LA DEPRESSIONE POST SEPARAZIONE E DIVORZIO

Il divorzio è un momento molto stressante nella vita di una persona che può facilmente scivolare in una spirale depressiva dalla quale può essere faticoso uscire

La separazione e/o il divorzio, soprattutto se subiti, rappresentano comunque un ’lutto’ talvolta un vero e proprio trauma e mettono a dura prova le capacità personali di affrontare eventi stressati e/o traumatici della propria esistenza. Inoltre la separazione rappresenta la perdita dell’altro e per quanto tale perdita era nell’aria da qualche tempo, l’evento lascia comunque increduli e può intervenire un vissuto di negazione dell’evento stesso.
Ed ecco arrivare primi sentimenti di rabbia, di negazione come già detto, didisperazione agitata, fino a subentrare uno sfondo depressivo. Da premettere che sentimenti di tristezza, di malinconia, di un lieve sfondo depressivo sono comuni in seguito ad una separazione subita. Anzi l’arrivo di tali sentimenti coincide con la presa d’atto che la relazione è finita mentre la rabbia rappresenta comunque un legame.

I sentimenti citati in taluni casi possono sprofondare in una vera e propria depressione. In questi casi il vissuto psicologico della separazione si allea con caratteristiche personali di uno sfondo depressivo preesistente a causa stessa della relazione che è andata a terminare

Aver paura di perdere l’altro è già vivere un po’ la perdita, la separazione, l’abbandono e quindi sentimenti depressivi erano già preesistenti. Nel momento in cui avviene la vera e propria separazione, arriva anche la vera e propria depressione.

Come uscirne?

ACCETTARE –  Accettare che sentimenti di tristezza, malinconia e un lieve velo di depressione fanno parte di quel processo di elaborazione del lutto che accompagna una separazione. Negarli non può altro che far precipitare di più in una depressione che alla fine arriverà.

VIVERE LA DEPRESSIONE – Dare spazio a sentimenti depressivi in una prima fase. Piangere, disperarsi, ritirarsi in se stessi devono trovare spazio e non essere repressi perché del tutto naturali in un processo di superamento della separazione.

CHIEDERE AIUTO – Se la fase depressiva si prolunga nel tempo o è troppo intensa chiedere aiuto sia alla rete familiare sia a uno specialista. I farmaci dovrebbero rappresentare sempre l’ultima spiaggia.

Dottor Roberto Cavaliere

“Il lutto per la perdita di qualcosa che abbiamo amato o ammirato sembra talmente naturale che il profano non esita a dichiararlo ovvio. Per lo psicologo invece il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare ma ai quali si riconducono altre cose oscure. Noi reputiamo di possedere una certa quantità di capacità di amare che chiamiamo libido la quale agli inizi del nostro sviluppo è rivolta al nostro stesso Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per dirigersi sugli oggetti, che noi in tal modo accogliamo per così dire nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) torna ad essere libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per noi un mistero sul quale per il momento non siamo in grado di formulare alcuna ipotesi. Noi vediamo unicamente che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo è dunque il lutto.”

(da Sigmund Freud, Opere. 1915-1917 Volume 8°)

LA SEPARAZIONE DAL PUNTO DI VISTA DEGLI UOMINI

La separazione è donna: vale a dire che nella stragrande maggioranza dei casi sono le donne a prendere la decisione di separarsi, a prendere atto delle criticità della relazione, ad avere consapevolezza che non si può più andare avanti. L’uomo prova sentimenti ed emozioni soprattutto se subisce la separazione.

Quindi spesso l’uomo è spettatore passivo in questo processo di separazione e questo non significa che non prova sofferenza. La sua sofferenza può essere di due tipi: attiva e passiva .

– La sofferenza attiva è quella che prevale nella maggioranza degli uomini quando si separano.  Molti uomini diventano come dei bambini che sono abbandonati dalla madre. Non accettano tale separazione che è vissuta al pari di un vero e proprio abbandono. Si agitano, si disperano, negano la separazione stessa. Si può arrivare a mettere in atto veri e propri comportamenti ossessivinei confronti della partner fino ad arrivare anche allo stalking o a brutti episodi di cronaca giudiziaria.

– Taluni soffrono passivamente, non reagiscono, si rinchiudono in una fase depressiva. Non riescono a elaborare il processo del lutto della separazione.

– Ma c’è anche una terza categoria, spesso trasversale alle altre due descritte. Quelli che per non sentire il dolore della disperazione o della depressione attuano la pratica del chiodo scaccia chiodo. Con quali esiti è facile immaginare soprattutto per la partner che subentra immediatamente alla fine di una separazione.

In ogni caso nell’uomo che ci separa c’è una difficoltà a entrare in risonanza con le sue emozioni più profonde. Non vogliono provare, non vogliono sentire per non soffrire.

Dottor Roberto Cavaliere

“La storia di una certa ragazza mi fa ancora male, non trovo quello che cerco e quello che cerco ormai non può più essere lei, lei mi ha mandato a vedere se il gallo aveva fatto l’uovo e quando sono tornato e le ho detto di si mi ha mandato a quel paese e mi ha detto di non farmi più vedere. Per un po’ ci ho provato, ma sai bene che quando l’amore si spegne è più freddo della morte. Il problema è che le due parti in causa non si spengono contemporaneamente e quando sei la parte ancora accesa preferiresti essere morto. È incredibile come le parole possano imitare la saggezza. Se ti ostini a cercare qualcosa corri il rischio di trovarla. Vorrei amare ancora, dare il meglio di me a una ragazza. Il problema è che non so cosa sia il meglio di me, non sono sicuro che ci sia un meglio in me. Quando un aereo perde la rotta basta una manovra per ritrovare le coordinate ma quando un treno deraglia non c’è più molto che si possa fare.

C’era un’idea che mi ronzava in testa, cioè che magari non saremo mai in grado di capire del tutto qualcuno, tanto meno chi più amiamo, ma possiamo comunque amarlo senza riserve. Secondo me amare una persona è forse più facile che capirla ma molto più pericoloso perché l’amore fa sempre male. Si può cercare di capire qualcuno ma non si può cercare di amarlo. L’amore nasce involontario. L’amore può aumentare o diminuire fino a sfumare del tutto ma non si può imporre. A volte ci piacerebbe amare una certa persona, possiamo addirittura dire che quella persona ha tutte le qualità perché ci innamoriamo di lei ma questo non accade. Con uno sforzo più o meno grande ci si abitua a chiunque ma abituarsi non è amare. Non so se le mie idee sono giuste oppure assurde ma tendo a credere che l’amore esiste, che è un’invenzione dell’uomo e che ora è fuori controllo.”

Efraim Medina Reyes

LA PAUSA DI RIFLESSIONE NELLA COPPIA

Spesso nelle relazioni, qualsiasi tipo di relazioni, in un momento di crisi della relazione stessa uno dei due chiede una pausa di riflessione o entrambi la concordano insieme. Una prima distinzione è legata appunto se è richiesta solo da uno dei due o da entrambi.
– Se è richiesta da uno solo e l’altro la subisce questo, mette in vantaggio chi la richiede e in svantaggio l’altro che non sa che cosa aspettarsi dalla fine di questa pausa. Quest’ultimo potrebbe viverla come una spada di Damocle che pende sulla sua testa.

– Se è concordata da entrambi, è evidente che rappresenta un vantaggio per entrambi. In coppia bisognerebbe sempre cercare un accordo anche sulla pausa di riflessione.

La condizione più importante per valutare vantaggi e svantaggi di una pausa di riflessione è data dal come si vive questo periodo.

– Se la pausa di riflessione è vissuta in modo attivo, vale a dire che si riflette veramente sulla relazione stessa, sulle sue criticità, su come arrivare a un esito finale, allora è sicuramente un vantaggio averla effettuata. Potrebbe rappresentare un momento di crescita affettiva e relazionale per la coppia.

Se la pausa di riflessione è vissuta in modo passivo, vale a dire è un mero trascorrere del tempo, senza nessun tipo di riflessione, alla fine della stessa ci si ritroverà allo stesso punto di partenza e indubbiamente è stato uno svantaggio compierla. Non solo non ha risolto niente ma potrebbe contribuire ad accentuare le problematiche di coppia che ne sono state all’origine.

Quindi le due variabili dell’accordo della coppia sulla pausa stessa e le modalità di viverla rappresentano lo spartiacque fra vantaggi e svantaggi.

Roberto Cavaliere

“Mio caro Friedrich, ho dovuto fare l’esperienza che non c’è davvero nulla di più arduo che amarsi. È un lavoro, un lavoro a giornata, Friedrich, a giornata. Com’è vero Dio, non c’è altro termine. Come se non bastasse, i giovani non sono assolutamente preparati a questa difficoltà dell’amore; di questa relazione estrema e complessa, le convenzioni hanno tentato di fare un rapporto facile e leggero, le hanno conferito l’apparenza di essere alla portata di tutti. Non è così.

L’amore è una cosa difficile, più difficile di altre: negli altri conflitti, infatti, la natura stessa incita l’essere a raccogliersi, a concentrarsi con tutte le sue forze, mentre l’esaltazione dell’amore incita ad abbandonarsi completamente…

… Prendere l’amore sul serio, soffrirlo, impararlo come un lavoro: ecco ciò che è necessario ai giovani. La gente ha frainteso il posto dell’amore nella vita: ne ha fatto un gioco e un divertimento, perché scorgono nel gioco e nel divertimento una felicità maggiore che nel lavoro; ma non esiste felicità più grande del lavoro, e l’amore, per il fatto stesso di essere l’estrema felicità, non può essere altro che lavoro.

Chi ama deve cercare di comportarsi come se fosse di fronte a un grande compito: sovente restare solo, rientrare in se stesso, concentrarsi, tenersi in pugno saldamente; deve lavorare deve diventare qualcosa”.

(Da una lettera del poeta Rainer Maria Rilke ad un giovane amico)

L’ATTACCO AL LEGAME

L’attacco al legame è una modalità che viene messa in atto all’interno di una relazione da parte di uno dei due partner.
Se uno dei due partner presenta forti tratti di ambivalenza affettiva (come i borderline o i bipolari) oscilla costantemente fra il ‘ti amo’ ed il ‘ti odio’, fra idealizzazione e svalutazione dell’altro e della relazione. Inoltre tale partner ha una profonda paura di legarsi perchè ha paura di soffrire se la relazione dovesse finire.
Ed ecco che periodicamente attacca il legame per non legarsi troppo, per evitare di amare, per non soffrire, sortendo gli effetti opposti a quelli prefissi. Infatti più ‘attacca’ e più si lega, più soffre, più aumenta la sua paura della separazione. Tutto questo si riverbera sull’altro partner che subisce l’attacco in maniera speculare. Diventa necessario prendere atto di tale modalità relazionale al fine di poterla superare.

Il seguente brano parla in maniera molto eloquente dell’attacco al legame

“Non sono sempre stato buono con lei, anzi, di solito ero un figlio di puttana. La amavo tanto e non sapevo cosa fare. Invece di darle ciò che sentivo, di colmarla di quell’amore aspro, me lo inghiottivo. E’ una cosa che non riesco ancora a capire: il suo amore mi arrivava senza problemi, il mio invece non fluiva verso di lei. Credo che il suo amore reprimesse il mio. Lei e il suo amore formavano una sostanza densa in cui il mio amore e io rimanevamo impantanati, allora diventavo una furia e lei non riusciva a capirlo. L’ho trattata male molte volte perché ero disperato ma l’amavo più della mia stessa vita e quando se n’è andata la mia vita si è spenta.
Quando ho saputo che l’avevo perduta per sempre sono impazzito. Prima che sia trascorso un secondo sarai morto centomila volte, dice un versetto del Corano e io ho dovuto viverlo. Non aveva smesso di amarmi ma il suo amore era malato e non sopportava la mia presenza. Ho visto tutto il dolore nei suoi occhi, tutti i miei tradimenti e le mie bugie, io ero la persona che si frapponeva tra lei e me, il rivale impossibile. Allora, quando ormai era troppo tardi, il mio amore è esploso, il suo amore malato non opponeva resistenza e il mio è andato dritto verso di lei ma lei ormai mi aveva chiuso le porte. E ho dovuto tenermi il mio amore e ci sono state gocce di sangue nel mio silenzio. Lei si è allontanata e io sono entrato nella cella frigorifera, il locale meno accogliente di tutti i manicomi, e non ne sono ancora uscito.” Efraim Medina Reyes

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

 

LA SINDROME DI PETER PAN

Il Puer Aeternus, l’eterno fanciullo, ben rappresenato in molti libri è la dimensione particolare di questo essere fanciulli che, se si protrae al di là dell’età fisiologica, diventa aeternus. Bisogna saper maturare il fanciullino che c’è in noi senza per questo cancellarlo,, proprio come sostiene il “piccolo principe” ricordando di non dimenticare di essere stati fanciulli. J. Hilmann, Puer Aeternus, Adelphi

 

Nel trattare la sindrome di Peter Pan mi rifarò alla concezione del “Puer Aeternus” (l’Eterno Fanciullo) formulata dallo psicanalista Junghiano Hilmann.

Nella concezione generale un Peter Pan è colui che non vuole crescere, che è rimasto fermo alla propria infanzia ed adolescenza dove tutto è bello, tutto è possibile, e c’è il rifiuto di calarsi nel mondo, con le limitazioni che questo comporta.

Egli è un essere perfetto che vive in un suo mondo ideale; è vivace, curioso, brillante; ha un’ inestinguibile sete di novità e di esperienze; è egocentrico, impaziente, “al di là del bene e del male”; è incapace di fare i conti con la realtà; è ottimista, impulsivo, incostante. Vive in un mondo che non esiste, l’Isola che non c’è, e non ha nessuna intenzione di abbandonarla, anzi, essa rappresenta per lui l’unica realtà possibile.

Nel suo mondo egli è il padrone assoluto, tutto esiste unicamente per lui, in funzione dei suoi desideri e dei suoi umori. L’unica cosa che conta è stare bene, essere felici. L’importante è non avere bisogno di nulla e di nessuno. Nulla gli serve, egli è perfetto in se stesso, un Dio a cui tutto è dovuto, e davanti a cui il mondo s’inchina ammirato. Le piccole banalità quotidiane, le fastidiose difficoltà della vita gli scivolano addosso, egli è speciale, superiore, vive nel futuro, nell’immaginario, nello straordinario. Egli non ha dolori o affanni, quindi non li può riconoscere nell’altro: una battuta, uno scherzo, ed ecco che se ne va, pronto per un nuovo gioco. Essendo un Dio, tutto gli è permesso, senza alcun limite. Tempo, spazio e possibilità sono concetti non compresi dal Puer. Se vuole qualcosa, lo vuole subito, e non contempla la possibilità di non essere esaudito, anzi, non contempla nemmeno il dover chiedere per ottenere. In questo, anche, consiste il fascino del Puer, che scappa da un’avventura all’altra, imprendibile, sfuggente, sempre altrove.

Il Puer usa l’intelligenza, ed è estremamente attento al mondo esterno: ma l’attenzione può venire distorta, nel tentativo di difendersi da ciò che può essere spiacevole. Attenzione non necessariamente vuol dire consapevolezza, anzi: qui è spesso un attenzione selettiva che elimina alcuni aspetti di realtà, e porta quindi ad una percezione distorta dell’esperienza.

Il vivere nell’ Eden implica evidentemente un’altra caratteristica: l’ottimismo. In un mondo perfetto, non si può che essere ottimisti. Tutta va sempre, comunque, bene. E per caso qualche piccolo intoppo si frappone nel raggiungimento dell’obiettivo, questo viene sdegnosamente spazzato via. Il Puer vive nel mondo dell’innocenza, ed è facile rilevare in lui una tendenza ad essere ingenuo, credulone e idealista. Si tratta di un ottimismo cieco che nega la realtà, a favore del mantenimento dell’illusione.

Il mondo del Puer è un’esplosione di entusiasmo, in cui ogni cosa conferma la sua eccezionalità. Il Puer rifugge dal banale, dal quotidiano, non si sofferma sulle piccolezze della vita, non è interessato a ciò che sta in basso. Il Puer mira altrove, e non si capacita di come gli altri, invece, siano ancorati ad una realtà così restrittiva. Rifiutare la mediocrità della vita significa rifiutare la vita stessa, poiché “il mistero dell’essere è nascosto dentro la banalità (); soltanto della massima piccolezza possiamo vedere e conquistare la grandezza.”(C.G. Jung citato da M-L. von Franz).

Il rifiuto della banalità è evidentemente un modo per confermare la propria unicità; la solitudine, l’individualismo e il non adattamento alle regole sociali sono tentativi di alimentare l’ideale di sé. Ma il voler essere diversi a tutti i costi è una forzatura, e smaschera l’inconsistenza del Puer: “se fuggiamo l’adattamento pensando di essere qualcosa di speciale, () il risultato è che diventiamo proprio persone prive d’individualità.” ((M-L. von Franz). Allo stesso modo, l’estrema flessibilità e la capacità di adattamento del Puer diventano mancanza di specificità. Volendo essere tutto, il Puer si trova a non essere nulla, a non avere una individualità ben definita. Il Puer è come aria fresca, leggera, inafferrabile, senza forma né direzione.

A tratti, nel Puer, l’opposto fa capolino. Quando il Puer giocherellone non riesce nei suoi intenti, oppure viene smascherato dagli eventi, è possibile intravedere in lui l’ombra: “quella figura fredda e brutale, nascosta sullo sfondo, che compensa l’atteggiamento troppo idealistico della coscienza (M-L. von Franz). Nelle relazioni emerge come “brutalità glaciale, priva di sentimenti umani”(M-L. von Franz). E la stessa lucida e brutale freddezza appare anche nel rapporto col denaro. Il Puer “non vuole adattarsi socialmente, e neppure è disposto ad impegnarsi in un lavoro regolare, tuttavia ha pur bisogno di denaro. Per procurarselo, agisce per vie traverse, lo ottiene in modi anomali, a volta meschini” (M-L. von Franz).

A volte, accade che il Puer si trasformi in quello che Hillman chiama Senex (l’anziano), che il sognatore si trovi ad affrontare la dura realtà, ed assuma un atteggiamento cinico, disilluso e meschino rinnegando come stupidi sogni giovanili la propria parte fanciullesca: “questo atteggiamento è dovuto ad una coscienza debole, che non può concepire di resistere alle difficoltà della realtà senza sacrificare i propri ideali” (M-L. von Franz). Evidentemente questa non è un’evoluzione, bensì il precipitare nella polarità opposta, il rifiutare la parte di sé spensierata ed idealistica in nome di un gretto ed amaro materialismo. L’identificazione con l’archetipo opposto non è un movimento di crescita, è semplicemente un oscillare fra le due polarità, escludendo l’altro dalla vista. Il Puer non cresce diventando Senex. Certamente, per evolvere il Fanciullo dovrà affrontare il proprio aspetto ombra, quindi dovrà integrare quegli elementi di concretezza, senso pratico, impegno, e consapevolezza dei propri limiti che appartengono al Senex. Tuttavia, non è questo il dovere primario che spetta al Puer, la sua crescita non avviene semplicemente appoggiando i piedi per terra.

Ciò che davvero manca al Puer è la capacità di amare. Entrare nei rapporti significa esporsi al rischio di soffrire, e la fuga dal dolore è quanto di più caratteristico del Puer. Nel suo mondo, naturalmente, il dolore non esiste. Ma questo implica mantenere la distanza, da una parte di sé innanzitutto, e poi dall’altro. Il Puer si protegge dalla vita, con tutte le pene che questa comporta, con una patina di giocosità, di superiorità e lucida razionalità. Nella lotta fra emozione e pensiero, quest’ultimo è il vincitore assoluto. Tuttavia, dare spazio all’emozione significa sperimentare la pienezza della vita. In questo senso, il Puer non vive, poiché non è connesso al cuore. La sua vita è nella testa, nelle idee, nella fantasia, nei voli immaginativi, nel potere dell’intelletto. Il potere del sentimento è negato, il femminile è segregato.

L’evoluzione del Puer implica quindi, più di tutto, l’integrazione del femminile: “prima la Psiche, poi il mondo; o il mondo attraverso la psiche” (J. Hillman); egli deve abbandonare l’egocentrismo onnipotente e calarsi in quegli aspetti della realtà che cerca con tutto se stesso di evitare, una realtà fatta di sofferenza ma anche di profondo nutrimento: “è il sentimento che dà valore al presente, perché senza di esso non è possibile stabilire alcuna relazione con la situazione: il sentimento porta il senso di responsabilità, attraverso la quale acquistiamo il senso della nostra individualità” (M-L. von Franz). Il Puer deve riconoscere in sé il bisogno, deve abbandonare l’idea di essere completo in se stesso, deve mescolarsi agli uomini, per poi comprendere che egli è davvero perfetto. Se non c’è questo tuffo nel mondo, questa apertura all’altro, il Puer rimarrà soltanto una sterile idea di perfezione.

Inizia ad evidenziarsi un tratto importante. Nei suoi tratti inferiori, il Puer è un fanciullo capriccioso ed egocentrico, ciecamente onnipotente. In una visione più ampia, egli è puro spirito. L’aderenza ad un Io ideale si evolve in un idealismo spirituale, superiore. E la metafora del volo assume un altro aspetto: da modalità per mantenere una distanza dal mondo, per non calarsi nella vita, diventa “desiderio spirituale esteriorizzato” (M-L. von Franz), nasconde quindi la ricerca di una realtà superiore. “Per forza il Puer è debole sulla terra, egli non appartiene alla terra. () Egli non è destinato a camminare, ma a volare” (J. Hillman)

Il Puer può crescere solo abbandonando la propria visione autocentrata e aprendo gli occhi sull’altro. L’evoluzione del Puer passa necessariamente per la scoperta del dolore dentro di sé, che aprirà le porte all’amore.

Il Puer deve intraprendere il viaggio che lo riporterà ad essere quello che è. Egli dovrà affrontare il crollo della propria illusione, calandosi nel mondo “reale”, per poi scoprire che la sua illusione era, in fondo, l’unica vera Realtà. Il Puer deve imparare ad amare, innanzitutto se stesso, non come fredda immagine idealizzata ma nella propria pienezza di essere umano, facendo i conti con i limiti, il dolore, la caducità. Da qui, egli potrà vedere l’altro e amarlo, riconoscere se stesso nell’altro.

Riferimenti bibliografici

  1. Hillman Puer Aeternus Adeplhi

M-L. von Franz L’Eterno Fanciullo Red

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

L’AMORE NEL TRANSFERT TERAPEUTICO

…Ogni volta che trattiamo un nevrotico con il metodo psicoanalitico, si verifica nel paziente il cosiddetto fenomeno del Transfert : egli riversa cioè sulla persona del medico una notevole aliquota di tenerezza e affetto, spesso frammista a ostilità, che non è basata su alcun reale rapporto, ma che si deve far risalire, sotto tutti gli aspetti, alle antiche fantasie di desiderio del paziente divenute inconsce. Di conseguenza ogni frammento della sua vita affettiva, che non può più essere mnesticamente rievocato, è vissuto dal paziente nel suo rapporto col medico, ed è soltanto perché ritorna a riviverle nel “transfert”, che egli si convince dell’esistenza e della forza di tali eccitazioni sessuali inconsce.

… Il transfert insorge spontaneamente in tutte le relazioni umane , e quindi in quelle tra paziente e medico; esso apporta dovunque, in modo peculiare, influssi terapeutici; e tanto più intensa è la sua azione quanto meno se ne riconosce la presenza.
E dunque non è la psicoanalisi a crearlo : essa si limita a svelarlo alla coscienza e se ne avvale per guidare i processi psichici alla meta voluta.

(Quinta conferenza sulla Psicoanalisi, 1909 – S. Freud)

 

Per amore di transfert s’intende quel sentimento affettivo, paragonabile ad un sentimento amoroso, che subentra all’interno di una relazione terapeutica di qualsiasi tipo, ma più specificatamente psicoteraputica. Il fenomeno è stato studiato dalla psicanalisi ed origina dal caso clinico di Anna O che dettaglierò di seguito perchè utile a capire il fenomeno

Freud, nel 1890, collaborava con Breuer ad un particolare caso d’isteria: Bertha Pappenhein, nota come Anna O.. Essa era una ragazza ventunenne di notevole intelligenza e cultura che nel corso di una malattia durata due anni aveva presentato una serie di disturbi fisici e mentali: grave paralisi ad entrambi gli arti, disturbi oculari, turbe all’udito, difficoltà nella postura del corpo, forte tosse nervosa, ed altro . Anche le sue capacità lessicali si erano ridotte, fino ad arrivare all’impossibilità di parlare e comprendere. Infine la paziente andava soggetta a momenti di afasia, nei quali alternava stati di confusione, di delirio, di alterazione di tutta la personalità.

Inizialmente con un quadro sintomatico di questo genere, si pensò ad una grave lesione, ma all’esame obbiettivo gli organi della ragazza risultarono perfettamente normali. I medici esclusero anche una lesione organica cerebrale, essendo propensi a quella misteriosa condizione nota come isteria , la quale è in grado di simulare tutta una serie di sintomi appartenenti a diverse malattie.

Breuer riuscì ad eliminare i sintomi attraverso la pratica del metodo ipnotico . Ogni sera si recava a casa della ragazza e, dopo averla ipnotizzata, la faceva parlare. Sotto ipnosi, Anna parlava del doloroso periodo della sua vita in cui aveva dovuto assistere il padre gravemente malato, ricordando quei sentimenti, rimasti repressi, di rabbia, disgusto e paura. Breuer notò che raccontando l’episodio doloroso connesso all’insorgere di uno dei sintomi prima citati, Anna riusciva a vivere intensamente le emozioni provocate dal doloroso ricordo, e al termine di tale rievocazione il disturbo scompariva. Questa terapia, definita catartica funzionò anche con gli altri sintomi.

Nonostante il successo terapeutico, Breuer interruppe improvvisamente il trattamento, accortosi del rapporto che andava creandosi con la paziente, spaventato dall’intensa e reciproca dipendenza affettiva che si era instaurata con Anna. Egli non colse dunque gli aspetti innovativi dell’importante metodo terapeutico, non credendo che la teoria da lui scoperta potesse essere generalizzata. Freud, al contrario, colse elementi che andavano ben oltre il singolo caso; si era infatti accorto che il blocco di Anna era determinato da un conflitto psichico tra qualcosa che avrebbe voluto essere espresso e qualcosa che ne contrastava appunto l’espressione; la sua sofferenza è da ricondurre al fatto che inconsciamente Anna si era proibita la presa di coscienza e dunque l’esternazione di sentimenti e desideri erotici ed aggressivi inconciliabili con la sua morale, la sua cultura e la sua educazione. Pur essendo al corrente del ruolo delle pulsioni sessuali nelle nevrosi, Breuer rifiutò di riconoscere il ruolo fondamentale che esse hanno giocato in quella di Anna, fuggendo dalla relazione affettiva con la paziente. A differenza di Freud non è arrivato ad un concetto fondamentale nella psicoanalisi: si tratta del transfert , grazie a cui si può arrivare alla liberazione del ricordo traumatico del paziente; Breuer era giunto alla condizione in cui si può parlare di controtransfert , come dimostrano i sentimenti di dipendenza che provava per Anna.

 

 

TESTIMONIANZE

patrizia Età: 50 Circa 23 anni fa,ho iniziato una terapia per attacchi di panico,ed ansia.lo psicologo,mi fu indicato dal mio medico di famiglia. Per alcuni anni andavo 1 volta a settimana,e sinceramente stavo meglio.Poi alla fine delle sedute,mi abbracciava molto forte,ed io bisognosa di affetto,ne ero molto felice. Da questo ad avere dei rapporti sessuali,non passo’ molto tempo, avvenivano tutti nello studio,il tempo era quello della mia terapia circa 45minuti,a volte pagavo,a volte no. Andando avanti,ero in completa confusione,non capivo piu’ se facevo terapia o sesso.Quando lui si accorse del mio disagio, mi scarico’ da una sua cara collega,spiegando che non poteva piu’ curarmi,avevo bisogno di una figura femminile,ma lei capi’ e mi chiese alla ns prima seduta se avevamo avuto rapporti, io risposi di si. per anni sono riuscita a tenere questo segreto,ma nel 2007,dopo un attacco di panico mi sono rivolta ad una psichiatra a cui dopo qualche seduta o raccontato tutto.il mio errore e’ stato di volere un piccolo risarcimento in soldi,per fargliela pagare, ma stasera mi ha chiamato un avvocatessa, dicendo di seppellire tutto qui’,altrimenti saro’ io ad essere denunciata per ricatto.perche’ loro non pagano mai!!!!con a volte il male che fanno?Aiutatemi vi prego.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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PAURA DELLA SOLITUDINE E SINDROME DI BRIGDET JONES

E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo.  (Leonardo da Vinci)

Chi vola alto è sempre solo. (Nurejev)

La mia esperienza è sempre consistita nel rimanere totalmente solo.
(F. Bacon, Conversazioni con David Archimbaud )

[Trarre sostentamento] nella comunicazione di uno spirito solitario con se stesso.
(N. Hawthorne)

Tutti coloro che prendono seriamente se stessi e la vita, vogliono stare soli, ogni tanto. La nostra civiltà ci ha così coinvolti negli aspetti esteriori della vita, che poco ci rendiamo conto di questo bisogno, eppure la possibilità che offre, per una completa realizzazione individuale, sono state messe in rilievo dalle filosofie e dalle religioni di tutti i tempi. Il desiderio di una solitudine significativa non è in alcun modo nevrotico; al contrario, la maggior parte dei nevrotici rifugge dalle proprie profondità interiori, ed anzi, l’incapacità di una solitudine costruttiva è per se stessa un segno di nevrosi. Il desiderio di star soli è un sintomo di distacco nevrotico soltanto quando l’associarsi alla gente richiede uno sforzo insopportabile, per evitare il quale la solitudine diviene l’unico mezzo valido.
(K. Horney, I nostri conflitti interni )

Si è soli con tutto ciò che si ama. (Novalis)

I legami fra una persona e noi esistono solamente nel pensiero. La memoria, nell’affievolirsi, li allenta; e, nonostante l’illusione di cui vorremmo essere le vittime, e con la quale, per amore, per amicizia, per cortesia, per rispetto umano, per dovere, inganniamo gli altri, noi viviamo soli. L’uomo è l’essere che non può uscire da sé, che non conosce gli altri se non in se medesimo, e che, se dice il contrario, mentisce.
(M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto )

Non occorre che tu esca di casa. Resta al tuo tavolo e ascolta.
(F. Kafka)

Perché questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell’uomo – di noi e degli altri. (C. Pavese, Saggi letterari )

Temperamento piuttosto incline a solitudine, inetto a cicalare con brio, alieno dalla mondanità, io avvicino e frequento i miei simili con una certa fatica e una certa titubanza e con fatica i più virtuosi di essi. Davanti a chiunque rivivo gli attimi di uno scolaro all’esame. Mi diletto invece di chiare algebre alle ore di “loisir”. Che non ti snervano quanto una conversazione da salotto; ove, a me, m’incorre l’obbligo di fingermi spiritoso e intelligente, non avendo né l’una né l’altra qualità.
(C.E. Gadda, Intervista al microfono ne I viaggi la morte )

La solitudine è l’elemento vitale dello scrittore. (S. Marai, Confessioni di un borghese )

Io sono una persona che sta molto sola; delle mie sedici ore di veglia quotidiane dieci almeno sono passate in solitudine. E non potendo, dopo tutto, leggere sempre, mi diverto a costruire teorie le quali, del resto, non reggono al minimo esame critico.
(G. Tomasi di Lampedusa, Letteratura inglese )

Ero abituato a essere indipendente, a star solo la maggior parte del mio tempo, detestavo la truppa, aborrivo la massa, e tutte quelle urla cento volte, mille volte ripetute dalla stessa bocca.
(T. Bernhard, Un bambino )

Noi viviamo come sogniamo, soli. (J. Conrad)

La nostra solitudine è la nostra nobiltà. La nostra solitudine è la nostra gioia.
(A. Savinio)

Ho conquistato la solitudine. Solo di quella sono fiero. È la socialità più vera.
(O. del Buono)

[…] Chi vive semplicemente la propria vita, non vive. […] Non bisogna solo vivere la vita, bisogna costantemente inventarla,e questo significa raccontare. […] Scrivere è un lavoro solitario. Leggere è un lavoro solitario. La letteratura è una forma di solidarietà fra solitari.
(P. Bichsel)

L’uomo nasce nudo e muore solo.
(G. Arosio, medico)

Il cuore nella solitudine e nella pace va a poco a poco obbliando i suoi affanni; perché la pace e la libertà si compiacciono della semplice e solitaria natura.
(U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis)

Nelle arti, nella musica, nella filosofia e in quasi tutta la letteratura seria, la solitudine e la singolarità sono essenziali […] Testimoniano della ricchezza estatica della solitudine. Affermano che soltanto nella solitudine austera si può percepire la pulsazione della vita nella sua vibrazione più intensa. Identificano la soledad con la possibilità stessa di travagli speculativi e costruttivi di prim’ordine. Come vedremo, è questa la convinzione, spesso ribadita, di Montaigne nella sua torre; ed è quella dello Zarathustra di Nietzsche nella solitudine accecante del sole di mezzogiorno.
(G. Steiner, Grammatiche della creazione )

Nei luoghi solitari sii una folla per te stesso.
(Tibullo)

Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi, e tanto privatamente che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli e senza sostanza, senza seguito e senza servitori, affinché, quando verrà il momento di perderli, non ci riesca nuovo il farne a meno. Noi abbiamo un’anima capace di ripiegarsi in sé stessa; essa può farsi compagnia; ha i mezzi per assalire e per difendere; per ricevere e per donare; non dobbiamo temere di marcire d’ozio noioso in questa solitudine.
(Montaigne, Essais , Libro I, capitolo XXXIX)

Quando sono lontano da casa e mi è impossibile tornare nella mia stanza e rimanere solo, l’unica mia consolazione è addormentarmi in pieno giorno. […] Per diventare scrittore pazienza e fatica non bastano: si deve anzitutto provare l’impulso irresistibile a fuggire la gente, la compagnia, la quotidianità, e a chiudersi in una stanza.
(O. Pamuk, premio Nobel per la letteratura)

Questa è infine la solitudine: avvolgersi nella seta dell’anima, farsi crisalide e attendere la metamorfosi, che non può mancare. Si vive intanto delle proprie esperienze e telepaticamente si vive la vita altrui […].
Finalmente possiedi solo te stesso. I pensieri altrui non controllano più i miei; opinioni, capricci altrui non m’angustiano più. Ora l’anima comincia a maturarsi nella riconquistata libertà e provo un’immensa pace interiore, un piacere sereno, un senso di certezza e di responsabilità.
Se rifletto sulla vita sociale che dovrebbe essere una specie di palestra, non posso ora che giudicarla altro che una scuola di vizi. Se rechi in te un senso di bellezza, essere costretto a vedere bruttezza è una vera tortura, che ti spinge ingannevolmente a ritenerti un martire. Chiudere gli occhi di fronte all’ingiustizia solo per riguardo t’insegna a poco a poco a diventare un ipocrita. Abituarti a sopprimere continuamente le tue opinioni e sempre per riguardo, ti rende vile.
(A. Strindberg, Solo )

Il gelo del sospetto e dell’incomprensione si levò tra me e gli uomini quando avevo sedici anni, al tempo della licenza ginnasiale.
(R. Bilenchi, Il gelo )

L’isolamento è per lunghi periodi un isolamento totale del corpo e dello spirito, e solo assoggettandomi ai miei bisogni in modo totale e con irrevocabile fermezza io riesco a venire a capo di me stesso.
(T. Bernhard, La cantina )

Io mi sento me stesso solamente quando sono solo. Il rapporto con gli altri non mi viene naturale: mi richiede uno sforzo.
(P. Cameron, Un giorno questo dolore ti sarà utile )

La necessità di isolarsi per dedicarsi al proprio lavoro scientifico è la prima di tutte le necessità di un uomo di scienza.
(T. Bernhard, Ja )

Il talento lo si sviluppa nella solitudine, mentre il carattere si consolida nella corrente della vita.
(J.W. Goethe)

Per vivere soli bisogna essere un animale o un dio. (F. Nietzsche)

Tutte le forme di privazione sono grandiose, perché sono terribili: il Vuoto, l’Oscurità, la Solitudine, il Silenzio.
(E. Burke)

Isolamento significa libertà e scoperta. Un’isola deserta può essere più eccitante di una metropoli.
(V. Nabokov, Intransigenze )

Solo i fortunati sociali possono ambire alla solitudine con arie d’idiota superiorità.
(A. Cohen, Bella del signore )

Nessuno sopporta più la solitudine, né l’immobilità.
(P. Morand, Elogio del riposo )

Si vive bene, tutti soli, si lavora splendidamente, si perde tempo regalmente.
(T. Scarpa, Kamikaze d’Occidente )

L’uomo per bene è nella società […] soltanto il malvagio è solo.
(D. Diderot, Figlio naturale )

La tristezza e la malinconia sono legate alla solitudine, la contentezza e il piacere al rapporto tra gli uomini.
(A. Ferguson, Saggio sulla storia della società civile )

Non è parlando degli altri, ma curvandosi su di sé, che ci è possibile incontrare la Verità. Perché ogni cammino che non conduce alla nostra solitudine o non ne proceda, è deviazione, errore, perdita di tempo.
(E.M. Cioran, Quaderni )

 

La paura della solitudine può essere considerata in due aspetti differenti.

C’è la paura della solitudine come sentimento comune ad ogni essere umano e che affonda le sue origini nell’uomo come animale sociale. Nonostante tante profonde considerazioni sul significato di stare soli, consciamente o inconsciamente ognuno rifuggia l’essere solo. Disagio normale ed accettabile che può però presentarsi in maniera fpiù o meno forte, a seconda delle proprie primarie esperienze sociali, fino ad arrivare ad una vera e propria patologia come la monofobia, la paura di rimanere soli.

C’è anche una paura di rimanere soli, intesa senza un partner, tipica di donne che hanno superato i trenta anni. In questo caso la paura della solitudine diventa la sindrome di Bridget Jones (dal famoso libro) ed è la paura specifica di non sposarsi, tipicamente femminile.

E’ evidente che si tratta di due paure completamente diverse fra loro nelle cause e nelle modalità, anche se a volte il terreno di confine fra le due non è netto. Può capitare che la ricerca spasmodica di un compagno non sia legato solo a fattori affettivi, ma anche a fattori sociali.

Dott. Roberto Cavaliere

 

 

TESTIMONIANZE

mariate Età: 52 Sono una donna di 52 anni vivo sola dopo la rottura di una penosa convivenza durata ben sei anni anni in cui mi sono occupata principalmente di mia madre malata di Alzheimer, ho incontrato ahimè un altra persona, ma da quando lo conosco la mia già non buona situazione condizionata da un gran senso di solitudine che io ho comunque gestito bene creandomi molte occasioni per uscire di casa e qualche nuova amicizia, è molto peggiorata. Premetto che svolgo un lavoro di responsabilità sono un avvocato e dirigo un settore di un certo rielivo all’interno della struttura dove lavoro. Sono sempre stata instabile nei miei rapporti affettivi e penso anche questa volta di essere arrivata alla conclusione della mia storia dalla quale ne uscirò sicuramente umiliata e soprattutto molto sola. Ho tanta paura ed ho bisogno di aiuto. Il mio attuale “fidanzato” così lui si definisce secondo me mi aggredisce psicologicamente con continue critiche alla mia persona ed al mio carattere. Non saprei da dove inziare ma alcune amiche che a causa di questa storia hanno poi deciso di tagliare i ponti con me mi hanno messo sull’avviso che secondo loro aveva un carattere psicologicamente disturbato.Mi sento circondata dalle continue critiche di tutti o sono io che esagero? Non mi sento amata ed ho una grande paura di essere sola e abbandonata e rifiutatada tutti. Sono stata in analisi anni fa e certe problematiche si erano risolte ma ora sono nella merda a cinquanta anni una donna sola non può e non sa più come vivere.Non so se è giusto e se devo trovare la forza di troncare questo rapporto soprattutto perchè da un momento all’altro potrebbe farlo lui con ulteriore senso di fallimento per me, e soprattutto perchè si apre un baratro di solitudine immensa in cui ho paura di sprofondare. Se provo a cercare qualche amica ricevo rifiuti incomprensioni o aggressività, un’aggressività che non so esprimere con nessuno tranne che al lavoro dove ho imparato a gestire ben 30 persone senza problemi così nella vita ma quando si tratta di amici parenti e fidanzati la paura di non essere amata o di perdere l’amore e la stima delle persone che mi circondano combino dei disastri bestiali. Ho paura che lui mi voglia lasciare sono disperata.

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Alice Età: 33 Da nove mesi ho una relazione con un mio coetaneo, con il quale, in precedenza, esisteva un rapporto di amicizia e confidenza. Alle spalle avevo trascorsi di relazioni con uomini assolutamente problematici.. per un motivo o per un altro io mi auto assumevo il ruolo di salvatrice, o di colei che… ce l’avrebbe fatta. E’ stato così con X, il quale era arrivato ai quarant’anni senza aver mai costruito una relazione, dedicandosi ai piaceri della conquista e seduzione, e cerdando negli occhi delle sue donne.. uno specchio per compiacere il suo narcisismo. Arrivai io, nella sua vita… e mi chiese di vivere con lui. Durò tre anni… poi lui cambiò città, lavoro.. e fidanzata..Dopo un anno scoprii che mi aveva ripetutamente tradita con una sua studentessa (lui era insegnante universitario).. io lo avveo intuito, e, quando accennav oalla questione, mi dava addosso, accusandomi di essere una pazza paranoica.. Successivamente, iniziai una relazione con Y, il quale aveva una situazione familiare dolorosa alle spalle, e mai superata. GLi sono stata accanto un anno.. amandolo più di me stessa, contenendo le sue paure e la sua fragilità..e gioendo della sua sensibilità e profondità.. poi me ne staccai – ancora mi chiedo come ci sono riuscita – perchè lui non voleva una relazione con me.. non mi amava, nonostante sostenesse che ero la persona più importante per lui, in quel momento. Poi è arrivato Z, o meglio.. già c’era.. e io mi sono accorta della sua presenza, delle sue attenzioni.. ed abbiamo iniziato a frequentarci al di là del rapporto di amicizia. LUi è una persona semplice, molto chiusa, poco incline alle questioni dell’anima, molto pragmatico e molto proiettato sulle sue personali esigenze. Il periodo iniziale è stato bellissimo.. non ero abituata a ricevere attenzioni.. ne avevo sempre elargite.. abbiamo passato quasi ogni giorno insieme, cercando l’uno il contatto fisico dell’altro, le carezze, le coccole, la dolcezza.. stavo, cioè, assaporando tutta una serie d imomenti che per tanto, tanto tempo non avevo più vissuto.. Poi, lui si è, piano piano… seduto. Ha dimostrato, in più occasioni, di privilegiare le proprie esigenze, i propri tempi, relegandomi in un angolo molto scomodo e decentrato. Ho iniziato a notare una certa insofferenza nei miei confronti, che si accentuava ogni qualvolta cercavo di manifestargli il mio crescente disagio, i miei stati d’animo. Ci sono stati un paio di episodi in cui ho davvero avuto bisogno della sua vicinanza, del suo contatto..per rendere l’idea ne racconterò uno. Tempo fa scoprii un nodulo al seno, cosa che mi gettò nel panico, anche perchè ho una storia di predisposizione familiare. Gliene parlai.. era sera.. mi aspettavo che sarebbe rimasto a dormire da me (abitiamo a cento metri l’uno dall’altra).. e lui mi abbracciò, salvo poi dirmi che, essendosi fatto tardi, sarebbe andato a casa a dormire, perchè molto stanco. Mi recai fuori città per fare un’esame (negativo, per fortuna).. non mi accompagnò neppure all’aeroporto.. mi chiamò il giorno seguente, la sera tardi.. Questo non è l’unico episodio che mi ha dato da pensare, ma sicuramente uno dei più eclatanti. Il fatto è che, con lui, sento uscir fuori la parte peggiore di me.. nonostante io abbia preso coscienza del fatto che lui non è la persona giusta, per me,continuo a persevarere in questa relazione.. continuo a cercarlo.. sono estremamente gelosa e penso ossessivamente all’idea che lui mi possa tradire. Tuttavia, al tempo stesso, sono profondamente infelice, e avverto una solitudine che non ho mai conosciuto, neppure nei periodi in cui non avevo relazioni. L’unica cosa che riesco a fare è manifestargli il mio disagio, la mia infelicità.. ma lui non si sente tirato in ballo, sostiene che lui è così, che io lo sapevo, e che la relazione gli va bene così.. Io non riesco a prendere alcuna decisione.. e questo mi addolora ancor di più, perchè mi sento debole, vigliacca, inutile. Che sia paura di restare sola? Possibile.. ho 33 anni ed una patologia che, con gli anni, potrebbe pregiudicare la mia fertilità. MI sento arida.. vuota.. mi sento come s fossi in mezzo a una palude, incapace di ogni movimento.. mentre, lentamente, vi affondo..Grazie per avermi letta Alice

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Ho 35 anni e sono una ‘donna che ama troppo’.Ho letto il libro della Norwood (http://www.maldamore.it/Donne%20che%20amano%20troppo.htm ) due volte, una a 30 e una a 35. La prima volta per consiglio di un’amica (e non capivo perché me l’avesse consigliato) e la reazione è stata quella di cui parla l’autrice nei primi capitoli: non mi sono ritrovata, pensavo che le storie fossero troppo esagerate e non collegabili al malessere che provavo in quel momento, che avrei persino potuto consigliarlo ad altre donne in situazioni ben peggiori della mia, l’ho letto velocemente, senza notare quasi nulla se non un piccolo particolare che sembrava avvicinarsi alla descrizione del partner con cui avevo chiuso allora: il mio ex si dedicava ossessivamente agli sport. Il libro all’epoca ha avuto insomma poco impatto sulla mia persona, non mi sono ritenuta una donna che ama troppo. Eppure a 30 è cominciato una lenta autoanalisi, forse dovuta al troppo dolore, forse per il desiderio di non provarlo più, o semplicemente per sopravvivenza, non so forse solo un tentativo di comprendere perché le mie storie finissero sempre in modo così repentino e drammatico, perché alla fine mi ritrovassi quasi sempre conuomini che in realtà non corrispondevano all’idea di uomo ideale, che anzi in alcuni casi erano uomini con poca stima di sé, con problemi personali, uomini spesso emotivamente chiusi, poco interessati alla mia persona. Ho compreso con il tempo che erano uomini di cui mi ero accontentata per il terrore della solitudine, per paura di non trovare nessun altro uomo a cui potessi piacere.Proprio così ‘trovare’ e non incontrare. Una ricerca affannosa di un compagno che non mi facesse sentire più sola, poco amata, per dimostrare e dimostrarmi che sono degna di amore. Non comprendevo all’epoca quanto poco mi amassi io per prima. Eppure i sintomi c’erano tutti. Innanzitutto poca cura della mia persona, fortemente in sovrappeso eppure testardamente decisa a non mettermi a dieta perché mi dicevo io mi vado bene così. Ovvero mentivo persino a me stessa. Il cibo ora lo so riempiva il baratro d’amore che sentivo dentro. Gli anni successivi non sono stati più felici dei 30. Ho proseguito a rincorrere uomini impossibili, poco interessati e interessanti, anche con problemi personali non da poco, ad accontentarmi di quelli che mi corteggiavano invece che interessarmi a quelli che a cui veramente piacevo o che mi piacevano, perché questi ultimi sicuramente non potevano essere interessati ad una come me, carina forse ma in sovrappeso. Una delle ultime storie, se così posso chiamare una frequentazione di pochi mesi, è stata con un uomo più grande di me di dieci anni, che si trascinava un esaurimento nervoso giovanile che a suodire lo rendeva depresso, insonne, solitario, incapace di poter lavorare (per sua fortuna viveva di rendita), di poter vivere una vita normale, sposarsi o fare dei figli in primo luogo. Eppure pur di far funzionare la storia ho accettato l’insonnia come scusa per non dormire insieme e per non viaggiare (non dormiva in un letto che non fosse suo), il carattere chiuso e gli anni in più come scusante per non conoscere e frequentare i miei amici, e ho smesso non solo di vedere i miei amici e i miei familiari, ma anche di avere interessi miei per poter stare con lui tutto il mio tempo libero. E ritrovarmi poi lo stesso a non essere abbastanza per lui. Ne sono uscita a pezzi. Sono passati due anni da quest’ultima storia. Due anni alla ricerca di un uomo che potesse subito sostituire l’ultimo in modo da non rimanere sola, senza badare veramente a quel che mi piaceva. Ho provato persino le associazioni e serate per singles, la chat, tutto alla disperata ricerca di un uomo che mi desse per prima la certezza di valere qualcosa. L’anno scorso poi guardandomi in una foto mi sono trovata orrenda, in me è scattata una molla, finalmente un po’ di amor proprio e così mi sono decisa ad andare da un bravo dietologo. I kili in meno mi hanno portato una sferzata di ottimismo e sicurezza, finalmente un po’ di autostima.Anche se ho capito che devo amarmi io per prima e non aspettare una conferma dall’esterno, la necessità di trovare conferma negli occhi degli altri rimane ancora. Dicono che sono una donna sempre allegra, ottimista, sicura di me.Eppure mi sono ritrovata ancora una volta a essere ‘legata’ ad un uomo sbagliato, che non fa per me, già impegnato e quindi poco disponibile emotivamente e fisicamente, un uomo che non mi chiama nemmeno al telefono, che si complimenta con me perché non esigo questo e altre attenzioni, ma che a letto però mi trova eccezionale. E io mi sono chiesta: ma perché sono ancora a questo punto? Perché mi sono lasciata coinvolgere in una situazione del genere?Ho ricercato in libreria il libro della Norwood e l’ho riletto. Non è stato facile, ma è stato un bene averlo letto, perché stavolta ero veramente interessata a leggerlo e a capire cosa l’autrice volesse comunicarmi: paura di rimanere sola, poca stima del proprio valore, falsa credenza di dover meritare l’amore. Ho un problema e ho bisogno di aiuto. Ho disperatamente bisogno d’aiuto. In internet ho cominciato a cercare informazioni sui gruppi di auto aiuto perché l’autrice dice che sono persino più importanti di una terapia singola, perché ascoltare le storie delle altre donne, comunicare la propria senza giudizi o consigli aiuta a comprendersi, a non sentirsi sole, a migliorare la propria autostima. Il gruppo ancora non l’ho trovato ma spero di trovarlo presto, nel frattempo però ho trovato questo sito. Ed è già stato un sollievo. E come altre già prima di me, ringrazio il dott. Cavaliere. Ho letto le storie delle donne che sono come me donne che amano troppo, e mi sono ritrovata in loro. Leggendo le loro storie mi sono detta anch’io ho fatto così, anch’io pensavo così, anch’io credevo questo e mi sono sentita confortata. Non sono la sola mi sono detta. La testimonianza poi sull’inizio di una dipendenza amorosa in particolare è stata catartica ( http://www.maldamore.it/origini_di_una_dipendenza_amorosa.htm ). Ho subito anch’io delle attenzioni particolari da un adulto, quando avevo meno di 4 anni, e in seguito ho ripetuto questi ‘giochi’ coinvolgendo un’altra bambina e questo è stato per molto tempo il ricordo più doloroso e vergognoso che mi sono sempre portata dietro. Leggere questa storia mi ha in parte risollevata.Ieri per la prima volta ho agito per me stessa, per il diritto e la difesa dei miei sentimenti. Ho chiuso la frequentazione con l’uomo sbagliato, gli ho parlato con serenità e detto cosa non andava bene per me e che per me stessa non potevo proseguire così e non per cercare di manipolarlo ed ottenere da lui che cambiasse. E mi sono sentita serena. E oggi sono ancora serena. E’ un gran traguardo per me sentirmi serena invece che vuota dentro per aver detto addio ad un uomo del genere. Spero di rimanere abbastanza sola, invece di aver paura della solitudine, per ottenere come dice la Norwood di diventare una donna che ha sufficiente stima di se stessa da amare prima se stessa di un uomo. So che ancora ho tanta strada da fare e sarà dura, ma voglio farcela. Grazie dott. Cavaliere per avermi dato l’opportunità di esprimerlo su questo sito.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

PAURA DELL’INTIMITA’

Da “La paura dell’intimità” (forum “Dipendenze Affettive”)

Argomento: la paura dell’intimità – Autore: Yana

Ciao a tutti.
Ecco che nasce in me nuovamente l’esigenza ed il piacere di esprimere lati oscuri e rinnovamenti della mia esistenza e della mia vita attuale.

E’ un pò di tempo che ruoto intorno a questo tema, sul forum e fuori dal forum, un argomento che mi tocca nel profondo anche solo nel pronunciarlo: la paura dell’intimità , qualcosa di molto subdolo e nello stesso tempo molto potente che ha influenzato tutta la mia vita affettiva e relazionale.
Una paura a volte latente, a volte manifesta con tutta la sua carica, eppure così invisibile ai miei occhi ed al mio cuore per lunghissimo tempo.
Fino ad oggi.
Da un po’ di tempo questa sensazione, intuizione, chiamiamola come vogliamo, albergava dentro di me senza che io fossi però realmente pronta ad accoglierla, guardarla dritta negli occhi, sviscerarla, accettarla e superarla.
Sono ormai giunta alla conclusione che quando l’amore non abita le nostre case è perché noi non gli abbiamo aperto la porta. Qualcosa ce lo impedisce, qualcuno non ci ha insegnato a farlo, o a trovare la chiave, a volte neppure a riconoscerlo. Forse chi ci ha nutrito affettivamente teme l’intimità; questo è sicuramente il mio caso.
Esistono mille strategie inconscie per eludere, pur desiderandolo fortemente, l’amore, il quale implica intimità e condivisione autentica e profonda. Io le ho utilizzate più o meno tutte nelle mie vicende relazionali e per molto tempo ho creduto che a farlo fosse soltanto l’altro.
Quando nelle nostre relazioni riecheggiano sensazioni come solitudine, tristezza, frustrazione, insoddisfazione, disequilibrio, c’è qualcosa che non funziona. Non in noi, ma nel nostro intimo giudizio verso noi stessi.
L’imperativo morale che custodiamo nella nostra parte più profonda è quello che abbiamo appreso a sentire attraverso il giudizio, comunicato verbalmente o meno, di chi ci ha cresciuti. Di chi non ha “colpa”, anzi, spesso contiene altrettanto dolore, ma è portatore di estreme conseguenze per il cuore. Che si concretizzano nella sua chiusura, realizzata da ognuno con le sue tattiche preferite e più efficaci.

La chiusura del cuore . 
Se un cuore è sigillato, nessuno potrà entrarvi.
Questa è la strategia inconsapevole e pericolosa dettata dall’erronea speranza di non poter più soffrire, che invece ci condanna alla più grande sofferenza mai esistita: il non poter, il non riuscire ad aprirlo questo cuore, il non permettere di farvi penetrare amore autentico e di sperimentare la sua forma più autentica e più alta, l’intimità e la reale condivisione delle anime.

La mia vita sentimentale: un susseguirsi di uomini complicati, chiusi, impegnati, sfuggenti oppure, l’altra faccia della medaglia, ossessivi, possessivi, dipendenti.
Oppure ancora: divenire io ossessiva, dipendente, oppure sfuggente, chiusa, complicata.
E ancora: decidere di legarmi a uomini per cui non nutro reale interesse, razionalizzare il legame, trovare motivazioni intellettuali o che s’ispirino alla sicurezza che l’altro può offrire.

Tutte tattiche infallibili, direi quasi un’arte.
L’arte minuziosa e malefica di eludere l’intimità , di lasciarsi andare davvero, vivendo al contempo nella convinzione di essere autentica e di penetrare in profondità grazie ad un escamotage: il portare ad estrema intensità le mie emozioni attraverso la passione, il sesso, il dolore.

Ma da dove nasce questo terrore di aprire davvero me stessa?
Nasce da un messaggio lontano, eppure permanente, che ho studiato e ben interiorizzato da molto piccola:

“l’intimità non va bene, l’intimità ti farà male e ti farà male perché io stessa ne sono infastidita, perché la tua espressività, la tua voglia di donarti e di vivere mi fa stare male, mi fa soffrire. E quindi ti giudico, di modo che tu, che dipendi da me, imparerai a giudicarti da sola. I miei occhi giudicanti ed opprimenti, repressivi, ti seguiranno ovunque, te li cucirai dentro, tanto che non avrai nemmeno più bisogno delle mie parole o dei miei occhi per sentire dentro di te che…l’intimità è male..e ti farà male” 

Questi messaggi morali espressi da chi ci cresce (non necessariamente tramite parole, che per la verità sono molto meno efficaci dei fatti e dell’espressione giudicante degli occhi) sono molto comuni e sono spesso, molto più spesso di quanto si possa pensare, la base ed il terreno fertile per lo sviluppo della paura dell’initmità .

Quando siamo piccoli e dipendenti in modo feroce dai nostri genitori, la cosa più brutta che ci possa capitare è di percepire il loro dolore e di intuire che qualcosa di noi lo ha provocato.
Per questo sopprimiamo le nostre esigenze ed impariamo ad accondiscendere le loro, se queste si scontrano. Non possiamo dare precedenza al nostro “sentire” e “desiderare”, pena la perdita, nella nostra mente, del loro amore, di cui non possiamo fare a meno.

Questa scelta, se abbiamo interiorizzato un messaggio così importante, così potente, ci insegue poi per tutta la vita, tanto che non possiamo più prescindere da esso nelle nostre scelte di vita, fino a che non sfatiamo la sua irreversibilità, agendo direttamente su di esso e ridimensionandolo.

E’ così che è accaduto che io firmassi un contratto con me stessa in cui potevo vivere ed essere amata solamente in cambio della soppressione della mia reale espressività, in cambio della mutilazione della capacità di condividere la mia intimità, quindi della violazione dell’intimità stessa.

Io oggi ho compreso tante cose di me e della mia esistenza, ma non mi sono ancora liberata dalle catene che imprigionano l’espressione di me stessa, quella che conduce al vero amore, il solo che permette a due intimità libere di esprimersi di stringersi davvero e di condividersi.

Oggi sto elaborando questo.
E’ molto dura, e ci sono molte resistenze, ma sono molto determinata perché tenere chiuso, o socchiuso, il mio cuore, relazionarmi con chi ha la stessa tendenza, frenare le mie inibizioni sentimentali, mi sta rendendo stanca.
Ma non sono stanca della vita, o della ricerca d’amore; tutt’altro, sono piena di speranza e fiducia e voglia di amare sul serio.
Ho voglia di donarmi sul serio, di creare un ponte stabile di comunicazione affettiva e d’intimità, anche se so che ancora non ne sono completamente capace, e sono felice di avere trovato (perché le ho cercate) delle chiavi dentro di me e qualcuno che mi accompagna in questo percorso.
So che a tratti sarà doloroso, ma è la mia strada verso la condivisione autentica di amore e non ho intenzione di lasciarmela sfuggire.

Vi invito a lasciare commenti o riflessioni su quanto ho scritto, se ne avete voglia, perché ne ho bisogno davvero.

Grazie se mi avete letta e un caro abbraccio a tutti.
Yana

 

 

Ciao Yana

leggendoti ho ripercorso e rivissuto emotivamente gli ultimi tre anni della mia vita.

Dopo aver frugato in tutti i meandri del mio corpo e della mia mente alla disperata ricerca del guasto che creava in me tanto disagio (anche se ben nascosto) ho fatto la scoperta più inquietante : non potevo stare bene perchè stavo perdendo il cuore.

Avevo sempre pensato che fosse il mio punto di forza e invece era proprio lui che mi stava abbandonando.

Le esperienze dure dell’infanzia probabilmente erano talmente dure da sopportare che nell’adolescenza probabilmente la mia difesa è stata quella di rinunciare a far vivere la mia anima.

Far vivere la mia anima ,con le sue esigenze, significava entrare in intimità con un altra persona cosa che mi avrebbe costretto a fare i conti con le mie paure.
Paura di non essere un amante adeguato.
Paura di dare sfogo alla mascolinità che sentivo ma che reprimevo e che della quale spesso mi vergognavo per il dolore che esseri del mio stesso sesso avevano procurato.
Paura che l’istinto prevalesse sull’amore.

Fino a un anno fa non ero consapevole di tutto ciò ma ora il cerchio si sta chiudendo e capisco perchè mi sono per tanti anni rassegnato a vivere in maniera accondiscendente : vivevo per il piacere e il bene altrui perchè al mio avevo già rinunciato.

Avendo rinunciato ad ascoltare l’anima avevo rinunciato all’intimità.

Ma capita che ti innamori veramente e quando capisci che nonostante l’amore manca una vera intimità-fusione fra due anime e due corpi allora cominci a farti delle domande e cercare soluzioni perchè la posta in palio è troppo importante.

Nel mio caso le risposte alle domande sono arrivate quando ormai era troppo tardi per salvare il rapporto ma ringrazio il cielo per avermi donato un amore tanto travagliato che mi ha permesso di uscire dalla mia stessa prigionia.

Il cuore si nutre attraverso il lavoro dell’anima.
Io nutrivo il mio cuore con il cervello e lo stavo uccidendo come era morto Maramao perchè veniva nutrito a pane,acqua e insalata nonostante fosse un carnivoro.

Ora ho iniziato ad ascolatare le esigenze dell’anima che tanto avevo trascurato nel mio delirio illuministico di onnipotenza e il mio cuore ringrazia.

Aspetto anch’io che con naturalezza la mia anima sia pronta a vivere finalmente l’INTIMITA’.

Mi sento rinato ma naturalmente non so cosa mi serberà il futuro.
So solo che mi sono riappropriato dell’unica cosa che conta: la propria ANIMA

Un abbraccio fortissimo

Robedamatti

 

 

Carissimo Robedamatti,
le tue parole mi hanno toccata molto,
e le sento molto mie, soprattutto in questi passaggi:

“ho fatto la scoperta più inquietante : non potevo stare bene perchè stavo perdendo il cuore. 
Avevo sempre pensato che fosse il mio punto di forza e invece era proprio lui che mi stava abbandonando” 

“vivevo per il piacere e il bene altrui perchè al mio avevo già rinunciato”

“Avendo rinunciato ad ascoltare l’anima avevo rinunciato all’intimità”

Fare tale scoperta è doloroso, ma soprattutto, almeno per me, è stato difficilissimo.
La paura dell’intimità molto spesso, e nel mio caso, giace in uno strato di noi profondissimo, che sembra irraggiungibile.
La mia è rimasta dormiente (anche se tremendamente attiva) sotto le macerie che negli anni ho scoperto di avere dentro e che ho cominciato a curare come fossero figli da accudire.

Ma la paura dell’intimità, quella non l’avrei mai scoperchiata credo, se non avessi avuto una mano e se non mi fossi scrutata dentro scovando prima altri nodi da sciogliere. Quei nodi erano importantissimi, ma soprattutto nascondevano un blocco sottostante, quello di cui parlo.

Non avrei mai potuto sospettare di questa mutilazione dell’anima perchè anche per me, come per te, il mio cuore era il mio punto di forza.

Era la parte di me attorno alla quale credevo di far ruotare i miei desideri e le mie azioni, invece tutto ciò era soltanto un vano tentativo, che non poteva realizzarsi completamente, perchè avevo dimenticato di avere chiuso a chiave il mio cuore tantissimi anni prima.

E’ come avere una paralisi dentro, come vivere senza sensi.
Per questo per anni sono andata a tentoni, convinta di essere consapevole delle mie sensazioni. Invece le ignoravo perchè avevo scelto di ignorarle molto presto ed ero diventata molto fedele a questo “credo” che mi era stato inculcato.

Nella mia vita ho vissuto sempre dando estrema importanza ai sentimenti, ma oggi posso dire che quando le emozioni più profonde cercavano di entrare realmente in contatto con me io ho sempre trovato il modo di scacciarle, completamente ignara di tutto ciò.

Chi si “avvicinava” “troppo” non poteva durare a lungo, perchè io non ero in grado di gestirlo e di sentirmici meritevole.
Chiudere il cuore significa scomparire, sentirsi fatti a pezzi nel momento in cui qualcosa di vero cerca di attraversarlo.

Aprire il cuore inconsciamente per me si traduceva in “non sentirsi più”, evaporare, sentirmi a disagio.

Eppure in qualche modo avevo il bisogno si percepirmi, di sentire che esistevo, e lo facevo splendidamente occupandomi degli altri, delle loro ferite (questo, invece, mi avevano insegnato che era “bene”), e scomodando qualche altra intensa sensazione come quella del dolore e del vuoto. Dovevo sentirmi viva in qualche modo, sentire che c’ero, anche se avevo messo da parte il cuore.

La tragedia dei sentimenti e dell’anima.

Ma adesso mi sento pronta a rinascere, perchè se continuo a vivere così è come uccidermi.

Grazie ed un abbraccio fortissimo anche a te

Yana.

 

 

Ciao cara Yana,
ho letto il tuo post e, d’impulso, ho pensato che dovevo risponderti…ma, come dici bene tu, è difficile, quando la propria esperienza non consente di immedesimarsi, dire cose sensate su argomenti come questi a una persona di cui non si sa nulla o quasi.

Così ho deciso di parlarti semplicemente di me nella speranza che dal marasma delle riflessioni inutili allo scopo salti fuori qualcosa che invece ti serva quantomeno da spunto.

Quando ripenso alla mia infanzia non ho ricordi infelici. I miei genitori hanno a loro modo amato molto me e mio fratello e hanno sempre cercato, benché le difficoltà non mancassero, di non farci mancare niente, soprattutto in termini di senso di “sicurezza e protezione” familiare.

Tuttavia, a parte qualche foto di quand’ero piccolissima in cui stavo in braccio a mio padre o a mia madre e si vede che mi stanno coccolando, non ho molti ricordi dell’espressione dell’affetto attraverso il contatto. Mi sforzo, ma non riesco a trovare, impresse nella memoria, immagini di abbracci o carezze consolatorie, di incoraggiamento, o di qualunque altra natura. Anche pensando al rapporto fra i miei genitori come coppia: non credo di averli mai visti abbandonarsi in un abbraccio o darsi un bacio spontaneamente. Piuttosto, mi viene in mente quella scena del film “Caruso Paskoski” in cui Francesco Nuti, ubriaco perso, vuole a tutti i costi un bacino: “Dai, dammi un bacino!…NO…Voglio un bacino, dammi un bacino!…NO…” Hai presente? Nel film fa ridere…e anche a casa mia, a dire il vero. Peraltro, questo, è un ricordo recente perché mia madre non è molto che si è “ammorbidita”…sarà la vecchiaia!

Comunque, tornando a noi, il punto è che nella mia famiglia si sa che ci si vuole bene ma non è considerato necessario dimostrarlo con gesti affettuosi considerati da tutti i membri, me compresa, un’inutile “sdolcineria”. Per renderti l’idea: io ADORO mio fratello, è la persona che occupa un posto di assoluto privilegio tra i miei affetti…eppure, anche quando non ci vediamo per un po’, ci salutiamo senza abbracciarci. Tutt’al più un paio di baci sulle guance, e di solito neanche quelli. E’ questo il tipo di “intimità” che manca nelle mie relazioni.

Risultato di tutto ciò: l’immagine che gli altri hanno di me è di una persona estremamente forte e decisa, che sa dimostrare il bene che vuole con fatti molto concreti, con una grande vicinanza emotiva, che ama aiutare il prossimo, che è sempre disponibile, che ha sempre una parola buona, a cui si può confidare tutto e chiedere aiuto per qualunque cosa ma che non ha bisogno di ricevere gesti affettuosi e a cui non appartengono slanci di dolcezza. Niente di più falso, ma quasi nessuno lo sa. Perfino al mio ex, con cui sono cresciuta, capitava di dire “lo so che ti faccio un torto, ma so che tu sei forte e puoi capire”… come se io non potessi essere ferita da niente e nessuno… Giusto per rendere l’idea…E anche per i miei genitori le cose non sono molto diverse.

Io stessa ho capito da poco, grazie all’infinita dolcezza della persona che ho adesso al mio fianco, quanto sia bello ogni tanto potersi “abbandonare”, non dover essere sempre quella capace di risolvere i problemi di tutti, ma avere dei momenti per lasciarsi cullare dall’affetto degli altri. Lui mi ha definito “estremamente chiusa ma estroversa per contrasto”. Contraddittorio? Può darsi, ma sicuramente vero…
Il punto è che ormai la gente che faceva parte del mio mondo da prima di questa meravigliosa scoperta ha quell’immagine di me e si comporta di conseguenza. Non so se cercherò mai di attuare un’inversione di tendenza. Per ora mi basta sapere che sono riuscita ad entrare in contatto con una parte di me che pensavo non esistesse. Ed è solo l’inizio, perché non si passa da uno stato di rigidità ad uno di fluidità completa dall’oggi al domani… anche avendo accanto un persona in grado di agevolare la più completa e libera espressione di me. Io sento di essere ancora frenata su molte cose. Per esempio, spesso mi mancano le parole. Vorrei esprimere un sentimento, un pensiero…ma quando è emotivamente troppo carico mi si chiude la gola, una stretta allo stomaco e non riesco a fare uscire un fiato. A volte servono giorni. Lavoro per giorni su quella difficoltà e alla fine magari riesco anche a superare il blocco. Altre volte, però, passa il momento…semplicemente…e allora rimane in fondo, aspettando la prossima occasione…se capiterà.

Vedi, Yana, le nostre esperienze sono certamente diverse, le origini di alcuni blocchi affondano in contesti che probabilmente non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro e forse quello che ti ho raccontato non può tornarti utile in alcun modo. Ma ti ho offerto la mia testimonianza solo per dirti una cosa: quando arriva il momento di fare scattare il meccanismo, lo riconosci. Io questo ho imparato. Dal nulla e senza sapere perché sbuca qualcosa, qualcuno, un’esperienza in grado di dare il “la” e mette in moto qualcosa che non puoi più fermare perché va a toccare giusto quella corda sepolta in profondità che fa suonare la prima nota di una melodia che mai avresti potuto pensare di contenere in te. L’importante è imparare a non opporsi e, quando succederà, sfruttare l’onda.
A presto

Dana

Io ci ho dovuto pensare un po prima di rispondere,nonostante avessi già chiara in testa questa idea da diverso tempo oramai,si parla di anni probabilmente,ma il fatto che continuassi a schivarla non mi ha mai consentito di vedere così nettamente il problema.

Anche nel mio caso,alla luce di tanti ricordi che ho,che sono affiorati(e tanti che non ho più,subito dopo i 5 anni,alla nascita di mio fratello è come se una pensante censura fosse calata su di me,ricordo davvero poco nulla tra i 5 e i 9 anni circa,e quel poco è negativo..),ho compreso che soffro della paura d’amare,della reale paura di concedermi in tutta la mia persona,per quello che sono veramente,attingendo onestamente a quello che sono in grado di offrire,senza quelle forme caricaturiali della dipendenza affettiva che per me hanno sempre significato l’esternazione dell’immagine che volevo dare,non il mio reale “io”.
Il timore di essere rifiutato per me è sempre stata una montagna invalicabile,con tutte le persone con cui ho avuto a che fare,amici,parenti e genitori.Anzi nel mio caso addirittura più il rapporto è stretto più io scappo,io credo che davvero i miei genitori conoscano il 10% di me,sono le persone che meno mi conoscono,e ci soffro per questo,non posso più far finta.

Ma allora perchè non riesco ad aprirmi con loro?Ho girato per tanto attorno alla risposta,la vedevo eppure ci continuavo a girare attorno dicendomi che il problema sono io che non sono il figlio che loro volevano(cosa invece successa con mio fratello),ma la realtà è un po diversa e sta attenuando questa morsa di odio che ho sempre tenuta nascosta nei loro confronti.
Ora non provo più odio ma delusione,perchè mi rendo conto che a me non è mai stato insegnato cosa significhi raggiungere l’intimità all’interno di un rapporto familiare che si presuppone essere più saldo e profondo di qualsiasi altro rapporto:nella mia famiglia è successo esattamente il contrario sopratutto perchè mio padre non ci ha mai concesso di andare oltre gli aspetti più materiali della famiglia,avere un buon lavoro,un buono stipendio con cui mantenerci e poco altro.
Ricordo come se fosse oggi i suoi silenzi riguardo alla mia curiosità infantile,addirittura arrivava a zittirmi quando qualcosa andava oltre il muro che lui stesso si era posto.

Io sono sempre cresciuto con questa paura di chiedere in famiglia(tutto spettava a mio fratello nel ricordo inconscio che ho),paura di semplici domande che col tempo si è tramutata nella convinzione di
non poter avere nulla dai miei genitori,convinzione di non poter avere nulla e di non meritarmelo sopratutto che si è convertita in chiusura totale alla reale intimità che può garantire un rapporto umano.

Dopotutto l’insegnamento che mi era arrivato era stato quello per cui l’intimità deve essere bloccata,smorzata e tenuta lontana a tutti i costi.
Intimità sentimentale per me è stata sopratutto sesso,le mie relazioni affettive sono quasi tutte nate dal sesso,nel cercare morbosamente l’intimità in questo modo scavalcando tutte le fasi precedenti,le parole,il dialogo,il piacere di apprezzare sinceramente una persona e non in funzione di quello che potrebbe offrire se io mi comporto in maniera impeccabile con lei.
Dove non arrivava il dialogo per me,arrivava il sesso.
Non c’erano le parole per farmi sentire a mio agio?c’era pur sempre il contatto fisico che mi illudeva di arrivare all’intimità reale,forte,sincera.

Ho avuto la prima smossa in me qualche mese fa,anche grazie a una persona,che mi ha mostrato cosa significa offrire affetto senza paura,e io ho visto chieramente la differenza tra questo tipo di affetto e il mio.
Ero stato male,malissimo,avevo smesso di mangiare,di dormire,non avevo mai avuto una sensazione simile in vita mia,era come se fosse stato premuto un tasto che era lì ma che non riuscivo mai a premere.

Avevo scoperto la mia paura più grossa:non quella di non ricambiare(come pensavo),ma quella di ricambiare.

Ethan Hunt

 

 

Carissima Dana,
grazie per il tuo intervento, che non era affatto fuori tema e che mi ha dato moltissimi spunti, nonchè qualche minuto di emozione intensa..lo ammetto..sulle ultime righe mi hai commossa.
Ti ringrazio tanto!

Dunque, innanzitutto vorrei dirti che, a dispetto di tutte le differenze che ci possono essere tra le nostre storie e le nostre famiglie, c’è sicuramente una cosa che condividiamo: anche io ho vissuto a contatto con una famiglia incapace di esprimere affetto tramite..l’affetto.
E’ una condizione che conosco molto bene, tanto che certe “smancerie” è come se fossero implicitamente bandite in casa. Nessuno lo ha mai vietato esplicitamente, ma l’atteggiamento costante e vigente è quello.
E sappiamo quanto l’atteggiamento e l’esempio in casa propria siano più potenti e permanenti che mille parole o altrettanti divieti.

La mia famiglia è composta da persone molto aperte mentalmente ma estremamente chiuse emotivamente.
Tanto per spiegarmi con un esempio, si può parlare di tutto in casa mia (anzi loro, perchè oramai vivo da sola), tranne che dei nostri sentimenti. Espressioni di emozioni e tutto ciò che ne consegue sono stati sempre un tabù e continuano ad esserlo. Ogni tanto ho tentato di andare contro corrente, ma è stato difficilissimo ed ho ottenuto sempre ben poco.

Da un pò di tempo ho compreso che è meglio accettare il loro modo di relazionarsi piuttosto che tentare di cambiarlo, sarebbe una battaglia persa e forse anche ingiusta.
Però indiscutibilmente tutto ciò mi ha ferita ed ancora oggi ne porto le conseguenze nelle mie relazioni.

Mi ritrovo molto nella descrizione che fai a proposito di te stessa quando dici:

” l’immagine che gli altri hanno di me è di una persona estremamente forte e decisa, che sa dimostrare il bene che vuole con fatti molto concreti, con una grande vicinanza emotiva, che ama aiutare il prossimo, che è sempre disponibile, che ha sempre una parola buona, a cui si può confidare tutto e chiedere aiuto per qualunque cosa ma che non ha bisogno ”

Ho interrotto la tua frase alla parola “bisogno” perchè nel mio caso quello che spesso mi sono sentita pesare è stata proprio l’immagine di chi è talmente forte da “non avere bisogno”, cosa che non è affatto vera e che ho contribuito io a creare.

Tutto quello che dici è molto bello e mi serve sentirmelo dire, le tue ultime frasi mi hanno toccata molto.
Quello che dici sul qualcosa o il qualcuno che in qualche modo contribuirà a scaldarmi ed aprirmi il cuore quando sarò pronta lo comprendo e lo condivido. Ho provato questa sensazione riguardo ad altri aspetti, sui quali mi sono sciolta e sono cresciuta parecchio.

L’inghippo che però necessito di superare e che mi spaventa un pò è il fatto che le mie emozioni mi hanno confusa ed ingannata talmente tante volte che adesso temo possano fuorviarmi di nuovo.
O meglio, che io scambi per emozioni e sensazioni ciò che in realtà sono solo rapprsentazioni mentali sottoforma di paure.
Mi spiego. Anche se non so bene cosa senti esattamente tu in questo momento, ti posso dire che io mi sono sentita alcune volte nel modo che tu descrivi.
Ma è sempre durato giusto la fase dell’innamoramento.
Io non so gestire emotivamente ciò che viene dopo, è difficilissimo da spiegare a parole.
Ho avuto anche una storia piuttosto lunga, ma dopo il primo anno c’è stato sempre palesemente qualcosa che non funzionava e non funzionava dentro di me, perchè io non riuscivo, non potevo aprirmi completamente e serenamente.

Arrivo sempre ad un certo punto, poi scatta qualcosa.
Non sapevo cosa fosse questo qualcosa fino a qualche tempo fa, quando ho scoperto che questo qualcosa è il terrore che qualcuno possa davvero giungere nel profondo del mio cuore.
Per questo mi “ha fatto comodo” (ovviamente ci ho sofferto come un cane, perchè questo è il pegno da pagare..) scegliere figure complicate o sfuggenti con cui relazionarmi, perchè inconsciamente sentivo che non sarebbero mai potute arrivare lì dove temevo potessero raggiungermi.
Ci sono sicuramente altre cause dietro a questo modo di relazionarmi, ma sotto a tutto c’è il peccato originale: aver sperimentato quanto aprire il cuore e donarmi spontaneamente possa farmi male.

Quando ho incontrato persone più disposte al dialogo, alla costruzione di un progetto comune, persone in un certo senso meno problematiche e più aperte, qualcosa è comunque scattato in me nel momento in cui la relazione si stava stringendo.
Un tempo era tutto molto annebbiato, oggi, col senno di poi, posso dire che scattava qualcosa nell’esatto momento in cui l’altro tentava di andare un pò più in profondità.
Io avvertivo questa cosa come una violazione e fuggivo. Non la potevo gestire.

E’ difficilissimo per me parlare di queste cose, e tentare di farmi comprendere, non so quanto sia potuto arrivare.

Però Dana, le tue parole davvero mi scaldano (e probabilmente è davvero questo di cui ho bisogno ) e mi danno tanta fiducia.

In questi anni di introspezione ho raggiunto comunque delle parti molto profonde di me, alcune delle quali nemmeno sapevo esistessero, ed ho sicuramente imparato a gestire una cosa che per me era devastante ed insormontabile: la solitudine.

Questo è stato il primo passo, che credo abbia contribuito a sciogliere molte sovrastrutture e che mi ha rafforzata e scaldata quel tanto da permettermi ora di scontrarmi anche con qualcosa che sta ancora più nel profondo.
Ho fiducia sul fatto di farcela, ma sto procedendo ancora con un passo tentennante

Un abbraccio fortissimo

Yana

 

 

Cara Yana, ho letto il thread qualche giorno fa e mi ha fatto molto pensare. e mi ha anche irritato. e rifatto pensare. poi non ci ho più pensato. poi ho pensato di risponderti e poi che volevo dire troppe cose in poco spazio. insomma tutto ciò è segno evidente che l’argomento mi tocca molto da vicino. come ho detto altre volte ho scoperto in me molto più di un tratto narcisista. e l’intimità è un problema tipico delle personalità connotate dal narcisismo. al di là della teoria ti descrivo quello che è successo a me, con alcune varianti ma con lo stesso “nocciolo”, le (poche) volte che mi sono innamorata. in primis c’è la “fusione”, la sensazione di riconoscersi, il perdersi nell’altro, bellissima ma che dura poco. subito dopo iniziano le paranoie, la ricerca ossessiva di conferme se l’altro sfugge, o di fughe se l’altro ti sta troppo addosso.ed è una fase in cui c’è aggressività, o mi sento aggredita, malgiudicata etc.. o sono io che lo faccio. devo dire che, se si ha la pazienza di sopportarmi, riesco poi a trovare un equilibrio e dal terrore che manifestano questi comportamenti passo ad un “prendere le distanze o le misure” che sono in grado di sopportare. allora torno ad essere abbastanza tranquilla, affidabile e positiva, o almeno in controllo. se non riesco io o l’altro a superare questa fase c’è una separazione. devo dire che fino ad ora ero stata fortunata, nessuno mi aveva mai abbandonata. almeno che io mi ricordi, evidentemente un abbandono “originario” ci deve essere pur stato. in verità anche con i miei più cari amici, a volte, ho dato vita a questo teatro, specie in situazione (guarda caso) di “contiguità” fisica, campeggio, casa in comune etc… devo dire che, con gli anni, ho imparato abbastanza bene a convivere con questi impulsi e a gestirli, ma non li avevo mai capiti a fondo. “debordavano” nella mia vita in modo imprevedibile, incasinandola molto, ma poi, grazie ai miei radicati valori e alla mia vita più che irreprensibile di persona disponibile, buona etc.. tutto rientrava nei ranghi. che dire, nonostante tutto, sono riuscita a mantenere rapporti lunghi di amicizia e di amore, ad avere due figli meravigliosi e una vita ricca e piena. mantenendo le giuste distanze. ora sto “guarendo” dal mio narcisismo, ancora ce ne vuole, ma sono in cammino. con molte persone le distanze le sto accorciando, chiedo scusa, dico grazie, accetto di non bastare a me stessa, di essere “invasa”, mi affido agli altri. tutto questo non sempre, a volte non spontaneamente, a volte ci devo pensare prima di agire, ma ho buoni risultati. è difficile uscire dai nostri comportamenti compulsivi, a volte ci vuole anche la volontà, anche se la volontà da sola non basta. ci vuole un profondo sentire ma anche la volontà di agire in accordo con questo. spero che la mia esperienza ti possa in qualche modo essere utile, un abbraccio

Zoe29

 

 

Cara Zoe,
grazie del tuo intervento, che mi è molto utile ed in cui mi ritrovo parecchio.

MI rispecchio molto in questa dinamica: ” in primis c’è la “fusione”, la sensazione di riconoscersi, il perdersi nell’altro, bellissima ma che dura poco. subito dopo iniziano le paranoie, la ricerca ossessiva di conferme se l’altro sfugge, o di fughe se l’altro ti sta troppo addosso ”

Talvolta la prima fase è durata anche tanto, il problema era riconoscere che veniva protratta la fase fusionale e che non c’era stato un passaggio alla vera intimità, come io amavo illiudermi.
Dall’altra parte c’era qualcuno che sapeva muovere splendidamente i miei stessi passi ed allora pareva proprio il “principe azzurro”: quello che non invadeva troppo i miei spazi, sia quelli leciti che quelli cui una persona che ami dovrebbe poter avere accesso.

Prendere le misure.
E’ difficile per me perchè in me convivono due tendenze opposte che in realtà rivelano le medesime paure originarie, quella di poter essere abbandonata e di non essere accettata per tutto ciò che sono e che mi porto dentro: compresa l’intimità e la sua esternazione/condivisione.

Le due tendenze opposte sono state per molto tempo un continuo stringermi fino a farmi in qualche modo fuggire e non vivere l’amore.
Da un lato mi facevo invadere eccessivamente, ma in quelle dimensioni per me accettabili (e per molte persone sane assurde).
Accettabili perchè avevo fatto un buon allenamento fin da bambina, imparando a mercanteggiare fin troppo bene il mio “altruismo” per ottenere ciò di cui avevo bisogno: amore?
Non esattamente.
Mercanteggiavo un modo di ricevere attenzioni ed affetto che però non mi chiedesse in cambio di lasciarmi veramente andare.
E come potevo? Non ne ero capace, o forse ne sono stata capace, ma poi sono stata manipolata inconsapevolmente per smettere di farlo.
E poi se chi teme l’intimità e la rifugge ne è inconsapevole ed ha il compito di crescere un’altra creatura, pur senza costrizioni o parole le tramanderà il rifiuto dell’intimità.

E’ tutto un grande intreccio molto difficile da esprimere in modo lineare.

E’ difficile per me mantenere un equilibrio tra il non farmi invadere dove effettivamente verrei derubata e il lasciarmi andare per amare e condividere profondamente.

Sono diventata piuttosto brava nella prima parte, ho imparato a dire di no quando lo sento, a salvaguardare la mia incolumità e la mia dignità, a rifiutare l’invasione reale e a non elemosinare compagnia, ma a godere davvero anche della mia sola presenza. Ma sono rimasta chiusa nella mia paura dell’intimità, quella che se non la condividi rimane quasi opaca e snaturata della sua reale e totale bellezza.

L’intimità che non riesco a donare è quella che compone l’amore autentico e credo che l’amore vero sia fatto per essere condiviso ed espresso, non importa sotto quale forma od esperienza.

Yana

 

Cara Yana, scusa se ti rispondo solo oggi, ma ho dei problemi di connessione in questi giorni. ho letto con molto interesse il tuo post e ho continuato a pensarci in questi giorni. La mia lunga storia di paura dell’intimità ha coinvolto sia l’aspetto del corpo che quello della mente. quando ero giovane mi metteva in crisi anche l’invasione del corpo, cosa che ho gradatamente superato, anche perchè ho avuto la fortuna di vivere in un momento storico che “glorificava” il corpo e ogni sua espressione, compresa quella sessuale, e quindi non ho “condito” di molti sensi di colpa la mia difficoltà a mettermi in relazione affettiva con gli altri. non ti immaginare non sono un tipo chiuso e scostante, anzi, sono una persona molto aperta, altruista, disponibile e che fa volentieri nuove esperienze. il problema è sotto la superficie. i problemi maggiori sono stati con l’aspetto psicologico, e lì, forse, il mio carattere aperto ha fatto si che non mi paralizzassero. Cos’è che mi faceva stare a quelle che io chiama “le giuste distanze”? la paura di essere invasa e il vedere l’altro come un prolungamento del mio io. Quindi la difficoltà a vedere l’altro per quello che è e non come un appendice che ti valorizza, un appendice anche molto potente, di cui spesso non puoi fare a meno chè senza di lui/lei non ti attribuisci valore. di fatto è una modalità di relazione altamente insoddisfacente, primo perchè l’altro non lo vedi nemmeno o almeno molto poco. non ti rendi conto di quello che ti viene dato, ma pretendi solo nel momento del tuo bisogno. al momento che l’altro “risponde” al tuo bisogno provi un appagamento momentaneo, ma avverti immediatamente che il gesto dell’altro non è del tutto gratuito e rilanci.diventa un meccanismo che si avvita su se stesso scivolando quasi sempre nel gioco di potere. il problema non è chiedere, quello è giusto e sano, il problema è chiedere sempre e non ascoltare mai. la vera intimità, per me, è stare in ascolto dell’altro, cogliere i suoi sentimenti, le sue sensazioni sia verso di te che verso il mondo in generale, e sentire quello che liberamente dona. l’intimità è una dialettica di sentimenti che si crea fra due persone. il famoso dare e avere, che ha come presupposto il dono, non la pretesa del soddisfacimento di un bisogno in nome dell'”Amore”.vista così sembrerebbe una cosa tutta cerebrale. ma non lo è affatto, il corpo ci conduce alla mente e viceversa. sono aspetti che in me stanno ancora maturando. senz’altro, ad esempio l’esperienza della maternità ti costringe a fare i conti con un tipo di intimità sia di corpo che di mente che è assolutamente rivoluzionaria, e non ti lascia certo come ti ha trovato. e anche la maternità la si può leggere come una tappa di maturazione verso la capacità di vivere l’intimità, non è possibile affrontarla se non si ha il coraggio di oltrepassare alcune “colonne d’ercole”, se non si accetta di essere invasi nella misura (enorme) in cui ti invade un altro essere umano. poi ci può essere una reazione anche forte per cui, magari, passi il resto della tua vita a difenderti dall'”invasore” (il figlio), a me non è successo, ma onestamente devo ancora capire che tipo di effetto ha avuto sulla relazione con mio marito, ad esempio.
per ora mi fermo qui, spero che la mia esperienza ti dia qualche spunto di riflessione utile, ti abbraccio con affetto

Zoe29

 

 

Ciao Zoe,
grazie per avere deciso di condividere la tua esperienza con me (e con gli altri).

Ci sono alcuni aspetti in cui mi ritrovo, altri no.
Su altri sto lavorando…

Per quanto riguarda l’invasione emotiva/invasione fisica (questa dimensione che hai toccato è molto importante secondo me, nella questione “intimità”) io ho vissuto esperienze diverse.
Al contrario di te, non ho vissuto disagio con le invasioni più propriamente fisiche, almeno per quanto riguarda il campo sentimentale.
Ad esempio, parlando del sesso, ho spesso anzi teso a scambiare l’intimità fisica per reale intimità, cosa che ovviamente non è.
Molti dei miei rapporti di coppia si sono retti in equilibrio anche grazie all’aspetto fisico e passionale e, proprio per questo, quando subentrava successivamente (e naturalmente) una fase più stabile e più matura dell’affetività e dello scambio tra due persone, spesso qualcosa dentro di me scattava. Un allarme, percepibile molto spesso anche a livello fisico, oltre che emozionale.
Probabilmente in questo aspetto ci sono elementi che comunque ci accomunano.
Ad esempio, non so se in questo ti ritrovi, credo che questa mia problematica si sia risolta anche in una qualche spaccatura tra la sfera fisica e quella emotiva.
La parte che ama, che “sente” le emozioni, non può convivere troppo a lungo con la parte che agisce e che si lega al desiderio ed al piacere.
Ma quest’ultima riflessione è un’ ipotesi su cui ancora sto riflettendo e sulla quale per ora mi fermo.

Per quanto riguarda l’ascolto, questo è stato sempre l’aspetto che principalmente, insieme alla passione, ha sempre tenuto in piedi, finchè sono durati, i miei rapporti, quantomeno come atteggiamento (e tattica inconscia) da parte mia.
Potrei dire che le mie relazioni si sono basate tantissimo sull’ascolto, quello che sfocia nell’empatia, nell’accoglimento e nella comprensione del sentire dell’altro, tanto da essersi trasformato in un atteggiamento eccessivo e nocivo per me, che ha fatto sì che l’altro invadesse “sul serio” una sfera mia personale che non avrei dovuto permettere di invadere.

Ho sviluppato una modalità dipendente di relazionarmi, che si basava su una grossa lacuna nell’autostima (dovuta a diversi fattori) e sull’interiorizzazione di tale modello portato dai miei stessi genitori.
Questa disfunzionalità ha portato quindi alla massa in atto di strategie (inconsapevoli ed automatizzate) volte all’accoglienza e all’accettazione di me stessa da parte degli altri.
Il mio problema non era dare, ascoltare, comprendere.
Il mio problema era farlo in libertà, senza aspettarmi altro in cambio.
Oggi invece il mio problema è dare me stessa. Un problema che è sicuramente sempre esistito ma che giaceva sotto questi multistrati ormai smascherati.

Oggi sono senz’altro più autentica e sono felice di non aver scelto di sopprimere la mia empatia per preservarmi dalle “invasioni”.
Ho posto però dei paletti, che mi servono per salvaguardare la mia dignità, i miei diritti, le mie esigenze, imparando al contempo a ripettare meglio e in modo più consapevole anche quelle degli altri.
Mi sento più libera e desidero che chi mi sta vicino (chiunque) si senta libero.

Ma nonostante questi passi in avanti, con fatica, tempo e pazienza conquistati, chiaramente sono ancora in cammino e sento che, proprio per la mia acquisita consapevolezza ed autenticità, riesco a percepire in modo più vero e sensibile i miei limiti e le mie sensazioni più reali.
Ad esempio il mio limite di dare me stessa. O di sapere arrivare sempre fino ad un certo punto.
Un limite oltre il quale, piuttosto che offrire parti di me irreali, o fasulle, ho preferito non dare.
E forse sto ancora scegliendo (in modo incontrollabile) di non dare in questo senso, cosa che mi ostacola e mi tarpa le ali.

Ma la paura che sottende questo “non darmi” è ancora incisa dentro di me in modo profondo e sono conspevole che la volontà di combatterla non possa essere l’unica alleata di questo mio percorso.
Ci vuole un profobndo sentire ed una profonda elaborazione, che è quello che sto gradatamente affrontando.

Grazie per tutti i vostri interventi, spunti, condivisioni.
Siate liberi di scrivere tutto ciò che vi viene in mente.
Grazie
Yana

 

Ciao yana

credo sia normale avere un atteggiamento prudente di fronte a qualcosa che si percepisce ma non si conosce.
In questo momento sei come un adolescente che affronta per la prima volta un qualcosa che non conosce ma che sa che lo porterà a crescere. Sai che è un passo obbligato e che prima o poi si concretizzerà e credo che sia un buon segno che tu dia la giusta importanza all’evento.
Il bambino è più impulsivo, ha bisogno di inserire più dati possibile nel suo computer, agisce spinto dalla curiosità.dai bisogni primari ma è ben consapevole della sua dipendenza.
L’adolescente invece si appresta ad affrontare sfide che lo porteranno autonomamente a costruirsi il suo futuro.
Quello che ho capito io è che sei uscita dalla fase infantile di dipendenza per entrare in quella adolescenziale di ricerca della tua strada.
Hai la possibilità di rivivere tale fase evolutiva sapendo cosa cercare.
La tua paura nasce dal fatto che la consapevolezza non basta perchè ciò che stai cercando è qualcosa di inesplorato.

Non sono daccordo sulfatto di definire irreale ciò che sei in questo momento e ciò che potresti offrire. Adesso sei più reale che mai è solo che forse non ti senti ancora pronta per vivere ciò che stai cercando.

La vera capacità acquisita è ,secondo me,quella di riuscire ad aspettare e riconoscere l’obiettivo della nostra ricerca senza arraffare casualmente tutto ciò che capita per paura di perdersi qualcosa.
Per tornare all’esempio del computer, ora non inserisci semplicemente più dati possibili ma segli quelli significativi per sviluppare il programma che ti interessa.

Sono nella tua stessa situazione ma ho capito che la paura che provo adesso è reale mentre la presunta sicurezza di prima quella si che era irreale.

La voglia di superare le proprie paure è il più grande motore che io conosca per raggiungere i propri obbiettivi vincendo le proprie sfide.

Troppo spesso combattiamo battaglie che crediamo nostre mentre in realtà non lo sono solo per svincolare dal pèroblema reale. Ma quando riconosciamo il vero ostacolo non possiamo fare a meno di affrontarlo se continuamo ad avere dentro quella sana curiosità nei confronti del mistero della vita.

Un abbraccio

Robedamatti

 

 

Carissimo Robedamatti,
grazie per essere così empatico, davvero.

Quando dici che secondo te non è vero che quello che sono oggi è fasullo penso che sia vero. Hai ragione.
Rileggendomi, comprendo che per come l’ho scritto io sembra che sia come hai inteso tu, invece hai ragione, quello che posso dare oggi è quello che sono e va accettato perchè è reale ed esprime il mio sentire di oggi, con tutti i suoi limiti.
Peraltro concordo pienamente anche sul fatto che è molto più autentico ciò che provo e posso permettermi di offrire oggi rispetto a ciò che pensavo di riuscire a dare prima.
La mia paura attuale è senz’altro più reale dell’immaginaria sicurezza di un tempo. E per questo motivo forse anche persino più bella.

Ho espresso male un pensiero, in realtà intendevo rappresentare qualcosa che non ho forse ancora ben chiaro nella mia testa, o che afferro malamente anche con la pancia.
Mi rendo conto che quando scrivo in questo thread non ho la stessa lucidità che ho per altri aspetti che mi riguardano, perchè, come ben hai colto tu,
” In questo momento sono come un adolescente che affronta per la prima volta un qualcosa che non conosce ”
Niente di più vero, penso.

L’irrealtà di cui parlavo, l’attribuisco più che altro a ciò che ero convinta di donare prima.
Nel senso che per un tratto della mia vita appena trascorsa, mi sono resa conto di essermi fermata un attimo a riflettere su tutte queste mie rivelazioni su me stessa, sulle mie paure e su ciò che mi portavano a fare/dare-non fare/non dare.
Ho sentito dentro di me in modo molto vivo l’irrealtà di un sentire che avevo confuso con intimità ed amore e che invece si era rivelato una moltitudine di paure, che invadeva molte sfere della mia vita ed il mio stesso presentarmi al mondo.

Così mi sono trovata per un pò senza sapere realmente cose fare per sciogliere questo nodo molto stretto, finchè alla fine ho capito che avevo bisogno semplicemente di mettermi in ascolto con onestà, coraggio ed attenzione, cercando di affrontare le sensazioni negative che necessariamente scaturivano.
Sono riuscita in parte a prendere le distanze dai miei aspetti non autentici, sciogliendomi piano piano su molti punti determinanti e sentendomi di conseguenza molto più libera.
A volte ho provato una sensazione di pienezza di me, non intesa in senso negativo, ma positivo. Perchè, nel bene e nel male, stavo incominciando forse per la prima volta, o forse semplicemente dopo tantissimo tempo, ad entrare in contatto con la vera mia sostanza, con ciò che sono, che ho percepito essere bellissimo in tutta la sua imperfezione.
Ed ho capito che era quella l’unica strada che mi serviva percorrere.

Oggi però comprendo che ci sono parti di me ben nascoste che ancora giocano a nascondino e che è dura raggiungere e permettermi di esprimere.
Mi sono resa conto che oggi c’è un’immensa volontà di dialogare con quelle parti e di farle emergere in qualche modo. C’è tantissima voglia di dare, nel senso autentico e profondo del termine.
Ci riesco in alcune sfere, ma cado nella vita privata.
E il mio modo di cadere oggi non è quello di sbagliare, ma quello di frenarmi.
Il punto è che non ho ancora “disattivato” bene questa modalità, so che è improduttiva, che non mi porta a nulla, ma non riesco a controllarla, a dischiudere quelle parti di me che invece vorrei condividere e che non so come descrivere. Non sono pensieri, nemmeno emozioni, oserei chiamarla “apertura”. Apertura verso luoghi profondi di me in cui desidererei permettere di entrare per potermi davvero condividere.
Ma è una modalità inconscia; è consapevole perché so che esiste, ma scatta automaticamente ed io me ne rendo conto solamente col senno di poi. Per ora non sono in grado di opporle resistenza e questa forse è già un’indicazione.
Probabilmente c’è bisogno ancora di tempo e di comprensione.

Grazie, scusate per la successione di pensieri molto sconnessi, non riesco a descrivere questa fase in modo molto lucido, né lineare.
Ma so già che molti di voi sono in grado di comprendere ugualmente, o comunque di accogliere.

Yana

Ciao Yana

se di vera “APERTURA” si tratta allora non hai bisogno di far entrare nessuno per condividere la tua intimità.
Le cose importanti ,nella condizione che tu descrivi, trapelano e si espandono intorno a noi.
Sentirsi aperti o sentirsi pronti per un’eventuale apertura non sono la stessa cosa.
La prima è strettamente personale indipendente da qualsiasi contenuto esterno, è uno stato individuabile da tutti.
La seconda invece presuppone ancora l’esistenza di una seconda persona al quale regalare tale apertura ( ma ti apriresti a tutti o solo a persone meritevoli?).

Questo è ciò che mi viene da risponderti
Un abbraccio

Robedamatti

 

 

Ciao Robedamatti,
provo a rispondere alla tua domanda.
Voglio essere aperta e mi sento aperta in generale. Ed è vero, in questo caso non c’è bisogno di condivisione, in quanto la condivisione avviene naturalmente. Ci esprimiamo nel mondo per quello che siamo e quello che siamo arriva. Arriva la chiusura ed arriva l’apertura.

Quello che invece tu hai chiamato un’ “eventuale apertura” è forse più legato alla condivisione di sentimenti, progetti e percorsi insieme ad un’altra persona. Condividendo e nutrendo il tutto attraverso vera intimità, che chiaramente si acquisisce nel tempo. Perchè credo di aver capito che sia quella che può potenzialmente tenere in piedi ed è capace di nutrire un rapporto con delle solide basi e che sempre quello aiuti nei passaggi difficili di tutte quante le relazioni, nelle crisi, nei momenti duri, nella maturazione delle persone e del rapporto stesso.
Non può di certo costituire una garanzia, anzi, deve essere un vivere ogni giorno l’esperienza curandola come una cosa preziosa che nel tempo si evolve, però è secondo me un aspetto base per la costruzione di qualcosa che possa resistere ed in cui si possa credere.

Onestamente oggi non mi sento “vuota” senza una persona di fianco (un uomo), però nutro il desiderio di costruire un rapporto soddisfacente, stabile, attraverso cui sperimentare amore ed intimità (dandolo e ricevendolo e non “dandolo per ricevere”). Quindi non certamente con “chiunque”, ma con una persona che mi piaccia realmente.
Su questo mi sento piuttosto centrata, ho le idee chiare, ma mi sono resa conto che ciò che comunico maggiormente in questo senso è, al contrario, chiusura. Attraverso quei codici che istintivamente gli altri percepiscono e che io invio senza nemmeno parlare.
Oppure l’apertura arriva dove c’è ancora chiusura.
Questo è ancora un modo per eludere l’amore e la condivisione, l’intimità.

Ci ho messo un pochino a capirlo, ma poi questa cosa è emersa.
Sta emergendo.
Ma la mia “postura” di chiusura sentimentale (metaforicamente parlando) è qualcosa che non riesco a gestire e che frena ogni mio passo anche quando vorrei correre.
Non so se rieco a trasmettere la sensazione di frustrazione che sento dentro e che parte sicuramente da me.

Sotto c’è sicuramente la paura di correre davvero; la voglia di costruire e condividere c’è a livello di desiderio sano, ma poi nel profondo è ancora invalida ed evidentemente non ancora sufficiente rispetto alla paura che ne ho.

Grazie

Yana

 

Ciao Yana

Quello che percepisco io dalle tue parole è molta consapevolezza in quello che vorresti o che cerchi. Come lo percepisco io lo percepiscono anche gli altri e, credimi, fa molta paura dover essere all’altezza di aspettative cosi elevate.
Io credo che quando incontrerai una persona con le stesse tue esigenze,allora scopi,fini e obiettivi in comune si realizzeranno.
Le persone non sono vittime del destino o del fato o del caso.
Sono convinto che come ci autoinfliggiamo delle dure punizioni con storie impossibili e dolorose, cosi siamo anche in grado di riconoscere ciò che è bene per noi,andarcelo a cercare e infine viverlo.
Per fare ciò è necessario essere pronti.
Per quello che cerchi tu bisogna essere pronti in due.
Il fatto che tu riconosca l’apertura o la chiusura in te nei confronti delle altre persone e viceversa lo vedo come un fatto positivo.
Ora hai le redini un pò più tese e stai guidando il tuo cavallo nella direzione che vuoi.
Ci sono momenti in cui è giusto cosi ma credo anche che l’obiettivo finale sia riuscire a cavalcare con le redini ben strette( per eventuali imprevisti) ma con le briglie sciolte.
Se non vai a cavallo ti spiego cosa intendo dire: se vuoi andare da Trieste a Milano puoi farlo sia con estrema attenzione tenendo sempre sotto controllo la situazione guidando in ogni istante il tuo destriero, ma puoi farlo anche rilassandoti in sella ed intervenendo nei rari casi necessari.
In entrambi i casi arriveresti a Milano felice ma nel primo caso stanca e stressata perchè avresti usato il cavallo solo come mezzo di trasporto, nel secondo caso invece ti saresti regalata un piacevole viaggio, non solitario, in compagnia del tuo cavallo con la possibilità di osservare il paesaggio, parlare con chi incontri, gioire del viaggio pur sapendo che il tuo obiettivo è Milano.
Questa per me è la differenza fra usare e condividere anche se gli scopi, i fini dei due compagni di viaggio non sono gli stessi.
Questo si può fare solo con tanto amore per il viaggio e tutto ciò che comporta (comprese le sventure).
Non è possibile se in testa c’è egoisticamente solo il raggiungimento della meta. Non dico che non sia giusto ma solo che si perde una grande occasione.
Per non sentirsi soli conoscere la meta non basta bisogna accettare e riuscire a godere del viaggio.
Generalmente il percorso risuterà più piacevole,arricchente e breve.

Un abbraccio

Robedamatti

 

 

Caro Robedamatti,
grazie ancora di.. “starmi così dietro” , questi confronto per me è molto costruttivo e mi induce a riflettere.
Mi serve molto sentirmi dire cosa viene percepito dal di fuori e sentire pareri differenti, tra cui in particolare quello di un uomo, e che comprende certi miei trascorsi in fatto di “chiusura”.

La penso come te, ho capito e mi ha fatto molto riflettere la tua metafora a proposito della modalità di andare a cavallo e credo che l’equilibrio stia proprio in ciò che hai descitto essere un pò l’obiettivo in sè della ricerca della serenità.
Insomma, un pò come se la serenità fosse l’unico mezzo per raggiungere serenità.
E alla stessa stregua, l’unico modo di godere e sentire con pienezza un sentimento è quello semplicemente di goderne, con tutto ciò che comprende, in negativo e in positivo, e assaporarlo in pieno.
Sono d’accordo.
E sono d’accordo sul fatto che se l’obiettivo è meramente quello di “costruire”, cioè di “fare”, arrivare ad uno scopo, il sentimento sfugge di mano, e magari si costruisce lo stesso, ma qualscosa di asettico. Si usa l’altro per riempire la propria vita di una relazione, e così si commette l’errore di trasformare una relazione potenzialmente sana, o comunque funzionante, in qualcosa di insano perchè innaturale.

Forse è superfluo dire che non è questo che vorrei e che nutro semplicemente il desiderio della bellezza della condivisione ma, come dici tu, sto lasciando che questo accada quando sarò pronta e quando questo desiderio si muoverà verso qualcuno che sarà altrettanto pronto e che toccherà spontaneamente il mio cuore.
Non vorrei che sembrasse che io sia in ricerca di una relazione, del tipo “A.A.A. qualcuno per costruire cercasi”
Non è così, ma capisco che fare un’analisi dettagliata della mia vita sentimentale e del mio sentire prima/ora, tracciandone anche le differenze, possa indurre a pensare questo.
Quando dico che vorrei costruire, comprendo e condivido l’idea che questo non possa essere deciso a tavolino, ma che possa solamente essere una nascita spontanea.
Ho sempre vissuto le mie relazioni, seppur contorte, assecondando molto l’istintività, pur peccando di inconsapevole chiusura, e mai sarei capace di vivere in serenità all’interno di qualcosa di preconfezionato ed utile solo per arrivare ad una meta.
Posso anche dire che stavo per cadere in un errore simile, ma il mio modo di essere non mi ha permesso di finire nella trappola; non appena avverto rigidità ed innaturalezza mi sento invasa da un senso di disagio e non riesco a restare dentro.

Quello che tento di esprimere è invece un senso di frustrazione per il fatto di avere avvertito in me un’eccessiva chiusura, un ripiegamento su me stessa e sulle mie cose che dura da troppo tempo.
Ho imparato a non sentire più la necessità di negoziare affetto, a stare bene da sola, a godere delle mie cose e della mia compagnia, a crearmi una base che sia solo mia ed alla quale una nuova persona potrebbe semplicemente “aggiungere”, senza dover “compensare” la voragine interiore che avvertivo in passato.
Tante cose meravigliose fanno parte della mia vita e la rendono ricca, ma credo sia normale e sano dopo molto tempo da sola desiderare di innamorarmi, di lasciarmi trasportare dal sentimento.

Ho notato che però questo non accade, non ne sono in grado e mi sono posta delle domande. Perchè qualcosa si blocca quando sembra che in qualche modo io mi stia lasciando andare. O si blocca da una parte, o dall’altra, non so se capisci cosa intendo dire.
Credo che la risposta stia semplicemente in ciò che hai detto tu: evidentemente non sono pronta.

Questo mi rende desiderosa di comprendere ciò che arresta il mio viaggio a cavallo, per utilizzare le tue parole, perchè vedi: il tragitto non inizia nemmeno, neppure se avverto sintonia con il cavallo
Per me questa è chiusura. Paura.

Mi ha colpito molto il tuo discorso sulla paura e la difficoltà di essere “all’altezza di aspettative così elevate”.
Mi colpisce perchè è una cosa su cui ho riflettuto spesso e su cui mi sono posta delle domande.
Quando io esprimo la mia consapevolezza su ciò che cerco in realtà non so cosa mi aspetterà, ne voglio programmarlo.
Però, dopo aver vissuto molte illusioni, sia da parte mia che da parte dell’altro, e conseguentemente delle delusioni; dopo aver sofferto per via di una mancata consapevolezza di ciò che cercavo o di cosa potesse rendermi felice, oggi sono semplicemente consapevole di cosa non voglio più. Non sono più disposta a costruire qualcosa solo per non stare sola o per provare emozioni riempitive.

Forse la mia consapevolezza (che non è sicurezza, credimi, per quanto riguarda la sfera sentimentale, tutt’altro..) può spaventare, me lo sono chiesta.
Ma allora mi domando come trovare un equilibrio reale tra avere contatto con se stessi e ciò che si vuole e creare “ansia da prestazione negli altri”..
Non so se mi sono spiegata…..

Yana

Ciao Yana

hai colto molto di quello che intendevo dire ma non tutto.
Condivido nei contenuti tutto quello che dici ma ci sono delle sfumature nel mio ragionamento che vorrei spiegare meglio.

Tu sei già in viaggio per Milano, seguendo la metafora, ma Milano è quello che cerchi. Sarai pronta solo quando giungerai a destinazione perchè li troverai quello che cerchi.Solo li potrai,come dici tu, costruire o fare.
Fino a quel momento puoi solo decidere se percorrere un viaggio in solitaria o in compagnia, in fretta o con calma, gustandotelo o,con l’ansia di arrivare.
Il vero problema è accettare che si è ancora in viaggio e ,per me , la soluzione è modificare l’atteggiamento verso lo stesso.
Avrai notato anche tu che ci sono persone che iniziano le vacanze dal primo giorno godendosi anche il viaggio che fa sicuramente parte del pacchetto estivo. Durante il tragitto chiacchierano, cominciano ad uscire dalla routine, gioiscono di nuovi incontri(anche solo in autogrill),iniziano a rilassarsi e magari a scaricare qualche tensione di troppo per poi arrivare più leggeri e sereni possibili all’appuntamento sperato.
Altri si incazzano perchè sono costretti a percorrere una lunga strada prima di raggiungere la destinazione e sicuramente quando vi giungono dovranno smaltire lo stress della inutile fatica.Dico inutile perchè un atteggiamento diverso avrebbe potuto rendere tutto più semplice e bello.

Quando parlo di viaggio a cavallo non intendo dire che lo scopo sia il rapporto con il cavallo ma esso rappresenta lo strumento attraverso il quale puoi raggiungere la tua meta condividendo con amore un pezzo di strada con chi sai dovrai salutare alle porte di Milano.
Il cavallo è l’oppotunità che hai per imparare a raggiungere una vera intimità anche con chi non fa parte della meta.

Per quanto riguarda il compagno di viaggio questo è solo un contenuto irrilevante perchè se vuoi veramente gioire del percorso sarai anche in grado di scegliertelo e cambiarlo all’occorrenza.
Ci sono situazioni in cui si è costretti ad accettare anche presenze scomode delle quali ci si può liberare appena possibile senza perdere il piacere di proseguire.
Ciò che rende complicato il tutto è la possessività, l’incapacità di di lasciare andare un compagno che ci porta o che portiamo fuori dalla sua o dalla nostra rotta,la scarsa apertura mentale che non permette di scorgere subito con chi viaggiare meglio, l’egoismo che ci fa false promesse di scorciatoie e comodità ecc ecc
Chi ha questi problemi in viaggio credo non abbia ancora imparato ad amare e apprezzare il viaggio stesso.

Per quanto riguarda la domanda finale io credo che conoscere la meta e amare il proprio viaggio sia il vero contatto con se stessi, cosapevolezza che non bisognerebbe mai perdere o barattare , mentre ” l’ansia da prestazione negli altri” si evoca nel momento in cui si cerca di portare sulla propria strada qualcuno che non sarebbe in grado di affrontarla o che semplicemente è diretto altrove e non sente suo ciò che gli viene proposto.
L’equilibrio di cui parli sta nel rispetto, nella fiducia e nell’amore nei confronti di ciascun viaggiatore con la speranza sincera , e augurando con il cuore, che ognuno possa raggiungere la sua meta perchè siamo tutti un pò nomadi prima di averla raggiunta.
Non so se mi sono spiegato ma so cosa intendi

Robedamatti

” Tu sei già in viaggio per Milano, seguendo la metafora, ma Milano è quello che cerchi. Sarai pronta solo quando giungerai a destinazione perchè li troverai quello che cerchi.Solo li potrai,come dici tu, costruire o fare ” ….. (Robedamatti)
Ciao Robedamatti,
grazie ancora per la tua attenzione e per la tua sensibilità.
La tua visione sull’argomento, che ho riportato in parte, e ciò che ne consegue, è molto affascinante, mi piace.
Ho capito, adesso (credo), cosa intendevi con la metafora del viaggio.
Sono in accordo con il tuo sentire, anche se dissento su un punto, su una sfumatura. Poi magari non ho compreso in pieno quello che volevi dire.

Condivido quando dici che solo quando sarò giunta a destinazione sarò davvero in grado e “pronta” per costruire, per crearmi ciò che cerco con tutte le sue potenzialità.
Ragionando sempre per metafore, è stupido pensare di aver già trovato Milano quando mancano ancora un pò di chilometri, e sarebbe anche illusorio convincersene, o cercare affannosamente il cartello “Milano” dove non potrà mai esserci.
Però credo che pensare, o “prestabilire”, di non poter inizare a costruire nulla fino all’arrivo sia un pò autocastrarsi, raccontandosi (almeno nel mio caso sarebbe così) che, nel frattempo, posso comunque concedermi di godermi il viaggio, pur senza pensare di poter costruire.
Che in ogni caso io mi possa godere la corsa, ed anche trarne ulteriore crescita e conoscenza, è senz’altro una verità e anche secondo me questo è l’atteggiamento migliore da assumere.
E, come dici tu, adottare un atteggiamento positivo e sereno, di curiosità anche direi, nei confronti del proprio viaggio è il modo migliore e più costruttivo di viverlo. Di vivere la propria vita.

Sono talmente d’accordo su questo che, nonostante tutto, io ritengo (oggi) di amare immensamente il mio viaggio, tanto che, mentre procedo, m’infilo interessata, e a volte divertita, in ogni piccola viuzza sconosciuta che incontro.
Ma penso che durante il tragitto possa davvero accadere di tutto, specialmente se noi viaggiamo a cuore aperto.
E’ questo ogni tanto il mio pensiero.

So che se la mia meta è quella di aprire il cuore non posso pensare che questo avvenga prima, altrimenti vorrebbe dire che sono arrivata già a destinazione (anche se detta così è un pò forzata: non credo si arrivi mai a destinazione…per fortuna!). Sarebbe una contraddizione i termini.
Ma in realtà secondo me non lo è, non per come la vedo io.
Credo che la costruzione di qualcosa di bello da condividere sia un processo lungo, che contiene momenti, esperienze e fasi differenti.
Anche l’apertura del cuore è un processo lungo e penso che possa avvenire anche insieme a qualcuno.
Intendo dire che non credo sia necesario prima aprire il cuore e poi iniziare o tentare di vivere un’esperienza comune in cui ci sia reale crescita e condivisione. Credo che, a seconda delle esperienze e delle persone, sia possibile, anche se non è una regola, contemporaneamente viaggiare, costruire, vivere, aprire sempre un pò di più il cuore.
Non penso che necessariamente chi mi accompagnerà in questo viaggio, se ci sarà, dovrà poi staccarsi da me una volta arrivata alla meta.
Non credo nemmeno che sia quello che intendessi dire tu in verità, solo che le tue riflessioni amplificano le mie, mi inducono ad allargare il mio pensiero e a definirlo meglio secondo il mio sentire.

Chiaramente, se invece il mio viaggio è inteso come la strada che mi conduce ad essere in grado di “iniziare a riaprirmi di nuovo verso qualcuno concretamente” (la mia difficoltà attuale) va da sé che prima di quel momento probabilmente non ci riuscirò. Ma in questo caso non ci sarà nessuno ad accompagnarmi in quel particolare tratto.
L’unico modo di affrontare questo pezzo di strada è forse quello di accettare che sia così, comprendendo che non lo sarà per sempre.

Sto in effetti lavorando per arrivare a dischiudere il cuore, e per fare questo devo scomodare momenti e vissuti passati, quelli che hanno concorso o causato la chiusura ermetica.
Credo di essere sulla strada giusta, solo che ogni tanto emergono un po’ di insofferenza e frustrazione. Questo è uno di quei momenti e quando accade mi succede di provare un po’ di irrequietezza, che mi depista un po’ dall’assaporare il momento che ora mi appartiene.

Per quanto riguarda uno degli atteggiamenti che possono inficiare l’apprezzamento del viaggio della propria vita, forse quella che tu chiami possessività è ciò che io chiamo “attaccamento”.
E’ vero che quando questo è un modello comportamentale eccessivo è senz’altro invalidante per quanto riguarda accettazione, serenità e crescita; ma in generale credo che questa sia una tendenza che appartiene al genere umano e che non può essere eliminata del tutto.
Un conto è la dipendenza, un altro è l’attaccamento alle cose terrene del genere umano.
Se un compagno mi tiene la mano durante un viaggio, qualsiasi esso sia, non voglio e non potrei illudermi che al momento del distacco, se ci sarà, rimarrò inerme.
Se avrò costruito alla base una mia personalità salda, saprò fronteggiare il momento, ma ci sarà sempre una certa resistenza nel lasciare andare. Ed una certa fatica, in quel frangente, ad apprezzare il viaggio in sé, anche se concepito come un disegno più ampio e costruttivo.
Credo che questo atteggiamento, con i dovuti limiti, faccia parte della natura umana e non potrà mai essere superato in modo totale.

Ti ringrazio per le tue riflessioni Robedamatti, sono molto utili per me, anche quando non le comprendo in pieno
Mi forniscono spunti ed emozioni importanti e mi fanno sentire compresa.
Un abbraccio grande
Yana

Ciao Yana

io credo che ci si debba intendere sulla parola costruire.
Penso che sia senz’altro necessario costruire qualcosa durante il viaggio ma non è senz’altro qualcosa di immobile, di stazionario perchè altrimenti ti impedirebbe di proseguire. Al limite puoi accamparti temporaneamente o decidere di passare un pò di tempo in un luogo per scoprire qualcosa di importante , per riposare un pò o semplicemente per godere dell’attimo.
Quello che devi sicuramente costruire è la capacità di relazionarti e di entrare in intimità. In questo senso il cavallo può essere lo strumento attraverso il quale puoi arrivare a destinazione più completa, arricchita di una parte di te che stavi cercando.
Per imparare ciò non puoi isolarti e decidere di viagiare sempre sola perchè ti mancherebbe l’opportunità di comprendere ciò che ti serve.

Sento che forse c’è un pò di timore dell’eventuale distacco con un compagno fedele di viaggio con il quale magari hai costruito una relazione importante una volta raggiunta la meta.
Quello che penso io nella maniera più profonda è descritto nella parte finale della precedente risposta.

Grazie a te di permettermi di fare ogni tanto il punto della situazione perchè ciò che vivi riguarda anche me
Un abbraccio

Robedamatti

Ciao Robedamatti,
allora: costruire..
Penso possa voler dire molte cose, o meglio, il significato è sempre lo stesso, ma si possono costruire un’infinità di cose.

Sono d’accordo con ciò che intendi tu, nel senso che se costruisco qualcosa all’interno del mio viaggio, questo non è detto che duri per sempre, e non solamente restando nel campo delle relazioni, ma in generale. Durerà per sempre perchè diverrà parte del mio bagaglio interiore e mi formerà, ma potrebbe anche prendere un’altra direzione, che non sia necessariamente parallela alla prosecuzione della mia vita.

Ma io penso anche che questo non si possa stabilire o conoscere a priori: magari inizio a costruire qualcosa che nel tempo si evolverà e che prenderà le sembianze di quello che cerco.
(A parte che, nel mio sentire, tutto si evolve, le relazioni non sono mai stabili).
Un pò come avere a disposizione solo il materiale per costruire una casa dalle fondamenta, ma non avere il resto per farla crescere, addobbarla, renderla non solo una casa, ma una casa “viva”, personalizzata, tutta tua e davvero calda.
Può essere che quando si avrà la possibilità di acquisire tutto ciò che la renderà tale si deciderà di cambiare appartamento, magari perchè alcuni mobili su misura per noi saranno troppo grandi o troppo piccoli per la casa stessa; come può essere benissimo che i nuovi mobili ed i nuovi colori, con le nuove forme, sostituiranno i vecchi e completeranno la casa, donandole una dimensione diversa.
Ho cambiato metafora, , tanto per variare un pò, e poi perchè sono appassionata di case ed arredamento

Secondo me tutto dipende dalla misura in cui si cresce insieme e da quanto questa evoluzione continui ad incastrarsi con quella dell’altro.

” Quello che devi sicuramente costruire è la capacità di relazionarti e di entrare in intimità. In questo senso il cavallo può essere lo strumento attraverso il quale puoi arrivare a destinazione più completa, arricchita di una parte di te che stavi cercando. 
Per imparare ciò non puoi isolarti e decidere di viagiare sempre sola perchè ti mancherebbe l’opportunità di comprendere ciò che ti serve ” 
Sì, sono assolutamente d’accordo. Mi sono davvero isolata per un certo periodo, e questo mi ha fatta allarmare esattamente come quando, al contrario, non riuscivo a stare da sola.
L’isolamento e la totale dipendenza dagli altri sono due facce della stessa medaglia, senza contare che molto spesso isolarsi può significare “paura di dipendere”.

” Sento che forse c’è un pò di timore dell’eventuale distacco con un compagno fedele di viaggio con il quale magari hai costruito una relazione importante una volta raggiunta la meta ”
La paura dell’abbandono è sempre stata in cima tra le mie preferenze
E’ senz’altro diminuita, perchè sono riuscita ad eleborare alcuni abbandoni molto forti per me, accettando e vivendo la solitudine e la perdizione che ne sono conseguite, ma chiaramente è un timore molto radicato da tenere sempre sott’occhio.
L’attaccamento che descrivevo io, però, era inteso in senso più ampio. Non mi voglio illudere, perchè non ci credo, che ridimensionare la paura dell’abbandono si traduca nel non soffrire durante la sua sperimentazione. Non sarebbe umano ed io neppure voglio diventare così.
Ho imparato fino a qui a gestire il distacco in maniera più matura e serena, ma so che genera comunque sofferenza e non potrebbe essere differente.
Il “lasciare andare” di cui parli, era una cosa per me impossibile fino a qualche anno fa. Mi riempiva di rabbia e mi destabilizzava in maniera quasi insostenibile. Non lo accettavo.
Poi, affrontando la cosa di petto, ho imparato a farlo. Ho imparato che è anche una cosa bellissima e che se vogliamo vivere in libertà, dobbiamo accettare che anche gli altri lo facciano.
Peraltro, lasciare andare significa rendere liberi anche noi stessi e progredire sul nostro cammino in modo naturale e, molto spesso, permette di acquisire e non di perdere.

Alcune persone che ho accettato di lasciare andare, oggi scelgono di starmi vicine e questa è stata una conquista enorme per me, anche perchè è avvenuta spontaneamente e senza forzature.
Questi sono i rapporti più veri che ho.

Un abbraccio
Yana

Ciao Yana
leggo che il tema del distacco è molto importante per te e vorrei dirti come la penso io su questo argomento.
Credo che esistano delle dinamiche che sono presenti in maniera assolutamente naturale in tutti gli esseri sociali.
I miei maestri sono stati i cavalli, gli esseri che meglio conosco e vorrei offrirti il loro punto di vista(anche per cambiare).
Se osservi attentamente un branco di cavalli noterai che il “distacco” è un elemento fondamentale per la crescita, per la formazione e l’indipendenza sia del singolo che dell’intera comunità.
Il distacco è sempre un gesto d’amore . E’ vero che può creare una momentanea sofferenza , ma in natura ogni distacco è finalizzato ad un bene. Ogni tanto succede che qualcuno venga sacrificato ma sempre per un bene superiore.
In natura lo sviluppo delle potenzialità del singolo e della comunità vanno di pari passo e il distacco è uno degli strumenti principali con cui questo avviene.
La madre accudisce il puledro nutrendolo , proteggendolo e trasmettendolgli le competenze specie-specifiche ma la più grande dimostrazione di forza,maturità ed amore la dà quando insegna al suo piccolo a distaccarsi da ciò che non è più indispensabile per crescere più forte e seguire il suo destino,qualunque esso sia.
Il distacco in natura ha una funzione altamente formativa e credo sia fra le prime competenze che vengano trasmesse e rinforzate.
Chiedere aiuto solo nel reale bisogno permette di crescere meglio,prima e permette anche al singolo di diventare un valore aggiunto per il branco piuttosto che un peso.
Il distacco o meglio l’isolamento viene utilizzato sia dalla madre che dal branco come forma estrema di punizione quando non si dimostra di meritare la convivenza all’interno della famiglia o del gruppo.
Il cavallo vive solo in questo momento il senso di abbandono che diventa per lui la situazione più terrificante che possa provare.
Ma anche in questo caso l’allontanamento è sempre e solo conseguenza di un comportamento sbagliato del quale il reo subito capisce la gravità.
Le porte non vengono mai chiuse definitivamente perchè al primo vero segnale di pentimento e di comprensione dell’errore che avrebbe potuto mettere a repentaglio gli equilibri,e quindi la sicurezza, del gruppo,il soggetto viene riammesso nel branco senza rancore e con tanto amore.
Tutti i cavalli in natura tifano per i loro simili perchè ognuno di loro sviluppando al massimo le sue potenzialità e imprarando a condividere le regole del gruppo ,diventa la vera forza del branco.
Tutti potranno usufruire di tale forza: non può esserci invidia.

Non vorrei dilungarmi perchè so che la mia passione non può essere codivisa da tutti ma volevo solo dirti che il modo di vivere e definire il distacco e l’abbandono nei termini che noi conosciamo sono frutto della mente bacata dell’uomo: in altre specie presenti da 5 milioni di anni tutto ciò non esiste.
Ancora una volta l’uomo è riuscito a complicare ciò che è estremamente naturale ed essenziale.

Un abbraccio

Robedamatti

Che bella discussione! Riappaio dopo molto tempo ( molti non mi conoscono) in questa discussione che mi “prende” moltissimo e mi ci butto in mezzo 🙂
Il tema dell’intimità e dell’abbandono! Mi sento così coinvolta anche io che non posso stare solo a leggere ….
Il tema dell’intimità: anche io come te, Yana, provo molte cose in comune. Anche io ho provato molte strategie che sono diventate arte ( come accennavi nei primi interventi) , per evitare la vera intimità e il vero coinvolgimento emotivo. Ho sempre voluto amare senza mai perdere il controllo e così anche io mi sono ritrovata a sperimentare molte situazioni di cui tu parli. Fino a giungere alla consapevolezza che questo non era l’amore a cui io volevo arrivare davvero.. storie complesse, che mi hanno dato molto ma che non mi hanno portato all’amore che avrei desiderato nei miei sogni, che non hanno riempito il mio cuore di amore ma piuttosto di lacrime. Anche io , come te, mi trovo in una fase in cui ho subito la frustrazione di voler costruire qualcosa, di avere la consapevolezza di avere molto da dare ma di non riuscire a trovare un corrispettivo. Penso anche io che se non troviamo il corrispettivo è perché non abbiamo ancora aperto la porta del cuore.. Io non ho ricette ma credo di “sentire” che la giusta via ( e forse posso parlare solo per me perché ognuno ha il suo cammino) è affidarsi alla vita senza aspettative, senza desideri. Affidarsi al mare della vita che ci porterà le esperienze necessarie che, se sapremo coglierle mettendo da parte la paura, e viverle, riempiranno le nostre lacune e ci renderanno più forti e ci permetteranno di aprire il nostro cuore un giorno. Tu sai che è più di anno che ho intrapreso un viaggio dentro di me che mi ha portata e mi sta portando molto oltre quella persona che ero ( almeno.. questo è quello che vorrei e che percepisco di me) .. molta strada ho da percorrere, molte cose sono accadute.. sono dell’idea che la consapevolezza e il nostro lavoro consapevole sia importante ma che questo debba essere unito all’accettazione delle esperienze come parte del nostro cammino eliminando la frustrazione. Ogni piccola esperienza, se vissuta nel modo giusto, è un passetto in più verso noi stessi. Darsi tempo ed accettarsi è fondamentale, nella mia esperienza. Ovviamente questa è la teoria mentre nella pratica di tutti i giorni non credo sia possibile talvolta non provare aspettative e frustrazioni..siamo umani! E ben venga la nostra umanità!
Sull’abbandono e il distacco…. Mai tema più attuale per me in questo momento, purtroppo! Sono molto in linea con quanto dice robedamatti quando fa i suoi esempi parlando di cavalli. Personalmente ho sempre pensato che dovremmo imparare molto dagli animali.. vedi i figli, ad esempio! Esistono delle regole che sono naturali ed essenziali per la crescita dell’essere vivente…. Ma l’uomo è diverso. Gli animali accettano di crescere i loro figli fintanto che non sono indipendenti e poi li allontanano: l’uomo non ne è capace ( in genere).. gli animali accettano la morte e gli abbandoni come parte della vita.. oserei dire che anche l’uomo sa fare questo.. dipende dalle culture! Più l’uomo pensa di essere evoluto e più si allontana dalle leggi naturali della vita, più soffre e diventa disumano ( vedi quando per non distaccarsi si attua l’accanimento terapeutico). Inoltre vorrei dire un’altra cosa che mi è stata detta pochissimo tempo fa e mi ha fatto riflettere: l’uomo, comunque, con tutto il rispetto che si possa portare ad ogni essere vivente ( e io rispetto perfino le pietre!) penso sia più complesso.. le nostre relazioni sono basate su regole diverse di quelle degli animali. Loro seguono regole naturali ma non hanno un sistema di comunicazione come il nostro, non hanno emozioni come le nostre . Il nostro piano relazionale è diverso e quindi credo sia anche ovvio che l’uomo sia portato a complicare ogni cosa e debba “faticare” di più per trovare un equilibrio che per un animale è naturale. E probabilmente se questo avviene ci sarà un motivo… detto ciò sono anche io dell’idea che gli abbandoni siano tappe fondamentali della nostra vita che ci fanno crescere.. ma sono tappe molto pesanti per un essere umano e in anche in questo c’è la nostra umanità.
ciao
Gio62

Eccomi Robedamatti,
grazie ancora per la tua riflessione, che ho trovato molto interessante ed altamente costruttuva.
Credo invece che questa tua passione possa appassionare e che comunque offra degli ottimi spunti, non vedo perchè mortificarla!

Oltretutto ognuno di noi esprime al meglio ciò che sente e ciò che ha con il linguaggio che più sente suo.

Condivido in pieno tutta la tua riflessione sul distacco e non c’è cosa più vera del fatto che esso sia uno strumento importantissimo, nonchè parte integrante della natura, per la crescita e l’acquisizione dell’autonomia.
Però una cosa è il distacco costruttivo, un’altra è, per esempio, l’abbandono.
Non parlo di fatti relativi ai rapporti sentimentali, ma dei concetti e delle sensazioni a cui si riferiscono simbolicamente, al significato da noi esperito nel momento in cui ci è stato insegnato cosa comportano in termini emotivi.

Come dici tu, e come c’insegnano i cavalli e moltissime specie animali, il distacco è costruttivo, oserei dire indispensabile per la crescita di un individuo.
E qui hai centrato un punto importante che si collega alla mia vita ed al mio relazionarmi: non mi è stato inculcato il distacco con significato di crescita e benessere, maturazione ed autonomia, e questo perchè chi mi accudiva ne aveva il terrore: la paura dei distacchi a causa di vissuti propri ha limitato la conquista della mia indipendenza.
Nella mia famiglia qualcuno aveva il terrore di perdermi e, inconsciamente, mi ha allevata addestrandomi all’attaccamento, prima di tutto verso di sè, in modo da stringere silenziosamente un patto con me: quello secondo cui avrei attuato ogni possibile strategia pur di rispettare questo imperativo. Pur di rimanere dipendente anche crescendo anagraficamente.
In questo modo sono diventata affettivamente dipendente, prima di tutto nei confronti dei miei genitori.

Il problema sta nel fatto che se il distacco non è tramandato in maniera costruttiva, pedagogicamente è un errore drammatico.
Ci si trova così di fronte alla costruzione di una personalità fragile che non riesce ad affermare la sua autonomia, cosa che in verità è tra i primi diritti fondamentali di tutti gli uomini. Ma non è una cosa che si trova per strada, è una facoltà che va di pari passo, nella natura umana, alla costruzione del legame affettivo, sempre molto forte, con chi ci accudisce. Dipende da esso.

Il fatto è che l’uomo è molto più complesso degli altri animali e spesso agisce per paure che si rifanno a questa complessità.
Ma le nostre paure fanno parte della natura umana e secondo me l’unico atteggiamento da tenere è come sempre quello dell’accettazione.
(peraltro la paura dell’abbandono esiste anche negli animali, se esperita, e può essere anche per loro estremamente invalidante).

Per molte cose la nostra natura è animalesca ed è anche questo il suo fascino; ma d’altronde gli animali praticano ciò che noi chiamiamo incesto, quindi, secondo me, è vero che noi abbiamo spesso moltissimo da imparare dagli animali, ma il nostro modo di significare molte cose è differente.
Perchè i nostri legami, per moltissimi versi, sono differenti.
(mi scuso per aver abbreviato un argomento così complesso e delicato)

Sono comunque assolutamente sulla tua linea quando affermi che il distacco è altamente formativo e che costituisce un gesto d’amore.
Condivido nel modo più assoluto e questo dovrebbe essere uno degli insegnamenti più importanti da fornire quando si cresce qualcuno. Questo è ciò che ho imparato io.
Ma ho imparato anche che se non ti è stata fornita questa stessa risorsa, tu stesso sei dipendente e ti sai nutrire solamente attraverso la dipendenza. E’ difficile tramandare il significato formativo di un distacco se nessuno lo ha fatto con te e se non ne sei consapevole.

Io, che ne sono consapevole, voglio continuare su questa strada per conquistare su tutti i fronti la mia libertà.
Grazie ancora Robedamatti,
grazie per questo confronto
Yana

Ciao,

So che avete capito cosa intendessi dire e le vostre risposte lo dimostrano.
Io parlo sempre e solo delle mie sperienze e diciò che le stesse hanno significato per me.
Ho scoperto ,attraverso i cavalli ,che la relazione e l’intimità potevano concretizzarsi soltanto attraverso la verità che è il risultato di quello che si è in quel preciso istante (nel bene e nel male).
Verità nel senso di spogliarsi delle proprie maschere e strategie per mostrarsi nudi e crudi per quello che si è.
C’è molto rispetto verso coloro che hanno il coraggio di mostrare il fianco , la loro vulnerabilità, le loro paure perchè sono dimostrazioni di consapevolezza dei propri limiti ma è anche dimostrazione di grande coraggio perchè si è pronti a correre qualche rischio pur di instaurare una relazione. Il coraggio di osare con intenzioni ben riconoscibili senza finalità diverse da quelle che si palesano permette spesso l’abbassarsi di certe difese.
Detto ciò il mio vero problema con l’intimità lo associo alla sessualità.
In questo i cavalli sicuramente non possono essermi di aiuto.
Loro mi hanno permesso di scremare il mio atteggiamento da tutte quelle misere strategie che servivano a nascondere il nocciolo del problema.
Ciò su cui tanto puntavo era il vero tormento che mi portavo dentro.
Una parte di me rifiutava il sesso come intimità, come scambio d’amore.
Una parte di me non accettava di poter essere come coloro che usano il sesso per attuare le peggiori violenze.
Allora si è creata una frattura fra la mia parte istintiva che chiedeva soddisfazione, la mia componente emotiva che poteva accettare il sesso solo nella misura del piacere altrui, la mia componente razionale che andava alla ricerca della assoluta approvazione.
Conclusione:non sono mai riuscito ad entrare in uno stato di intimità vero nel momento in cui si avvicinava l’atto sessuale.
Non avevo mai pensato di avere questo tipo di problema anche perchè era un pò il mio cavallo di battaglia l’intesa sessuale.
Ma capivo sempre più nel tempo che l’affannosa ricerca dell’intesa non avesse niente a che fare con l’intimità.
Ora credo di aver individuato le cause profonde del mio malessere interiore,credo di sapere quale sia la mia meta ma ancora non so se mai riuscirò a giungere a destinazione. Lo saprò solo in futuro se avrò il coraggio di ricominciare come un adolescente che non sa o non ha capito niente dell’intimità sessuale.
Ho vissuto ultimamente delle storie che mi hanno permesso di capire che sò individuare la non intimità e che il sesso senza intimità proprio non mi interessa più.
Vorrei un giorno riuscire a stare con una donna regalandomi e regalandole anche il mio piacere senza sentirmi parte di quel genere maschile che usa il sesso per scaricare la propria aggressività o per trarre piacere a discapito di qualcun altro.

Un abbraccio a tutte
Confido

Robedamatti

Carissimo Robedamatti,
il tuo post mi ha toccata molto.

Mi sono ritrovata in molte delle cose che hai scritto.
Come te ho sempre pensato che l’intesa sessuale fosse un mio punto di forza, e forse in realtà lo era, nel senso che lo era appunto lo scambio sessuale, che però non aveva nulla a che vedere con l’intimità.
Ma l’ho scoperto solo tempo fa.
E’ difficile comprenderne per me le cause precise, è un aspetto delicato su cui sto lavorando adesso, ma, almeno in parte, è sicuramente associato alla paura dell’intimità di mia madre e più in generale dei miei genitori.

Questo aspetto ha complicato enormemente le mie relazioni, senza che io me nerendessi conto, e ancora adesso non è semplice spiegarmi.

Confondevo la libertà sessuale e l’intesa che ne scaturiva con l’amore, con l’intimità vera e totale, ma quando la fase iniziale della passione scemava (perchè evidentemente non sorretta da uno scambio davvero saldo), o quando l’altro tentava di entrare emotivamente più in profondità, sebbene fosse ciò che desiderassi, qualcosa scattava, come ho accennato qualche post fa.
Scattava perchè non potevo far coincidere dentro di me la parte istintiva con quella emotiva, non ero in grado di donare davvero me stessa attraverso la parte fisica. Era come se, in un certo senso, estremizzando una dinamicha che certamente non è stata così schematica ma piena di sfumature, una parte dovesse per forza escludere l’altra.
Altrimenti entravo in crisi.
Infatti le mie storie più disturbate erano perfette da un punto di vista sessuale e passionale, cosa che mi confondeva molto sulla loro “non funzionalità”.

Paradossalemente invece, la mia storia più lunga ed in cui credo di essere stata maggiormante rispettata e desiderata in modo totale, non funzionava sul lato fisico. C’era qualciosa che mi bloccava, che io non potevo accettare totalmente.

Tutte queste considerazioni mi erano impossibili allora, perchè nelle mie relazioni io costruivo inconsciamente il mio mondo emotivo e percettivo attraverso le scosse passionali, intese non solo come sesso, ma come emozioni forti in generale. “Meglio” ancora se l’altro aveva come me una difficoltà a lasciarsi andare, o qualche problema legato all’affettività ed all’intimità. In quel caso eravamo fatti “l’uno per l’altra”!
Questo probabilmente accadeva per poter equilibrare il mio handicap in fatto di intimità autentica profonda e per la paura che avevo di colmare questa lacuna perchè mi faceva sentire in colpa.
Ma avevo bisogno di sentirmi viva nonostante una parte importante di me fosse stata messa a tacere, e di esprimermi, ed ho trovato il mio modo perfetto di farlo.
Il tutto ovviamente in maniera assolutamente inconsapevole.
Io credevo davvero di donarmi e di ricevere in maniera completa ed intima.

Ti abbraccio
Yana

Ciao a tutti,

ho letto finalmente per intero tutto questo thread: veramente ricco di spunti riflessioni molto importanti.

Per quanto mi riguarda non avevo mai considerato di avere paura dell’intimità, ma credo, come è successo a Yana, che sia una mia paura tanto profonda, che soltanto ora riesco a percepirne lievemente il profilo in penombra.

Sono innamorata di una persona che si comporta in modo ambiguo: da un lato mi cerca, dall’altro si allontana infastidito a ogni mio tentativo di affetto, che sia un semplice bacio o una carezza al di fuori del sesso, perché a suo parere si tratta di gesti “intimi” che presuppongono un rapporto d’ “amore”. Ho sempre sofferto molto di questo suo comportamento, ma attualmente quel che mi sembra di percepire è solo una gran paura di intimità, di non lasciarsi in qualche modo “scoperto” su tutti i fronti. Questo è ciò che mi dico, perché se è vero che non mi ama, ed è quindi ovvio che lo infastidiscano particolare effusioni amorevoli, è anche vero che sono due anni quasi che va avanti questa pseudo-relazione.

Sono partita dal parlare del suo comportamento perché in relazione alla sua “freddezza” io mi sono sempre pensata come una ragazza pronta a donarsi completamente e a lasciar brillare le parti più intime di sé in una relazione sentimentale. Oggi ho capito che sbagliavo. Prima di tutto il mio essere molto affettuosa, al di là del fatto che sia di per sé qualcosa di bello, nel mio caso nasconde tutta una serie di problematiche e lacune affettive di vario tipo. Un amore non corrisposto mi permette/permetteva di continuare a vedermi in questo modo: semplice, trasperente, cristallina e capace di dare e ricevere amore in modo sano. No, non è così. Ho avuto una relazione sana durata a lungo, ma ripensandoci con più attenzione nel momento in cui siamo entrambi cresciuti, e forse le cose avrebbero dovuto prendere una strada di costruzione comune, mi sono allontanata e l’amore si è dissolto.

C’è un lato del mio carattere che ho sempre considerato assurdo: sono molto affettuosa solo con i miei “fidanzati” o pseudo-fidanzati. Invece il contatto fisico anche lieve o solo la vicinanza fisica di qualcuno che so essere interessato a me in qualche misura e che a me non interessa mi “infastidisce” molto. Mi infastidiscono abbracci da amiche o amici per i quali non provo attrazione fisica. Inoltre sono sempre stata molto fredda anche con i miei genitori, per cui spesso erano loro, anche quando ero più piccola, a cercare di abbracciarmi mentre io mi scansavo, un po’ come fa S. adesso con me…

Mi fermo qui perché ci sto ancora riflettendo, e/o forse ho anche un po’ paura a rifletterci, perché sento che c’è un nodo importante dietro questo mio atteggiamento.

Mi è piaciuto anche il fatto che si sia preso ad esempio il mondo animale. Nell’ultimo mese sono riuscita a “curare” una gattina di appena un mese: aveva pochissime speranze di riprendersi e invece ce l’ha fatta. Prendermi cura di lei mi ha fatto bene e continua a farmi bene. Nel guardare gli occhi sofferenti e spenti di quel piccolo animale mi sono resa conto di quanto noi esseri viventi, al di là della specie, siamo accumunati: quello era lo stesso sguardo di mia madre l’ultimo giorno in cui è stata a casa. Sembrerà assurdo forse, ma è stato un modo per cominciare ad elaborare il lutto di mia madre, perché è un miscuglio così denso di dolori che spesso non riesce ad uscire.

Forse ho scritto in modo confuso, ma è un argomento che non ho chiaro né razionalmente né emotivamente.

Vi mando un sorriso,
Elegys

Buongiorno Elegys!

” C’è un lato del mio carattere che ho sempre considerato assurdo: sono molto affettuosa solo con i miei “fidanzati” o pseudo-fidanzati. Invece il contatto fisico anche lieve o solo la vicinanza fisica di qualcuno che so essere interessato a me in qualche misura e che a me non interessa mi “infastidisce” molto. Mi infastidiscono abbracci da amiche o amici per i quali non provo attrazione fisica. Inoltre sono sempre stata molto fredda anche con i miei genitori, per cui spesso erano loro, anche quando ero più piccola, a cercare di abbracciarmi mentre io mi scansavo ” (Elegys)

Ecco, mi hai descrtitta!
Queste caratteristiche mi appartengono ed in effetti sono molto legate alla resistenza nel lasciarsi andare.
Evidentemente c’è stato qualcosa nel momento di costruzione d’identità che ha frenato l’ espandersi con naturalità.
Non dico che non bisogna creare e proteggere i propri confini, ma se si innalza un muro troppo alto e resistente, questo poi va ad intaccare anche le sfere che sono collegate alle sensazioni d’amore (inteso in senso lato..infatti si parla di anche di amici, genitori ecc..).

Mi ha colpita la frase sui tuoi genitori che ti cercavano e che tu scansavi, perchè questo è l’emblema del paradosso del rapporto genitoriale: sono proprio loro che ci educano a relazionarci ed il nostro modo di farlo è legato ai loro insegnamenti (consapevoli o meno), ma molto spesso da adulti (e non solo!) si confondono la causa con l’effetto. Ad esempio mia madre dall’adolescenza in poi ha spesso rimarcato questa mia tendenza a distanziarmi fisicamente, percependola semplicemente come una caratteristica del mio carattere “naturale”.
Lo capisco, è più o meno nella norma, se non si è a stretto contatto con le dinamiche descritte dalla psicologia, guardare gli atteggiamenti attraverso questa lente “distorta”. Tanto che anche io ho sempre pensato che questo mio modo di essere (che non ha nulla di “male” in sè, per carità) appartenesse solo a me, finchè poi non ho iniziato a guardare la vita e le relazioni sotto diversi aspetti, più consapevoli.

Oggi è emerso in modo feroce quanto questa mia chiusura affettiva sia legata strettamente a mia madre, sia per quanto riguarda il modello affettivo da lei propostomi, sia per quanto riguarda precise dinamiche che coinvolgono lei, mio padre e addiritttura mia sorella.
A volte i genitori non sono consapevoli di quanto stanno tramandando ai loro figli, e di quanto questi siano dipendenti da loro sotto l’aspetto relazionale.
Il modo di essere dei figli è l’effetto di due dinamiche molto determinanti nella strutturazione di un essere umano: l’imitazione e la reazione (ad altre dinamiche, modi di essere, atteggiamenti ecc..)

La questione sul mondo animale e sulle analogie e le differenze tra noi esseri umani e le altre specie è molto legata a questo aspetto.
C’è una grossa differenza che traccia una linea molto netta tra il nostro mondo ed il loro: a livello relazionale gli altri animali non sono così dipendenti da chi indica loro la strada.
Questo ha a che fare con il dna.
Nel loro, ci sono inscritti i codici necessari per muoversi nel mondo, mentre noi, per farlo, abbiamo bisogno di guide.
Se un gattino cucciolo viene lasciato da solo in una foresta, e non è ferito gravemente, riuscirà a sopravvivere e poi ad imparare quanto gli serve per vivere; un essere umano no.
Questo perchè gli animali si possono rifare all’istinto, mentre il nostro, biologicamente, non contiene informazioni tanto preziose.

L’essere umano impara quanto gli serve per vivere e sopravvivere attraverso l’interazione con gli altri -che per lui sono affettivamente significativi- (imitazione e reazione), quindi attraverso il suo “relazionarsi”, perchè il suo cervello non contiene alla nascita le informazioni necessarie per muoversi nel mondo, com invece accade alle altre specie.
Ecco perchè i nostri atteggiamenti e le nostre percezioni derivano direttamente da chi ci ha accuditi da piccoli e diventano poi quello che è il nostro personale ed automatizzato modo di vedere e vivere la vita.
Chiaramente non c’è nulla di male in questo, è la nostra natura, il nostro metodo di apprendimento, e sarebbe anche molto triste, secondo me, se tutti crescessimo indistinti, con le stesse prospettive e i medesimi atteggiamenti.

I “problemi”, secondo me, sorgono quando alcuni modi di vivere o di percepire il mondo non ci rendono giustizia e arrecano dolore ed insoddisfazione a noi stessi o agli altri.
E’ qui che c’è la possibilità, se si vuole, di “reinventarsi” in un certo senso, con la consapevolezza che certamente gran parte della nostra personalità è già formata e che è proprio da lì che si può partire. Imparando ad accettarla ed a convertire alcuni limiti in virtù.
A volte, per trasformare un problema in una caratteristica, basta solo accoglierla ed accettarla come tale, perchè molto spesso è il giudizio negativo (implicito od esplicito) dei nostri genitori che ci ha fatto percepire negativamente un modo di essere che ci appartiene, portandoci a reprimerlo ed a viverne sulla nostra pelle poi le conseguenze.

Le paure che ci accompagnano e che, aldilà di quelle comuni ed appartenenti alla “condizione umana”, sono differenti sia per tipologia che per intensità a seconda delle persone, non sono altro che paure apprese o reazioni a situazioni che noi abbiamo percepito come “allarmanti”.
Sono queste paure che stanno alla base dei nostri atteggiamenti di difesa, e che, quando sono eccessivi od inopportuni, ottengono l’effetto contrario, ovvero ci espongono alla sofferenza anzichè proteggerci.

Scusate se mi sono dilungata ancora sull’aspetto istinto animale/umano, ma trovo l’argomento molto affascinate ed interessante.

Un abbraccio a tutti.
Grazie ancora per gli interventi e i diversi spunti di riflessione che per me sono molto utili,
Yana

Cara Yana e cari tutti,
come al solito, mi inserisco in una discussione già matura, rischiando di dire cose già dette più volte da altri. Ma il tema è così importante, anche per me, che qualche parola sento di poterla spendere anch’io. Per me la mancanza di contatto fisico è forse l’aspetto che più di ogni altro ha condizionato tutta la mia vita, da quando ero neonato fino ad oggi. Ho imparato che “le persone non si toccano” fin da piccolissimo, e ricordo in modo chiarissimo un episodio di quando avevo tre anni, quando mia madre mi punì perché, per gioco, mi ero permesso di toccarle il seno. Da allora non l’ho mai più toccata e non le ho mai permesso di toccarmi, di guardarmi negli occhi o anche solo avvicinarsi a me. I bambini sanno essere di una crudeltà inaudita… e con mia madre io sono stato davvero crudele.
Inutile dire che anche con tutte le altre donne il mio comportamento è simile: se anche solo sfioro per sbaglio una ragazza, subito scatta la vocina interiore che mi dice: “maiale! la stai violentando!”.
Anni fa ho partecipato a un corso di evoluzione personale di gruppo, e il trainer, quando raccontai il mio problema, mi diede un compito molto speciale: per quattro giorni (tutta la durata del corso) avrei dovuto abbracciare continuamente le ragazze presenti. Inizialmente fu una tortura, ma dopo le prime incertezze, vedendo che loro erano ben disposte ad aiutarmi a “fare i compiti”, ci presi la mano (anzi, le braccia!) e mi piacque da matti! Per quattro giorni mi sentii veramente in Paradiso. Da allora qualcosa si è sbloccato e ora riesco a stabilire qualche contatto fisico senza troppi traumi, ma devo ancora convivere con quelle vocine accusatorie. Di strada da percorrere ne ho ancora tantissima.
Quello che più mi ha sorpreso leggendo questo thread è che spesso si parla di sessualità separandola dall’intimità vera. Io ho invece sempre pensato che l’unione sessuale fosse l’apoteosi dell’intimità tra uomo e donna. Non ho mai conosciuto il sesso (ebbene sì, sono un raro caso di maschio adulto vergine), ma ho sempre pensato che quell’emozione stupenda che provo quando ho un’occasione di contatto fisico con una ragazza fosse solo un assaggio dell’emozione che dà l’unione sessuale. Di certo posso dire che, per quanto mi riguarda, piacere sessuale ed intimità affettiva sono strettamente legati: se una bella ragazza mi abbraccia io provo entrambi, e li percepisco come due aspetti della stessa realtà, entrambi meravigliosi. Naturalmente, la mia è solo l’esperienza di un ignorante (di sesso e di affetti). Spero comunque di aver dato un contributo “originale” a questo thread.
Un abbraccio a tutte/i
Davjde

Ciao Davide,
grazie per essere intervenuto in questa discussione per me così importante.
Mi ha colpito ciò che hai scritto.
Le tue “vocine interiori accusatorie”, che hai già cominciato a combattere (complimenti per il percorso intrapreso!), si fanno sentire quando affermi che “i bambini sanno essere di una crudeltà inaudita” in riferimento al rapporto con tua madre.
Non voglio colpevolizzare tua madre, anche perchè, senza neppure incappare nell’estrema giustificazione, se ha assunto un atteggiamento così rigido e distante nei tuoi confronti, punendoti per avere espresso il tuo umano e naturale attaccamento materno di bambino, di certo questo deve avere delle origini. Che probabilmente hanno a che fare con l’intimità.
In ogni caso la responsabilità del messaggio che ti ha inviato e fatto interiorizzare, anche se fatto in buona fede, è sua e io non sono d’accordo sulla crudeltà dei bambini: essi rispondono per legittima difesa ed attraverso le poche risorse che hanno a disposizione, che sono quelle che conoscono e che apprendono attraverso i loro stessi genitori.
Anche io ho vissuto un disagio anche di tipo fisico con mia madre, che ancora oggi mi condiziona nel rapporto con lei, anche se si è manifestato in maniera differente dall’ esperienza che racconti qui.

Parli del rapporto tra sesso ed intimità.
Hai ragione quando dici che le due sfere sono strettamente collegate, difatti una condiziona l’altra.
Quando parlavo della loro scissione, mi riferivo al fatto che, parlando ad esempio del mio caso, se una persona contiene nel profondo la paura dell’intimità (magari nascosta, come nel mio caso per molto tempo), nel vivere l’esperienza del sesso ne è influenzata o limitata, anche senza saperlo. Non necessariamente rifiutando di viverne l’esperienza, ma anche vivendola senza in realtà concedersi emotivamente del tutto.
Nel mio caso, ed ho notato in quello di molti, qui e fuori di qui, mi sono resa conto di aver spesso confuso o fatto coincidere il sesso con l’intimità, nel senso che attraverso il sesso, anche forse per via dell’intensità delle sue sensazioni e della tipologia di coinvolgimento (fisico e molto invasivo) mi sono illusa di aver raggiunto la vera intimità, che invece probabilmente non ho mai sperimentato con un compagno.
Questo, nonostante le buone e sincere intenzioni, le convinzioni di saper amare, di sapermi condividere ed abbandonare, nonostante sentimenti ed emozioni molto forti, attrazione e quant’altro ed anche nonostante l’esperienza di una relazione lunga.
Il sesso, quando non è altro o “solo sesso”, è una delle componenti dell’intimità, o meglio ne è una delle modalità espressive e comunicative, ma da solo non costituisce intimità autentica.
Con questo non intendo dire che ho asetticamente vissuto solo esperienza di sesso, assolutamente, ci stanno mille sfumature in mezzo, anche molto intense, ma ad oggi mi sono resa conto che la condivisione reale tra due persone è cosa differente dalla passione e da ciò che ho saputo condividere, o comunque ha delle caratteristiche diverse, oserei dire “in più”, che si conquistano in tempi e modi differenti per ognuno, ma solo se c’è apertura.

Credo di avere personalmente sperimentato differenti tipi ed intensità di rapporti, ma credo anche di non essere mai andata oltre un certo punto, emotivamente, per paura e a causa di imperativi morali accusatori interiorizzati che mi hanno sempre limitata in questo senso.
Non mi hanno frenata sul alto fisico o relazionale in modo assoluto come tu racconti, ma non mi hanno comunque permesso di entrare in intimità. E quando è successo o stava per succedere ecco che suonava l’allarme e scappavo. Sono scappata in tanti modi differenti, ma sono sempre e comunque scappata.

Grazie per il tuo intervento, che fa riflettere, spero continuerai a confrontarti.

Un abbraccio Yana

Grazie a te Yana per i tuoi commenti sulla mia esperienza. Riguardo a mia madre, direi che c’è una “catena di dolore” che si tramanda dai genitori ai figli attraverso più generazioni: i miei nonni (genitori di mia madre) erano rigidissimi, rispetto a loro mia madre ha compiuto dei progressi ma non abbastanza da evitare di trasmettere a me quelle “vocine accusatorie”. Io sto cercando di compiere altri progressi e spezzare definitivamente quella catena di dolore. Se mai dovessi avere dei figli, certamente presterei un’attenzione speciale alla comunicazione affettiva, anche a livello fisico, perché ora so quanto sia importante.
Per il resto, vorrei dirti una cosa che sento leggendo i tuoi post, ma riguardo alla quale forse potresti rimproverarmi (se lo ritieni opportuno, fallo). Io penso che tu non abbia affatto il cuore chiuso. Se osservi la gente che popola le nostre città, i nostri luoghi di lavoro, di svago, di villeggiatura, ti accorgerai che la grandissima maggioranza delle persone ha il cuore molto, ma molto più chiuso del tuo. Le coppie per lo più si reggono su un compromesso, non sulla comunione dei cuori. Ciò che le tiene in piedi è un processo adattativo reciproco (del tipo tu soddisfi i miei bisogni, io soddisfo i tuoi, e andiamo avanti così). Le coppie in cui si realizza la fusione dei cuori sono davvero rare, così come sono rare le persone che hanno il cuore davvero aperto.
Tu hai condotto un’autoanalisi così serrata e approfondita da scoprire che non sei mai entrata in intimità profonda con nessuno… ma quante persone ci entrano? Dici che hai vissuto esperienze di passione, di trasporto affettivo molto potenti, ma che esse non sono ancora l’intimità piena. Ma non c’è il rischio che in questo modo tu ponga l’intimità autentica su un livello troppo alto, un livello che quasi nessun essere umano ha mai raggiunto? Forse sto dicendo solo stupidaggini, però leggendoti è questo il pensiero che mi sovviene… che tu sia troppo severa con te stessa e ti ponga un ideale troppo elevato. Scusami se mi sono sbilanciato troppo: contestami pure, se me lo merito.
Un abbraccio forte
Davjde

Ciao Yana,
ti sono molto grata per i tuoi contributi. Le tue parole hanno illuminato per un attimo il mio cammino che è spesso al buio, su strade ignote. Hai espresso benissimo ciò che sospetto da tempo..ho paura dell’intimità…Sono prigioniera di quell’infinita danza in cui se lui fa un passo indietro io posso farne uno in avanti e se viceversa lui fa un passso in avanti io devo necessariamente indietreggiare perchè è di fondamentale importanza che ci sia sempre tra me ed il mio partner quella certa distanza. Da qui la scelta di uomini sfuggenti, complessi, abbandonici, chiusi che mi garantivano LA GIUSTA DISTANZA…tutto sommato il mio specchio! Con loro mi sono sempre sentita maestra nell’amore, bravissima nel donarmi e VIVA!
Da un pò di mesi sto da sola. Tutto bene, tanta serenità ma sento che è solo un momento di riposo, che la lotta è altrove. Adesso vorrei vivermi una relazione per trasformare la danza, ma so bene che devo stare molto attenta alla scelta del cavaliere. Combatto quindi la mia forte attrazione per l’ennesimo uomo algido, combatto contro la mia voglia di fargli le moine, di farmi invitare al ballo delle emozioni, accolgo e cullo la mia bimba dentro che reclama la sua attenzione…perchè questo è un film arcinoto e ne conosco l’epilogo. E allora
perchè è ancora così forte in me la tentazione di lasciarmi andare, perchè ancora spero che stavolta le cose andranno diversamente?
Ti abbraccio
v_veronica07

Carissimi Davjde e Veronica,
grazie a voi per i vostri interventi, entrambi importanti e ricchi di verità.
Vi rispondo uno per volta.

Davide,
a parte il fatto che hai comunque il sacrosanto diritto di esprimere le tue impressioni e la tua opinione, hai centrato un punto che mi riguarda molto da vicino: IO SONO TROPPO SEVERA CON ME STESSA, sì.
Il punto è che è proprio questa rigidità rivolta a me stessa che ha creato la tendenza a mantenere le distanze..nel mio caso emotive.

Credo di capire quando parli di aspettative troppo elevate e questo in qualche modo mi riguarda, io pretendo sempre tanto da me stessa ed è uno degli aspetti che sto infatti affrontando in terapia.
Mi hai saputa leggere molto bene ed oltre le apparenze.
Sono d’accordo anche quando parli del fatto che la difficoltà nel raggiungere una vera “fusione” sia una cosa piuttosto diffusa.
In effetti, aldilà delle manifestazioni patologiche o di blocchi affettivi estremi, io sono convinta che il problema del lasciarsi andare sia quasi un vero e proprio “problema sociale”, in ogni caso molto diffuso e nello stesso tempo parecchio inconsapevole.

Si tende a dividere la normalità dalla non normalità, ma in realtà alcuni lati oscuri ce li hanno tutti, anche perchè, credo, nelle gnerazioni precedenti non era semplice nè ususale accedere a certe infomazioni riuguardo l’affettività e i suoi legami con la genitorialità.
Io credo che molte persone che vivono una vita o delle relazioni in qualche modo insoddisfacenti abbiano qualche legame con la paura di lasciarsi andare davvero, con intensità, modi ed origini differenti.
Questo perchè accettare di lasciarsi andare, e farlo in modo naturale ad un livello quantomeno sufficiente, corrisponde ad un buon livello di:
– accettazione di se stessi
– autostima
– accoglienza anche dei propri difetti o comunque della propria non perfezione
– convinzione di poter essere amati o “conosciuti in profondità”, e non necessariamente rifiutati, puniti od abbandonati, anche se si commettono degli sbagli ed anche se non si è, appunto, perfetti, e si contengono dei limiti

Le quali cose sono strettamente legate quando non addirittura sovrapponibili.
Quando non c’è una salda o sufficiente accettazione e stima di sè, concepire emotivamente di lasciarsi andare diventa ostico, se non addirittura impossibile.
Il punto è che ci sono tantissimi modi di frenare la maturazione di questi aspetti di sè da parte dei genitori, addirittura alcuni di questi nascono e pongono le basi, con i relativi effetti, durante la gravidanza, quindi individuarli è spesso difficile e colpevolizzare qualcuno è altrettanto spesso inutile quando non addirittura ingiusto.

Credo che molto spesso ci portiamo dentro delle convinzioni inconscie nate in tempi antichi che ancora oggi ci influenzano, anche se magari non hanno più molto a che vedere con la realtà e anche se oggi potrebbero potenzialmente smettere di opprimerci e guidarci, proprio perchè non siamo più oggettivamente i bambini indifesi che eravamo. Questo nonostante in tempi non sospetti possiamo averle realmente vissute o percepite.
In alcuni casi poi, da adulti, è anche possibile uno scambio, quantomeno razionale, su alcuni aspetti critici con i propri genitori; ma penso che finchè non si individuano bene i nodi che ci hanno bloccati su questi aspetti profondi e non li si affrontano di petto, il cambiamento rimane più difficile di quanto potrebbe essere.

Io pretendo tanto da me stessa, perchè in un certo senso si è preteso tanto da me in un età in cui non avevo le risorse necessarie per poterlo fare e allo stesso tempo ho vissuto in un ambiente familiare molto chiuso dal punto di vista affettivo. Questa situazione prolungata ha creato dentro di me degli scompensi molto forti di cui sono consapevole da poco e che hanno condizionato tutte le mie realazioni e che in parte ancora mi condizionano.

Vorrei però specificare una cosa che forse ho espresso male o non si è capita. Quando dico che vorrei arrivare a vivere una relazione serena in cui condividermi davvero, non lo dico perchè le sensazioni forti e le passioni che ho provato, condiviso e vissuto in passato non fossero “abbastanza” per me a livello di intensità.
Il punto è proprio che io non cerco più l’intensità estrema delle emozioni, anche perchè non sta lì il mio problema (anzi!), ma piuttosto voglio essere capace di emozionarmi all’interno di un rapporto tranquillo, sereno, soddisfacente, senza che, passata una certa soglia, io debba sentire dentro l’impellenza di fuggire.
Altrimenti passo la mia vita da nomade, anche da me stessa, e questo non lo voglio più.
Io scappo o mi allontano quanto più una persona si avvicina a me, davvero ed emotivamente.
Capisci che se mi accontento della mia modalità/capacità di relazione attuale (o passata..) non farò altro che vivere tante storie adolescenziali (quando non addirittura problematiche) senza darmi la possibilità di costruire qualcosa di solido?
Peraltro in passato la delusione rispetto al fallimento era doppia, perchè io ero convinta invece di sapermi dare e di saper costruire.
Quando arrivava la crisi, per me questo costituiva un vero e proprio shock perchè non riuscivo a capacitarmi del fatto che improvvisamente per me la condivisione costituiva un pericolo, un’incombenza, un disagio, piuttosto che un piacere.
Mentre se, come ben descritto da Veronica, era l’altro a fare un passo indietro o a mantenere le distanze, allora mi sentivo drammaticamente e perennemente rifiutata o abbandonata.

Tengo a precisare che queste sono analisi molto approfondite e che non è stato così semplice arrivarci e comprendermi: a me ed alla maggiorparte delle gente che mi circondava sembrava che io fossi un pò masochista, senza una vera ragione, o che semplicemente “non avessi ancora trovato la persona giusta”. Se quest’ultima considerazione è in un certo senso vera (la persona giusta), ad un certo punto è stato necessario iniziare a scrutarmi dentro un pò più approfonditamente e trasformare quello che ho interiorizzato sottoforma di colpe in responsabilità verso me stessa.

Yana

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

PHILOFOBIA (PAURA D’AMARE)

La signora P. – una patetica, bellissima Ofelia vestita solo di una lacera vestaglia – mi tirò sul divano cui era seduta. “Stiamo vicini, – disse. – Ho fatto una grande scoperta filosofica. Sa che differenza c’è tra vicinanza, somiglianza, uguaglianza e unione ? Vicinanza significa essere vicini, come con lei; quando somigliamo a qualcuno, gli somigliamo soltanto, restiamo due persone distinte; uguaglianza… significa che sei uguale all’altro, ma lui continua a essere lui e tu sei tu; nell’unione, invece non ci sono più due persone… ma una sola, una sola, è orribile… orribile, – continuò a ripetere, poi balzando in piedi in preda a un terrore improvviso, disse: – Non si avvicini troppo, se ne vada dal divano, non voglio essere lei”, e mi aggredì, cercando di spingermi via. Jacoboson in – La depressione – Giunti Barbera (pp.253-254)

 

C’è un termine, poco conosciuto, per definire la paura d’amare ed è PHILOFOBIA, vale a dire la paura d’innamorarsi o di essere innamorati.
Questa paura, nelle sue fasi acute o nei casi più estremi, si manifesta con gli stessi sintomi di un attacco d’ansia o di panico. Come sintomi abbiamo: dispnea, sudore eccessivo, nausea, tachicardia, agitazione ed altri sintomi tipici dell’ansia.
Quali le cause?
Le cause possono essere diverse, e la maggior parte riconducibile ad una sorta di “meccanismo di difesa”, non amiamo per non soffrire.

Ci sono cause che definirei reattivo-situazionali, quali ad esempio una passata e profonda delusione sentimentale che ci ha profondamente ferito al punto di non volerne più sapere d’innamorarci per il timore di soffrire di nuovo o di essere nuovamente delusi.

Altre cause sono riconducibili all’aforisma di C.Pavese “Un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla.” Amare significa denudarsi, gettare la maschera esterna che spesso indossiamo, rivelare le nostre debolezze. Queste cause le ritroviamo, spesso, nelle persone che vogliono a tutti i costi, in tutte le situazioni, dimostrare d’essere forti e l’innamorarsi potrebbe, invece, rivelare tutta la loro debolezza interiore.
Inoltre ci sono cause che affondano nella nostra infanzia, nel rapporto con i nostri genitori. Un esempio, fra i tanti, richieste d’affetto ai propri genitori che non trovano risposta o anzi inducono una loro risposta negativa.

Quando tale paura assume aspetti patologici rapppresenta il timore della perdita dei confini del sè, timore che si presenta in talune malattie mentali. Il brano citato di Jacobson descrive, appunto, il caso di una paziente quasi psicotica.

La psicanalisi è del parere che nell’amore il desiderio di unione coesiste con la paura della fusione, originando una lotta fra queste due forze opposte che nel caso della Philofobia vede uscire vincitrice la seconda.

Ritengo che la paura d’amare è fra le peggiore delle paure, perché ci priva della più bella delle componenti della nostra vita, quella d’amare e di essere amati.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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HYBRIS: PRESUNZIONE D’AMORE

“È per noi sul filo dell’hybris, già esasperata dai rispettivi sistemi originari di apprendimento, che ciascun membro della nostra coppia sceglie un partner ‘difficile’. È proprio con questo che ciascuno vuole ripetere la sfida, che ciascuno pretende di riuscire. Osserviamo come le posizioni dei due nella relazione sono sostanzialmente identiche, simmetrìche. Ciascuno anela spasmodicamente a conquistare il controllo della definizione della relazione. Ma tosto ciascuno riesperimenta, al minimo tentativo, il fallimento temuto” …Usiamo il vocabolo greco originale, in quanto non riducibile al termine orgoglio. Giacché hybris è ben più dell’orgoglio, che è anche sano. Hybris è invece la supponenza, la tracotanza, la tensione simmetrica esasperata al punto da non arrendersi di fronte all’evidenza e alla stessa imminenza di morte” Paradosso e Controparadosso Selvini Palazzoli M., Boscolo L., Cecchin G., Prata G. Editore Raffaello Cortina

 

Il termine hybris viene dal greco e significa arroganza. Tale termine nel mondo greco assumeva una doppia valenza, sia religiosa che civile. Sul piano religioso denotava la convinzione di essere simile ad un dio ed era un atto di superbia punito con severità. Sul piano civile denotava l’arroganza di trattare gli altri secondo il proprio volere senza incorrere in nessuna punizione della società civile.

La prima ad usare il termine HYBRIS è stata la psichiatra milanese Selvini Palazzoli ed i suoi collaboratori a connotare una modalità relazionale tipica delle coppie con “transazioni schizzofreniche”

In questa sede estendo ed uso il termine HYBRIS come “presunzione d’amore” a connotare un atteggiamento ricorrente in chi è affetto da Dipendenza Affettiva. Vale a dire la presunzione d’essere amati o di essere amati come vorremmo da chi non è disposto ad amarci o ad amarci nel modo che vorremmo. Tale “pretesa o arroganza” potrebbe essere un segnale della presenza della componente narcisistica nelle personalità dipendenti.

Come nell’antica grecia il termine hybris connotava gli esseri umani che volevano superare i propri limiti, sfidando gli dei, così, attraverso una concezione estremamanente romantica dell’amore, il dipendente affettivo vuole superare ogni limite, anche il volere dell’altro. Con quali conseguenze per se stessi e per l’altro si può immaginare.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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