si muta poco a poco in una sicurezza incrollabile, dovuta alla presenza dell’altro che, se pur necessario, non è necessario per la nostra sopravvivenza.

Ancora una volta c’è da dire che per amare fino in fondo, è necessario fare un lavoro su di sé, ed in tal modo che si riesce ancora ad innamorarsi di una persona in carne e ossa. L’alternativa è avere un affettività ripiegata su se stessa, accusando continuamente gli altri di essere inefficaci e ritenendosi prigionieri dell’incomprensione. A contatto con questo ambiente interno, fatto di fantasmi e zone d’ombrai si ritorna ad essere continuamente manipolatori della realtà e inconsapevolmente facciamo pagare al coniuge o addirittura ai figli il vuoto affettivo ed esistenziale subito nella la nostra infanzia. Tuttavia, possiamo uscirne facilmente lasciando fluire l’emozione e lasciando affiorare tutta la nostra sensibilità. Il bambino ferito dall’assenza di conferma e che si era indurito, e che non concedeva di provare più emozioni, si libera dall’asprezza che lo ha spinto a sopportare tutto stringendo i denti per offrirsi, con il suo successo strepitoso, la certezza di essere un valore. La fonte della tenerezza si riapre: è il momento di cedere alla gratuità dell’amore.

È necessario però riconoscere il bisognoso del perdono che mette in grado di aprirsi all’altro che a volte si odia paradossalmente come contro altare dell’amore. L’abbandono dell’amor proprio è più forte di tutti gli altri abbandoni. È un abbandono tra i più duri in quanto deve fare i conti con l’orgoglio, ma una volta che ci si è affrancati le emozioni, anziché restate bloccate per la paura di soffrire, ridestano la sensibilità e si riconquista uno stile di vita, che trasforma la paura in disponibilità per il diverso da se: condizione, la diversità, forse necessaria per un amore veramente sincero.

GUGLIELMO DE MARTINO

Maestro Yoga e Shiatsu

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

LOVE ADDICTION (DIPENDENZA D’AMORE)

Con il termine inglese ‘ love addiction ‘ si intende la dipendenza affettiva, la quale non è stata ancora classificata come patologia nei diversi sistemi diagnostici come il DSM IV.

Secondo Geddins , la dipendenza affettiva è un disturbo autonomo e presenta le seguenti caratteristiche:

  • l’EBBREZZA : Il soggetto dipendente prova una sensazione di ebbrezza dalla relazione con l’altro, paragonabile a quella del tossicodipendente quando sta andando a prendersi la dose di eroina o altro;
  • La DOSE: il soggetto dipendente trova nell’altro una sorta di dose e cerca così sempre quantità maggiori in termini di presenza e di tempo per stare con lui.

L’aspetto fondamentale, scoperto da Geddins, è che nel dipendente affettivo è maggiormente presente la PAURA rispetto alle altre dipendenze.

Si tratta di una paura schiacciante, che si può riassumere nella terrificante massima del poeta latino Ovidio: “ NON POSSO STARE NE’ CON TE, NE’ SENZA DI TE” . Con te, per via del dolore che si sente nel subire umiliazioni, maltrattamenti e offese; senza di te perchè non si può assolutamente sopportare l’angoscia che si sente al solo pensiero di perdere la persona amata.

Questo ci fa immediatamente rendere conto della immensa sofferenza che può arrivare a provare un dipendente affettivo.

Nella nostra società, si tratta soprattutto di donne, spesso anche di successo, in carriera, ricche e belle; nel guardarle supeficialmente diresti che sono donne arrivate nella carriera, con una vita piena ed appagante. Ma sotto il vestito della superdonna si nasconde la bambina richiedente, autonoma sul lavoro,apparentemente in grado di difendere le proprie idee, ma accompagnata sempre da un senso di insicurezza, così profondo da chiedere continue rassicurazioni, MAI appaganti del tutto.

Si tratta di donne, perchè la componente affettiva appartiene maggiormente al mondo femminile che al maschile, soprattutto per ragioni culturali. Infatti, fin da piccole, le donne sono invitate ad assumere tutta una serie di comportamenti in sintonia con l’affettività, la comprensione dell’altro, l’essere materne, il sacrificio. Insomma, viene loro inviato un messaggio di invito alla dedizione, perchè altrimenti non saranno delle brave moglie e della brave madri.

Riepilogando, i SINTOMI DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA sono:

  • paura di perdere l’amore;
  • paura dell’abbandono;
  • paura dell’isolamento e della distanza;
  • paura di mostrarsi per quello che si è;
  • senso di colpa;
  • senso di inferiorità nei confronti del partner;
  • rancore e rabia;
  • coinvolgimento totale e vita limitata;
  • gelosia e possessività.

Si tratta di donne che hanno chiaramente una bassa autostima di se stesse e che si sentono per questo motivo loro le COLPEVOLI, le POCO MERITEVOLI e quindi destinate a non essere ricambiate dell’immenso amore che provano e dimostrano continuamente.

Riprendendo le parole scritte da Robin Norwood , ci possiamo rendere conto quanto ci sia la possibilità della presenza di un nucleo in parte psicotico:

“Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza o li consideriamo conseguenza di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando male;

quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento,ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose, lui vorrà cambiare per amore nostro, stiamo amando male;

quando la relazione con l’altro mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando male.”

‘ HO BISOGNO CHE TU ABBIA BISOGNO DI ME ‘ è un bisogno di sopravvivenza che spinge la donna ad illudersi di cambiare l’altro.

‘ Gli ho mandato dei messaggi per fargli sapere che sto male e che sono disperata, ma lui non mi ha neanche risposto. Perchè fa così? Perchè non mi telefona almeno per sapere qualcosa?’

La donna insegue un uomo INEVITABILMENTE SFUGGENTE, sempre impegnato in qualcosa di più importante di lei, che la maltratta e non teme di perderla, tanto più lui usa questa forma di SADISMO e TRASCURATEZZA, tanto più lei lo insegue, mettendo in atto una forma di masochismo.

La RICERCA INESAUSTA delle CONFERME DELL’ALTRO proviene dall’INCAPACITA’ DI DARSELE DA SE’: l’altro diventa lo SPECCHIO ed il NUTRIMENTO dal quale finisce col DIPENDERE anche se è qualcuno che non ci ama e NON CI MERITA.

La differenza sostanziale con le altre forme di dipendenza è che la dipendenza affettiva si sviluppa nei confronti di una persona e non di un oggetto, come la droga o l’alcool e questo la rende più difficile da riconoscere e da contrastare.

Il dipendente affettivo dedica tutto se stesso all’altro perchè in quello che crede amore la risoluzione a tutti i suoi problemi, che spesso hanno origini antiche, infantili, di ‘vuoti affettivi’. Il partner diventa COLUI CHE LA SALVERA’, quindi lo scopo della sua esistenza, e naturalmente non ne può più fare a meno.

Esaminiamo ora i diversi STILI DI ATTACCAMENTO IN ETA’ ADULTA:

  1. Attaccamento sicuro – l’amore sicuro: il soggetto sicuro ha la capacità di riconoscere le persone alle quali legarsi sentimentalmente. Queste saranno persone altrettanto sicure e insieme saranno consapevoli anche dei momenti di alti e bassi e avranno la capacità di affrontarli insieme. Saranno quindi storie solide, durature.
  2. Attaccamento ansioso ambivalente – l’amore ossessivo: si tratta di persone passionali che pensano sempre di aver trovato la persona giusta. In realtà, si tratta di incontri con persone che presentano proprio quei tratti che loro odiano. Rimangono sempre nella fase dell’innamoramento e quindi la separazione è fortemente ansiogena. Tutto viene vissuto all’estremo. Il rischio di queste relazioni è alto, soprattutto quando si tratta di persone che presentano modelli negativi del sé, non degne di amore, e quindi entreranno facilmente nel tunnel della gelosia, dell’ossessione, della possessività che possono anche condurre a gesti estremi, quali i delitti passionali.
  3. Attacamento evitante/distanziante – l’amore freddo/distaccato: si tratta di persone che soffrono profondamente, perchè non avendo avuto nell’infanzia una base sicura sulla quale fare riferimento, non hanno alcun tipo di sicurezza affettiva. Si tratta di soggetti che hanno un modello del sé come di persona non degna di essere amata, sola, che deve contare solo sulle proprie forze, perchè il modello interno della madre è quello di una madre cattiva che non elargisce alcuna cura e protezione. Per questo, ‘per non correre il rischio di essere rifiutati’, sopprimono la loro emozionalità’.
  4. Attaccamento disorganizzato – l’amore patologico: si tratta di stili di attaccamento che rimandano a storie di abuso o maltrattamento da parte della figura allevante nei confronti del bambino. La conseguenza è che, queste persone, in età adulta, avranno dei modelli interni dell’interpretazione della realtà sempre inquinati e quindi oscurati da una parte di confusione e di mancanza di controllo. Inoltre, sarà presente in loro una visione catastrofica degli eventi. Sono incapaci di scegliere partners affidabili, e quindi rischiano di entrare e farsi poi coinvolgere in relazioni distruttive, con persone violente ed aggressive.

Questa breve descrizione dei vari stili di attaccamento sottolinea l’importanza fondamentale affermata da Freud che riveste l’infanzia e i suoi vissuti nella successiva formazione dei proprio sé e della sua organizzazione. Se, infatti, abbiamo conosciuto nella nostra infanzia esperienze negative che non hanno portato alla strutturazione di un sé sicuro, e non intraprendiamo un percorso di conoscenza di sé per andarci a vedere, naturalmente con dolore, il nostro passato, da adulti, cercheremo incessantemente e inesorabilmente situazioni e persone che ripropongono le nostre antiche relazioni, perchè sono le sole che conosciamo.

Il percorso per arrivare al benessere e alla ‘normale’ esistenza è lungo e tortuoso, prevede periodi di vuoti, sofferenze, solitudini, dove i nostri punti di riferimento, anche se negativi e portatori di sofferenze, spesso anche inconsce, gradualmente vengono a mancare, dandoci una sensazione di confusione e smarrimento difficili da gestire. Ma tutto questo porterà ad una vita finalmente appagante, che mai si poteva anche solo pensare di raggiungere.

Ritornando alle dipendenze affettive, gli ASPETTI PSICOPATOLOGICI sono:

  • disturbo d’ansia di separazione
  • disturbo dipendente di personalità
  • disturbo narcisistico di personalità
  • disturbo borderline di personalità
  • ansia, attacchi acuti di ansia somatizzata
  • autolesionismo
  • depressione
  • amore ossessivo non corrisposto: erotomania.

Naturalmente, possiamo immaginare che la dipendente affettiva troverà sempre partner in qualche modo manipolatori, che approfitteranno della sua totale dedizione e devozione. Questi uomini faranno quindi in modo da mantenere la relazione malata, perchè essi stessi malati, e perchè il cambiamento dell’altro porterebbe ad uno sconvolgimento nella ‘coppia’ che non tollerano perchè è scomodo e non permette più loro di ottenere sempre quello che vogliono.

Possiamo riassumere, attraverso un lungo elenco, le CARATTERISTICHE DEL PARTNER MANIPOLATORE:

. tende a sminuire l’altro come persona;

. cerca di sminuire i suoi successi;

. spesso umilia l’altro in pubblico;

. contraddice in continuazione;

. tende a criticare l’aspetto fisico del partner;

. in una discussione, fa di tutto perchè si accetti la sua opinione;

. racconta spesso bugie;

. recita spesso la parte della vittima;

. adula per ottenere ciò che vuole;

. usa nei confronti del partner l’arma della colpevolizzazione;

. tende a delegittimare il partner nel ruolo genitoriale;

. manipola la realtà a suo favore;

. spesso è aggressivo verbalmente (insulti, parolacce, minacce);

. spesso è aggressivo nei comportamenti;

. è eccessivamente protettivo;

. controlla ogni azione del partner;

. è geloso senza motivo e porta la sua gelosia all’estremo;

. cerca di allontanare il partner dalla sue amicizie e parentele;

. cerca di limitare i movimenti esterni del partner;

. boicotta gli interessi personali del partner;

. tende ad attuare una coercizione sessuale (rapporti intimi non desiderati.

Come possiamo facilmente notare, sono molteplici le caratteristiche appartenenti ai partner manipolatori e, sono quasi certa che, purtroppo, una moltitudine di donne vi ritroverebbe alcune o molte delle caratteristiche del proprio partner.

Sfortunatamente, in un’epoca che ci sembra emancipatoria per le donne, dove si sarebbe raggiunta la fantomatica ‘parità dei sessi’, molte donne si trovano a vivere situazioni e condizioni che farebbero pensare al Medioevo. Persino le nostre nonne esercitavano un potere maggiore al nostro: promettevano ai loro futuri sposi di perdere la loro verginità solo dopo averle sposate. C’era una specie di ‘do ut des’, uno scambio; scambio che molte donne oggi sono incapaci di attuare, perchè chiedere diventa impossibile, perchè ne sono indegne, non valgono abbastanza,’è colpa nostra se lui è così’, e molto altro ancora…

Riguardo le dipendenze affettive, bisogna sottolineare un aspetto molto importante, quello della CODIPENDENZA:codipendenza è quando una persona fa in modo che sia influenzata in modo eccessivo dal comportamento di un altro ed al contempo cerca di controllare in modo eccessivo quello stesso comportamento.

Le CARATTERISTICHE DEL CODIPENDENTE sono:

. concentrano la loro vita sugli altrimenti

. la loro vita dipende dagli altri

. cercano la felicità fuori di sé

. aiutano gli altri invece che se stessi

. desiderano la stima e l’amore degli altri

. controllano i comportamenti altrui

. cercano di cogliere gli altri in errore

. anticipano i bisogni altrui

. attribuiscono agli altri il proprio malessere

. si sentono responsabili del comportamento altrui

. hanno una paura eccessiva di perdere l’altro

. provengono da famiglie con esperienze di codipendenza.

Passiamo quindi ad analizzare i PASSI DEL TRATTAMENTO INDIVIDUALE della dipendenza affettiva:

Primo passo : queste persone sofferenti spesso arrivano a chiedere aiuto perchè percepiscono una sensazione di VUOTO, di perdita di identità, di RABBIA, per la frustrazione di non vedere ricambiata la dedizione, hanno la sensazione di ‘AVERE QUALCOSA CHE NON VA’;

Secondo passo:

1) concordare l’obiettivo terapeutico, ovvero l’autonomia materiale e psichica

2) acquisizione di consapevolezza

3) scoperta di una fragilità che può coesistere con una forza in grado di permettere la visione di un sé reale

4) capacità di migliorare la propria vita

5) svegliarsi dall’incubp

6) aprirsi a nuove possibilità di scelta

7) curarsi la ferita

8)) rispetto per la propria identità

 

Gli OBIETTIVI DELLA TERAPIA INDIVIDUALE

. Convivenza psichica tra bambina e adulta, abbandonando l’ipercriticità verso se stessi.

. adesione ai propri valori

 

Gli OBIETTIVI DELLA TERAPIA DI GRUPPO

. l’esperienza gruppale incoraggia il dare e ricevere.

. confrontare con chi è all’inizio e chi è alla fine facilita il mentalizzare il percorso, i tempi, le modalità di cambiamento.

. hanno grande valore nel gruppo i racconti di sé, l’esperienza, le vicende quotidiane, i piccoli successi.

. nel gruppo viene portata la PUNTA DELL’ICEBERG del proprio dolore, non le parti più profonde.

La vita, per essere appagante, dovrebbe essere un CAMBIAMENTO CONTINUO.

 

IL CAMBIAMENTO

. la sofferenza ha valore mutativo, è una spinta essenziale nella vita, senza la quale non si può operare alcun cambiamento.

. il dolore personale porta alla crisi, che a sua volta porta al cambiamento della vita, dando una possibilità di rivisitazione del sé.

. la donna deve disabituarsi ad un finto amore che provoca sofferenza. Come tutte le dipendenze, comporta il dolore dell’astinenza ed il senso di essere perdute.

. bisogna vivere nella realtà, abbandonando l’idea del bacio del principe che salverà la principessa dalla morte e dalla desolazione.

 

CONCLUSIONI DEL PERCORSO TERAPEUTICO

. Il recupero è possibile se la MOTIVAZIONE a modificarsi è alta;

. ogni energia va posta su questa impresa che è PRIORITARIA su tutto il resto;

. investire DENARO su ciò (la persona dipendente investe energie per il recupero dell’altro), deve così tradurre ciò in necessità di agire per se stessa;

. la guarigione avviene riuscendo a stare in intimità con l’altro, in una relazione paritaria con la capacità di condividere la propria esistenza interiore.

Se riusciamo in tutto ciò, con tutte le difficoltà e sofferenze che attraverseremo, arriveremo all’autonomia.

 

PER CAMBIARE OCCORRE

Ascoltare la voce interiore

allenare il nostro intuito verso noi stessi

mettere in conto il DISSENSO e la DISAPPROVAZIONE degli altrimenti

tollerare l’ansia scaturita dai contrasti con chi ci sta vicino

resistere a rimproveri e a RICATTI AFFETTIVI, senza sentirsi colpevoli ed ingrati

NON TOGLIERE MAI GLI OCCHI DALLA META

NON ESSERE IMPAZIENTI se non si hanno vantaggi e risultati immediati

…ALL’IMPROVVISO CI SI SCOPRE DIVERSE E NON SI SA DETERMINARE QUANDO E’ INCOMINCIATO IL CAMBIAMENTO!

Il cambiamento porta nel tempo all’ABILITA’ DELL’ESSERE INTIMI.

 

LE ABILITA’ DI ESSERE INTIMI

CONOSCERE cosa si sente e cosa si pensa

ASCOLTARE le proprie sensazioni e attribuire SENSO ai propri vissuti

CONDIVIDERE con l’altro parti di sé arricchenti

ASCOLTARE L’ALTRO

TRASCENDERE se stessi per incontrare l’altro

CREARE con l’altro un ponte di FIDUCIA che permette l’ABBRACCIO reciproco, libero ed autentico

mettere la soggettività al servizio della INTERSOGGETTIVITA’, conservando l’UNICITA’ dell’esperienza personale

esprimersi a parole, con il corpo e con il SILENZIO

L’INTIMITA’ è la scelta di donarsi. Si raggiunge se si è raggiunta una autonomia personale, che ci permette di lasciarci andare nella relazione, di ESPORCI, vincendo la paura di mostrarsi vulnerabili;

INTIMITA’ è riconoscere L’ALTRO, la sua identità, il suo spazio psicologico vitale, la sua unicità, una RECIPROCA unicità che permette di regolare distanza e confini;

l’INTIMITA’ è l’INCONTRO , l’abbraccio, il gioco e la CRESCITA

COMUNE, il SILENZIO APPASSIONATO DI OGNI SOLITUDINE.

Dott.ssa Alessandra Paulillo